Il passaggio da sinistra a destra
di numerosi elettori popolari ha prodotto in Italia stupore triste o
divina sorpresa, ma è un fenomeno non nuovo nelle democrazie e come
spesso succede è in America che s'è manifestato negli ultimi decenni,
estendendosi poi all'Europa. In realtà è fenomeno antico la
Germania prehitleriana conobbe analoghe saldature tra sinistre e
destre estreme e se oggi si ripropone con forza è perché alcune
componenti riappaiono. Tra esse c'è il risentimento, questa passione che
dà immenso ardimento all'individuo che si sente abbandonato e solo nella
società, e che il massimo della potenza la raggiunge quando diventa
risentimento territoriale, tribale, di classe. Nietzsche dà a tale
passione il nome di morale dello schiavo, perché l'uomo del risentimento
ha l'impressione quasi fiera di non poter mai raggiungere il benessere o
il potere cui aspira. «Il No, spiega nella Genealogia della Morale,
è la sua azione creatrice». Il no è opposto a tutto quello che è
«fuori», «altro», che è «non io».
Una prima risposta all'esodo dei poveri verso destra è venuta in queste
settimane da Barack Obama. È accaduto il 6 aprile a San Francisco,
quando il candidato democratico alle primarie presidenziali ha spiegato
alcuni tratti di tale esodo. Nelle piccole città colpite dalla crisi,
ha detto, l'amarezza è tale che la persona si sente perduta, ed è
a quel punto che s'aggrappa non a reali soluzioni del disagio economico,
ma a valori e stili di vita sostitutivi, culturalmente consolatori:
l'uso delle armi o della religione, la ripugnanza del diverso, dello
straniero.
Amarezza e frustrazione sono varianti del risentimento descritto da
Nietzsche, e negarne la realtà vuol dire fuggirla. Sono decenni che le
cosiddette questioni culturali sono invocate in America per occultare
difficoltà e misfatti economici. Obama è stato giudicato ingenuo,
imprudente: avrebbe offeso gli operai, guardandoli dall'alto e
comportandosi come uno snob, un elitario (in Italia si dice anche:
antipatico). Non è detto che siano critiche errate, ed è vero che Obama
rischia molto, sin dalle primarie di martedì in Pennsylvania.
Ma perdere le battaglie non significa aver torto, e i numeri delle urne
non ti danno automaticamente ragione: cosa spesso trascurata da
commentatori improvvisamente dimentichi di quel che il prosindaco
leghista di Treviso Gentilini dice a proposito del ventennio fascista
(«il ricordo di una maschia gioventù che lavorava, faceva il suo dovere,
ubbidiva alle leggi») o delle parole proferite dall'onorevole leghista
Salvini («i topi sono più facili da debellare degli zingari. Perché sono
più piccoli»). Quel che vince è piuttosto un malinteso, sui valori come
sulla povertà: lo stesso malinteso che affligge oggi Obama. L'amarezza
di cui ha parlato il candidato è cosa tangibile, dopo le tante promesse
non mantenute di Bush, ma d'un tratto è lui ad aver offeso i poveri, la
gente comune non beneficata da regali fiscali, il lavoratore autentico
che fatica a sbarcare il lunario.
Da parecchi decenni la destra americana si è fatta paladina dei
poveri e delle classi medie declassate, e con Bush junior la
vocazione s'è ancor più sdoppiata: impoverire i deboli, e scaricare
su altri la responsabilità dell'impoverimento. Nel 2004 hanno votato
per lui numerose regioni immiserite. Il risentimento che generalmente
appartiene alle sinistre è passato a destra, e proprio questo ha voluto
dire Obama parlando di quei valori divisivi (le cosiddette wedge
questions con cui i repubblicani svuotano l'elettorato democratico:
religione politicizzata, aborto, matrimoni gay, controllo delle armi).
In Francia sono valori divisivi il nazionalismo, e il rancore contro una
sinistra sospettata di transigere su immigrati, sicurezza, ed erede di
quel terribile Sessantotto ripetutamente denunciato in America, Francia
e Italia.
Il malinteso su valori e povertà è acutamente analizzato da Thomas Frank,
in un libro pubblicato in concomitanza con la seconda vittoria di Bush (What's
the Matter With Kansas? How conservatives won the heart of America,
2004). Obama ha forse sbagliato a usarne gli argomenti, ma le cose
narrate nel libro restano importanti e valgono anche in Europa. Il
risentimento ha infatti bisogno, per continuare a infiammare, di
un'indignazione che non scema e anzi si dilata, indipendentemente dai
risultati elettorali. L'uomo del risentimento rinasce contemplando se
stesso, e il se stesso che contempla è non solo insoddisfatto ma
eternamente marginale, minoritario, vittima di un'élite dominante che lo
tiranneggia e l'imbavaglia. Dell'élite fanno parte i liberal americani
(le sinistre europee) e il loro potere è considerato enorme, soffocante,
invincibile. Essi agiscono attraverso i giudici, gli universitari, i
giornalisti, gli intellettuali, anche quando questi ultimi si spostano a
destra.
Qui è la menzogna, che occulta la realtà per istinto e strategia.
La conquista dei ceti popolari avviene fingendo che la maggioranza
conservatrice, anche quando ha tutti i poteri come in America
(parlamento, Corte suprema), anche quando regna su affari ed economia,
sia una maggioranza perseguitata. Gli uomini di sinistra, ai suoi
occhi, sono al potere comunque, poco importa se eletti o no: il
progressismo liberal domina anche se i Repubblicani hanno vinto sei
elezioni presidenziali su nove dal 1968; anche quando i Repubblicani
controllavano tutti i poteri dello Stato. «Al di là della politica, il
liberalismo è un tiranno che domina la nostra esistenza nei modi più
svariati e rovesciarlo è praticamente impossibile».
L'oppressore e il prepotente quasi sempre s'atteggiano a vittima.
L'ideologia del ressentiment è questo: ritenersi in ogni caso
e sempre un outsider, un emarginato, anche quando si hanno le leve del
potere. È un dispositivo centrale dei successi di Bush,
Sarkozy, Berlusconi: per vincere, occorre che l'indignazione
non si raffreddi mai, dunque che la realtà sia a intervalli regolari
falsata. Se un giornalista come Marco Travaglio scrive che in Italia
permangono conflitti d'interessi e corruzione è considerato subito non
un outsider, come irrefutabilmente è, ma un nemico straordinariamente
forte e minaccioso. Basta un solo dissidente, basta un giornale
minoritario come l'Unità, e gli outsider vincitori si sentono assediati
da orde vastissime. Nelle dittature basta l'1 per cento di
dissenso ed è panico.
Frank racconta come questo risentimento populista abbia fatto presa
nell'800 sulla sinistra in Texas, ad esempio, e sia stato poi
disinvoltamente catturato dalla destra. Perché ciò avvenisse sono
cambiate le antiche linee divisorie: la lotta di classe contrapponeva
operai e padroni, poveri e ricchi, sopra e sotto, mentre oggi ci
si divide tra assistiti o parassiti e salariati, tra bianchi e neri, tra
chi è fuori e chi dentro, tra chi si sveglia all'alba dice Sarkozy
e chi dopo. Ma soprattutto ci si divide culturalmente: tra snob e
autentici, tra antipatrioti come Obama (non porta la spilla con la
bandiera Usa sulla giacca) e nazionalisti, tra relativisti e devoti,
magari calcolatori ma pur sempre devoti.
La sinistra ha molto da fare, se vuol arrestare la parte menzognera
dell'esodo e convincere i fuggitivi che ha perduto per propria
insipienza, per propria incapacità di dar risposte razionali alle
nuove povertà, ai nuovi bisogni popolari. Si tratta di ricominciare a
parlare di economia, di malaffare, di legalità, obbedendo
inflessibilmente al principio di realtà. Si tratta di denunciare il
potere dove realmente si esercita. Si tratta di rivalutare la sicurezza,
senza criminalizzare i giudici ma rendendoli più rapidi e presenti in un
settore l'immigrazione che sarà sanato dalla legge uguale per tutti
oltre che dall'ordine. Si tratta di dire le cose come stanno: è la più
appassionante delle avventure, se solo si designa l'avversario senza
aver paura della falsa paura che si incute.
Barbara Spinelli
La Stampa 20/4/08 |