Sulla laicità. "Sogno una ricerca culturale aperta al confronto"
intervista a Piero Stefani a cura di Fiorenzo Baratelli
Parafrasando il poeta Hölderlin ci si può chiedere: che può fare l'uomo di cultura in tempi di
penuria? Innanzitutto usare un linguaggio chiaro e onesto: in ciò consiste la moralità di un
intellettuale. Questo dialogo con Piero Stefani ne è un esempio eccellente. Le sue parole entrano
con il passo morbido di una presenza discreta e persuasa che si fa largo attraverso precisi e
rispettosi confronti. E tutto senza un grammo di grasso predicatorio o moralistico.
Che visione hai della laicità? La parola 'laico' è una delle più difficili da circoscrivere, tu come
la intendi?
Nell'uso italico vi sono due significati di fondo: primo, laico come una persona che non basa le
proprie convinzioni su una fede e su una pratica religiose; secondo, laico è chi, nell'ambito della
Chiesa cattolica, non è né prete, né frate, né suora. Quanto colpisce è che, nell'uno e nell'altro caso,
si ricorre a un linguaggio basato su delle negazioni.
È inevitabile?
Nient'affatto. Per l'accezione interna alla Chiesa il discorso è molto piano: laico è un qualsiasi
appartenente al popolo di Dio, vale a dire è ogni battezzato: qui sta la base comune, e il fondamento
di tutto il resto. Questa è stata una delle grandi intuizioni del Concilio Vaticano II che ha inciso di
più sulla vita del cattolicesimo, anche se avrebbe potuto farlo in modo ben più marcato se non fosse
stata frenata da un ritorno di clericalismo. Con quest'ultima parola si intende un atteggiamento e
non un'appartenenza.
Ci sono molti preti e suore laici e molti laici clericali. I sacerdoti sono laici quando si pensano al
servizio del popolo di Dio di cui si sentono parte al pari di tutti gli altri fedeli. Ne consegue che un
compito imprescindibile per questi preti è il confronto con la vita reale della gente, e diventa
inevitabile che questi sacerdoti pongano la loro azione pastorale sotto il primato della misericordia:
una realtà esigente, non si tratta di indulgenza a buon mercato, ma di comprensione.
I preti sono clericali quando ritengono di aver il diritto di dirigere i fedeli e di controllarne i
comportamenti pubblici. Di conseguenza collocano i laici in una posizione ancillare e li considerano
una 'cinghia di trasmissione' rispetto alla vita civile. Oppure sono clericali - ed è un'accezione
frequente - quando ritengono che la difesa dell'istituzione ecclesiastica faccia parte integrante della
vita di fede. Questa forma mentis è propria anche di molti fedeli laici, specie se appartenenti a
gruppi o ad associazioni. Ho così cominciato a chiarire anche l'altra faccia della medaglia: i laici
clericali sono quanti ritengono loro compito di fede la difesa pubblica delle istituzioni cattoliche e
pensano che la Chiesa debba essere considerata da tutti una guida per la società. Ciò vale anche
quando i laici sono sinceri e non solo quando, come avviene troppo spesso ai nostri giorni, si
limitano a declinare il problema in termini di bassa cucina politica.
Ma questo dividere le appartenenze tra 'noi' e 'loro', il riflesso difensivistico, ecc. non li vedo
solo dentro la Chiesa cattolica.
Certamente. Non c'è clericalismo solo lì. Ma per chiarire il punto dobbiamo riprendere a parlare
dell'altra metà del cielo. Dicevo in apertura che si definisce laico chi non fonda i propri valori e non
basa le proprie convinzioni su una fede e su una pratica religiose. La debolezza della laicità in Italia
è di essersi pensata soprattutto in modo 'negativo', il che molte volte l'ha portata a definirsi
semplicemente in termini 'anticlericali'. Proprio questa contrapposizione ha fatto sì che anch'essa
fosse vittima di una peculiare forma di 'clericalismo'. Nella storia dell'Italia unita laicismo e
clericalismo sono stati sempre gli estremi di uno stesso asse a dondolo: hanno bisogno l'uno
dell'altro. A volte il peso è più da una parte a volte più dall'altra, ma l'asse resta lo stesso. Occorre
trovare una definizione positiva di laicità.
Quale può essere?
Ritengo che si possa dire così: laico è colui che pensa e cerca di agire osservando i diritti umani e
lottando perché tutti li rispettino. Si tratta, è ovvio, di un'approssimazione, perché è ben noto quali
siano le difficoltà relative alla fondazione teorica dei diritti e di conseguenza quale sia il raggio
della loro estensione. Comunque fare appello ai diritti umani significa, in sostanza, postulare, senza
ricorrere a Dio (o a suoi surrogati ormai indifendibili come la legge naturale), la dignità della
persona umana, la libertà di coscienza, il diritto alla vita esteso anche alla sfera sociale del lavoro (e
in Italia, drammaticamente, pure a quella della sua sicurezza). Va da sé che quando i credenti
agiscono nella polis debbono basarsi solo su questi diritti, vale a dire richiamarsi a quanto è comune
a tutti. Inoltre, quando i credenti legittimamente discutono sugli estremi della loro applicazione,
dovrebbero essere obbligati a cercare di persuadere gli altri senza ricorrere a termini derivati dalla
fede.
E gli intellettuali? Ricorderai senz'altro un famoso saggio sugli intellettuali di tanti anni fa che
parlava di 'Tradimento dei chierici'.
L'espressione creata da Jules Benda è ormai anacronistica. Più che di tradimento si dovrebbe oggi
parlare di galleggiamento. Nel mondo dei media l'intellettuale deve essere sempre visibile e dunque
essere comunque sopra il pelo dell'acqua. Per far ciò deve cercare appoggi, chiedere e prestare
favori, ottenere finanziamenti, essere ospite di trasmissioni televisive, mettersi al servizio dei
potenti di turno ossequiandoli o, al contrario, - e non sembri un paradosso - attaccandoli
ferocemente, si sa che l'importante è che si parli del 'potente' qualunque cosa si dica. La polemica
trasformatasi in rissa è un terreno eccezionalmente fertile per l'odierno intellettuale mass-mediatico.
Se non accetta le regole del gioco non è vero che l'intellettuale non abbia più alcuno spazio e che gli
sia negata ogni possibilità di essere una coscienza critica. Anzi, lentamente la sua autorità può
perfino crescere (e in questo caso autorità è parola opposta a potere), ma la sua sfera di influenza
sarà per forza di cose sempre molto stretta, elitaria anche quando non ha intenzione di esserlo. Il
paradosso - qui il termine c'è tutto - è che questo tipo di intellettuale deve contare sui tempi lunghi,
in un'epoca in cui ogni cosa si manifesta (e si brucia) in tempi brevissimi. Perciò egli è costretto a
essere un disadattato rispetto al mondo di oggi. Nei nostri giorni il pensiero libero ha una sola
alleata fedelissima ed esigente: la pazienza.
in “Koinonia” dell'aprile 2008