Due parole stanno diventando con sempre maggiore evidenza le bandiere della
neodestra che inizia
a governarci: "sicurezza" e "radici". Intorno alle emozioni, agli stati
d'animo e ai pensieri da esse
evocati sta prendendo corpo il tentativo di costruire una vera e propria
opinione di massa:
l'ideologia del guscio, potremmo definirla; l'ideologia dell'Italia che si
riconosce secondo tradizione
e si protegge, del ripiegamento difensivo della nostra società come scelta
necessaria e vincente, di
fronte ai pericoli esterni e interni che ci minacciano. Per adesso, la
sinistra cerca di inseguire, e
disastrosamente; non di replicare. Non ha nulla da opporre, se non il
collasso delle sue idee e dei
suoi simboli (di cui ha appena ben detto Giancarlo Bosetti su "Repubblica"
del 7 maggio). Ed è
grave: perché quella che si profila è un'autentica battaglia per l'egemonia,
per determinare il clima
culturale nel quale ci muoveremo nei prossimi anni.
L'Italia di oggi ci restituisce per mille segni l'immagine di un paese
spaventato, incerto, provato. La
recessione economica le sta divorando le riserve e scoprendo i nervi. Siamo
già abbastanza avanzati
da godere massicciamente dei vantaggi della globalizzazione, ma ancora tanto
fragili da non riuscire
ad assorbirne ed elaborarne in modo adeguato gli effetti dirompenti: la
multietnicità spinta, la
competitività sempre più serrata, l'immedicabile precarietà di quella che è
stata chiamata
"l'economia politica dell'incertezza". Percepiamo il futuro come una
minaccia, non come una
speranza, e questo toglie razionalità ai nostri comportamenti pubblici e
privati. Ci sentiamo
abbandonati a noi stessi, e avvertiamo di continuo che i nostri piani
individuali di vita sono nelle
mani di forze fuori controllo, sulle quali non possiamo esercitare alcuna
influenza. Questa
sensazione di "solitudine" non è certo soltanto nostra; è anch'essa un
fenomeno globale, un dato
strutturale del tempo. Ma da noi è più forte che altrove, perché qui è
dilatata e ampliata dalla
presenza di altri elementi, solo nostri, o da noi più marcati e invasivi: la
debolezza – quando non
l'assoluta inconsistenza – dello Stato, la frantumazione sociale, l'assoluto
discredito della politica, in
gran parte dovuto all'inamovibilità "castale" del suo personale.
La neodestra italiana sta dimostrando di saper intercettare quest'ansia,
espressa soprattutto dalle
fasce sociali più esposte, e di saper trovare la chiave per rivolgersi a
quella parte del paese che si
sente maggiormente a rischio e in pericolo, e darle voce e rappresentanza.
Essa ora non voleva
ascoltare più di libertà, ma di "sicurezza" – di un'Italia più protetta, di
un'Italia che sappia
difendersi. Ma da che cosa, esattamente?
Sappiamo bene – Bauman l'ha spiegato con esemplare chiarezza – che in
situazioni di
trasformazione veloce come quella che stiamo attraversando agisce in
profondità un meccanismo di
psicologia collettiva che tende a spostare sul piano del timore per la
propria incolumità personale –
per la propria "sicurezza" anche fisica –molta di quella che in origine si
presenta piuttosto per
ciascuno di noi come ansia da precarietà sociale, da deficit di futuro, da
perdita di controllo sul
proprio destino. Questo slittamento – che ognuno può facilmente sperimentare
su se stesso – offre
un'opportunità impareggiabile alla persuasione politica. Mentre infatti è
più difficile proporre rimedi
all'angoscia indotta dal mercato globale, se però la paura si trasferisce e
si fissa sulla minaccia
immediata e materiale alla nostra vita e ai nostri beni, allora è più
semplice immaginare di avere a
portata di mano una soluzione, di poter ricostruire – anche simbolicamente –
un guscio. Mettere in
sicurezza una strada o un quartiere (o aver l'apparenza di farlo) è più
agevole che pretendere di
regolare i flussi mondiali dei capitali finanziari o i rapporti fra mercato
e innovazioni tecnologiche.
Se a questo si aggiunge che effettivamente, in alcune realtà italiane, c'è
stato un problema di
eccessiva passività verso forme endemiche di (micro) criminalità, e si
aggiunge anche che sul fronte
più complesso, quello dell'ansia che resta comunque concentrata sulla
precarietà indotta
dall'economia, non si esita a prospettare soluzioni protezionistiche, in un
contesto culturale di critica
antimoderna dell'universo globalizzato, ecco che i giochi son fatti, e il
messaggio si completa.
Bisogna alzare le mura: sottrarsi alla sfida, uscire dal vento, isolare in
qualche modo il nostro
sistema produttivo e concentrarsi invece sulla nostra incolumità personale.
Il discorso sulle "radici", che oggi ci viene riproposto secondo tante
versioni, a ben guardare non è
che l'altro versante di questa stessa impostazione. Qui non si suggerisce
più di alzare barriere, di
esorcizzare l'incertezza globale con le passeggiate di ronde (più o meno)
armate, ma di scavare nel
deposito delle nostre tradizioni, alla ricerca – anche questa volta – di
certezze, che vengano bell'e
pronte dal passato, e che non comportano la fatica del confronto e della
reinvenzione. Noi siamo chi
siamo: italiani, cristiani, europei, e ce lo dicono per sempre il sangue e
la terra. Basta star fermi:
radicati, appunto. Come alberi, non come persone.
Ma di nuovo: è su un Paese allarmato e stanco che fa presa questo modo di
ragionare. Su un Paese
che può pensare di usare un simile fittizio sovraccarico identitario come
un'arma da brandire contro
l'insidia dell'"altro" che ci fronteggia già sulla porta di casa.
Se le cose stanno così, emerge un profilo importante, sul quale non credo si
stia riflettendo
abbastanza: e cioè che lo schieramento della neodestra italiana, insistendo
tanto sul binomio
"sicurezza-radici" nel senso che abbiamo appena descritto, abbia rovesciato
la sua posizione verso
la rivoluzione dei mercati e della tecnica, rispetto alle posizioni
sostenute dal blocco berlusconiano
a metà degli anni novanta; si sia, per dir così, in qualche modo
ideologicamente "leghizzato" e
anche "finizzato", ma insieme profondamente "deberlusconizzato": passando da
interprete liberale e
liberista della nuova modernità, a critico conservatore e tendenzialmente
antimoderno dei tempi che
si annunciano. Lo ha fatto per una ragione importante: dar voce a un Paese
stressato e incupito. Ci
sta riuscendo. Ma sta pagando un prezzo: non è più in onda con il
cambiamento. Va bene (per lui)
fin quando dura lo snervamento italiano. Ma se troveremo la forza di
rimetterci in cammino,
avremo bisogno di ben altro che di retorica delle radici o di coltivare
sindromi da solitudine del
cittadino globale. C'è chi sta lucrando (politicamente) sulla nostra
stanchezza. Dobbiamo saper
curare la malattia che l'ha provocata, e non rispondere solo ai suoi
sintomi. E' questa la strada
giusta.