G8: il dovere della verità

Il racconto del processo per le violenze, le torture, le vessazioni compiute da poliziotti carabinieri e agenti penitenziari (dinanzi al silenzio complice di alcuni medici e infermieri) a Genova durante il G8 del luglio 2001 non smette di affidarmi una domanda, semplice, necessaria, e forse perfino doverosa: chi si farà carico nel tempo, come dovere civico, delle ragioni di una denuncia che non può restare lettera morta? E questo al di là dell’esito del processo stesso che, se ho letto bene, si concluderà con la prescrizione dei reati comunque accertati. Mi chiedo, insomma, se prevarrà una sorta di realpolitik che prevede in definitiva il silenzio, un silenzio che, sempre nella storia italiana, corrisponde a una scarsa idea della vera legalità repubblicana a favore semmai del ricatto, del timore che taluni apparati dello stato debbano aver garantita comunque l’impunità, perché è meglio così, perché a pretendere chiarezza si corre davvero il rischio di passare per estremisti, a meno che non si desideri destabilizzare il sistema. Non mi stupisce che la destra, perfino quella populista, non senta il problema come uno dei nodi irrisolti della storia civile più recente, mi stupisce semmai che perfino per altri, persone più prossime a noi, si tratta di acqua passata, ma sì, quel che è stato è stato, guardiamo avanti per il bene di tutti. Non mi stupisce che Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, non senta la necessità di spendere una sola parola delle sue su una catena di episodi che narrano la sospensione delle garanzie democratiche, meglio, narrano l’illegalità e l’abuso di potere, del potere. Non mi stupisce che Gianfranco Fini, lui che viene da una storia cui è caro il concetto di "ordine, disciplina e gerarchia" (e lo dico non necessariamente pensando al fascismo!), non abbia mai sentito il dovere di spiegare che ruolo abbiano avuto alcuni uomini del suo partito e del governo che lo vedeva in una posizione eminente nella vicenda che mette insieme i nomi di Bolzaneto, della Diaz e di Carlo Giuliani ucciso in piazza Alimonda, non mi stupisce ben oltre le mille considerazioni che, d’istinto, anche volendo semplificare, potremmo fare sul caso.
Il racconto delle violenze da centinaia di cittadini subite che emergono ancora adesso nel corso del processo mostrano qualcosa di inaudito e di inaccettabile, ed è altrettanto inammissibile che una voce di fondo suggerisca di ritenerle ora e sempre un fatto privato, una disgrazia subita per leggerezza, visto che sarebbe bastato non essere presenti a Genova in quel luglio del 2001 per non ritrovarsi ancora qui a pretendere un risarcimento per le ferite fisiche e morali subite. D’altronde, è noto che la polizia non può andare troppo per il sottile, e via con i mille argomenti dell’inammissibilità di certe accuse. E non basta che la crepa a una richiesta di omertà complice sia giunta anche dal di dentro, da un poliziotto che ha definito alcuni di quei fatti una vera "macelleria messicana".
Chi si farà carico del bisogno di giustizia di coloro che hanno subito? Non mi sembra che fra gli argomenti della campagna elettorale in corso coloro che hanno a cuore le ragioni della democrazia fino a serbarla al centro del loro simbolo abbiano speso qualche parola sui nostri fatti che non sembrasse un semplice discorso di circostanza, non mi pare proprio, ma se fosse proprio questo un punto dirimente per non sentirsi estranei a ciò che avverrà nel prossimo aprile? Ha detto Marco Poggi, l’infermiere penitenziario che ha denunciato i fatti di Bolzaneto: "Vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto è questa la mia amarezza".
f.abbate@tiscali.it

Fulvio Abbate    l’Unità 19.3.08
 

 



"Torture e impunità nell'inferno di Bolzaneto"
Genova, il dossier dei pm: nella caserma tutti sapevano e tollerarono violenze disumane


Lì dentro ci furono comportamenti crudeli e una sistematica violazione dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali
Gli agenti picchiavano, insultavano e qualcuno diceva che con Berlusconi al governo poteva fare quello che voleva
Alcuni giovani vennero messi in fila e costretti a fare il saluto romano, cantare Faccetta Nera e dire "Viva il Duce"
Vi è stata una volontà diretta a vessare quelle persone per quello che rappresentavano: tutti appartenenti all´area no global
Gli abusi non furono un´esplosione improvvisa: troppo grave il silenzio di tutti Questo ha provato il processo

GENOVA - Nella memoria dei pubblici ministeri di Bolzaneto, il termine Duce compare 48 volte. Mussolini, 8 volte. E 28 Pinochet, 9 Hitler, una Francisco Franco. Nelle 791 pagine consegnate ieri durante il processo al carcere speciale del G8, si ripetono all´infinito quattro sostantivi: rispetto, legalità, difesa, pietà. Ma queste sono parole, scrivono i pm, «cancellate dalla semplice crudeltà dei fatti». Parole annullate da «comportamenti inumani, degradanti, crudeli», dalla «sistematica violazione dei diritti dell´uomo e delle libertà fondamentali». Dalle violenze, dagli abusi psicologici, dalle minacce, dalle privazioni, dalle offese: tutte accompagnate da un costante richiamo fascista, con i detenuti costretti ad urlare «Viva il Duce!» e ad esibirsi in umilianti sfilate con il braccio teso in un grottesco saluto romano, mentre un telefonino rimanda sinistra la musica di Faccetta Nera. «Bastardi rossi!». «Voi, dei centri sociali!». «Ebrei di merda!». «Zecche comuniste!». «Bombaroli!». «Popolo di Seattle, fate schifo!».
Luglio 2001, tortura
Tre giorni e tre notti che «non potranno essere dimenticati», spiegano i pm Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati, ben sapendo che da sette anni c´è chi gioca col calendario e fa spallucce, contando sulla prescrizione. E però resta questo sofferto documento, di sette capitoli. Che risponde a due istanze fondamentali. La prima è di ordine tecnico-giuridico: fornire le prove inconfutabili di ciò che è accaduto, usando le parole delle vittime e chiarendo perché sono attendibili dalla prima all´ultima parola. La seconda è lasciare un documento storico. Esemplare. Una memoria, appunto, proprio perché nessuno dimentichi. Con l´augurio che il reato di tortura - «questo fu, a Bolzaneto» - venga un giorno disciplinato dal nostro codice penale.
«Con Berlusconi facciamo quello che vogliamo»
Un capitolo, il terzo, è dedicato alle deposizioni dei 209 fermati. Indicati uno per uno. Nome, cognome, scheda segnaletica, fotografia, impronte. È un lungo racconto dell´orrore, basta pescare a caso. Nicola N., Siena, 1981: «Nel corridoio già dall´arrivo deve camminare a testa bassa. Prima di farlo entrare in cella lo fanno inginocchiare davanti alla cella e gli danno due pugni in faccia ed un calcio. Deve stare in piedi con le mani legate dietro alla schiena, ad un certo punto in ginocchio. Ad ogni spostamento viene colpito con calci, pugni, schiaffi colpi a mano aperta nella schiena e ginocchiate nello stomaco. Gli agenti gli dicono di tenere la testa bassa perché è un essere inferiore e non degno di guardarli in faccia, che è una merda e che con Berlusconi possono fare quello che vogliono».
«Ti piace il manganello?»
Ester P., Pinerolo, 1980: «Durante il passaggio nel corridoio riceve calci e sberle al passaggio, e insulti. "Puttana, troia". In bagno l´agente-donna le schiaccia la testa verso il basso sino a quasi toccare la turca mentre dal corridoio gli agenti la insultano con parole: "Puttana, troia, ti piace il manganello?". Dalla cella vede un ragazzo nel corridoio colpito con manganellate ai testicoli. In infermeria deve spogliarsi completamente e la fanno uscire nel corridoio in mutande e reggiseno. Prima della traduzione degli agenti con divisa grigia la fanno mettere in fila con gli altri e fanno fare loro il saluto romano, cantare "Faccetta Nera" e dire "Viva il Duce"».
Il taglio del codino
Adolfo S., spagnolo, Reicon de Olivedo, 1970: «Nel corridoio lo mettono in piedi contro il muro e mentre è in questa posizione descritta, gli agenti gli tagliano il codino. In bagno viene nuovamente percosso con la porta dello stanzino e dove gli agenti buttano nella tazza il codino tagliato e lo obbligano ad urinarvi sopra. Mentre è in corridoio viene riconosciuto da un agente che lo aveva identificato per strada che chiama un collega; lo portano poi in bagno, gli danno due forti colpi, lo chiudono nello stanzino e continuano a colpirlo; poi un agente, che a lui pare indossare la divisa dei carabinieri, gli mostra un distintivo e gli dice: "Avete ucciso un mio collega". Trascorre la notte al freddo, senza cibo e senza acqua e continua a ricevere colpi sino a che al mattino viene portato via».
«Non rivedrai i tuoi figli»
Valerie V., francese, Perpignan, 1966: «Fanno pressione per farle firmare un documento, le danno colpi a mano aperta sulla nuca, le mostrano le foto dei figli sul passaporto e le dicono che se non firma non li avrebbe più rivisti. Riceve anche insulti del tipo: "Comunisti, rossi". Sente urla dal corridoio e da altre celle, e supplicare. Sente che gli agenti fanno versi gutturali come di animali. Ricorda in cella chiazze di sangue e di vomito, e sente odore di urina. Non le danno da bere né da mangiare. Riesce a bere solo un po´ d´acqua da un lavandino, prima di essere picchiata. Ricorda una ragazza americana in cella con lei, Teresa. Viene ammanettata con lei. La rivede nel carcere di Alessandria, e questa volta ha lividi su tutto il corpo».
L´impunità
Non ci furono casi isolati, scatti improvvisi di rabbia. I pm spiegano che «l´istruttoria dibattimentale ha dimostrato una pluralità di comportamenti vessatori perduranti nell´arco di tutti i giorni di presenza degli arrestati». «Vi è stata una volontà diretta a vessare le persone ristrette nel sito, a lederle nei loro diritti fondamentali proprio per quello che rappresentavano: tutti appartenenti all´area no global e partecipanti alle manifestazioni ed ai cortei contro il vertice G8». «Non crediamo ad esplosioni improvvise di violenze. Il processo ha provato che i capi ed i vertici di quella caserma hanno permesso e consentito, con il loro comportamento e con la gravità delle loro consapevoli omissioni, che in quei tristi giorni si verificasse una grave compromissione dei diritti delle persone. Perché è questo ciò che il processo ha provato essere accaduto. Troppo grave è stato il concorso morale in tutte le sue forme, troppo grave la tolleranza, troppo grave ogni mancato dissenso da comportamenti violenti e scorretti, troppo grave anche solo il loro silenzio e la loro inerzia, troppo grave il rafforzamento del diffuso senso d´impunità che ne è conseguito».
La giustizia frustrata
La frustrazione dei magistrati è evidente. Citano Cesare Beccaria, Pietro Verri e Antonio Cassese, già presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene e dei trattamenti inumani o degradanti. «A Bolzaneto fu tortura», ripetono. E per dare forza alle loro argomentazioni, rimandano ad una serie di precedenti internazionali. Ricordano il caso Irlanda contro Regno Unito del gennaio di trent´anni fa, in cui si dà conto delle «torture» subìte dai simpatizzanti irlandesi da parte dell´esercito britannico. Ma a differenza di tutti gli altri paesi, sottolineano, l´Italia non si è mai adeguata alla Convenzione europea dei diritti dell´Uomo. L´ha sottoscritta nell´89, però il codice penale quel reato non lo ha mai disciplinato. Tortura. «Altrimenti, gli imputati avrebbero dovuto essere condannati a pene comprese tra i due e i cinque anni di reclusione». Invece di anni ne hanno potuti chiedere 76, suddivisi tra 46 persone. Che «avrebbero dovuto comportarsi come caschi blu dell´Onu». E invece trasformarono quella caserma in «un inferno».

Massimo Calandri   Repubblica 19.3.08

 

 


La verità sulle violenze al G8 di Genova
Le torture a Bolzaneto e la notte della democrazia


Genova: senza il reato di tortura, pene lievi e prescritte per gli imputati

C´era anche un carabiniere "buono", quel giorno. Molti "prigionieri" lo ricordano. «Giovanissimo». Più o meno ventenne, forse «di leva». Altri l´hanno in mente con qualche anno in più. In tre giorni di «sospensione dei diritti umani», ci sono stati dunque al più due uomini compassionevoli a Bolzaneto, tra decine e decine di poliziotti, carabinieri, guardie di custodia, poliziotti carcerari, generali, ufficiali, vicequestori, medici e infermieri dell´amministrazione penitenziaria. Appena poteva, il carabiniere "buono" diceva ai "prigionieri" di abbassare le braccia, di levare la faccia dal muro, di sedersi. Distribuiva la bottiglia dell´acqua, se ne aveva una a disposizione. Il ristoro durava qualche minuto. Il primo ufficiale di passaggio sgridava con durezza il carabiniere tontolone e di buon cuore, e la tortura dei prigionieri riprendeva. Tortura. Non è una formula impropria o sovrattono. Due anni di processo a Genova hanno documentato – contro i 45 imputati – che cosa è accaduto a Bolzaneto, nella caserma Nino Bixio del reparto mobile della polizia di Stato nei giorni del G8, tra venerdì 20 e domenica 22 luglio 2001, a 55 "fermati" e 252 arrestati. Uomini e donne. Vecchi e giovani. Ragazzi e ragazze. Un minorenne. Di ogni nazionalità e occupazione; spagnoli, greci, francesi, tedeschi, svizzeri, inglesi, neozelandesi, tre statunitensi, un lituano.

Oggi la caserma non è più quella di allora: e i "luoghi della vergogna" sono stati cancellati
Manganellate, minacce, insulti, botte e umiliazioni: tutto ricostruito al processo da più di trecento testimoni Episodi documenti, provati
In quei tre giorni poliziotti e carabinieri rinchiusero per ore studenti, operai e professionisti.

Studenti soprattutto e disoccupati, impiegati, operai, ma anche professionisti di ogni genere (un avvocato, un giornalista…). I pubblici ministeri Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati hanno detto, nella loro requisitoria, che «soltanto un criterio prudenziale» impedisce di parlare di tortura. Certo, «alla tortura si è andato molto vicini», ma l´accusa si è dovuta dichiarare impotente a tradurre in reato e pena le responsabilità che hanno documentato con la testimonianza delle 326 persone ascoltate in aula.
Il reato di tortura in Italia non c´è, non esiste. Il Parlamento non ha trovato mai il tempo - né avvertito il dovere in venti anni - di adeguare il nostro codice al diritto internazionale dei diritti umani, alla Convenzione dell´Onu contro la tortura, ratificata dal nostro Paese nel 1988. Esistono soltanto reatucci d´uso corrente da gettare in faccia agli imputati: l´abuso di ufficio, l´abuso di autorità contro arrestati o detenuti, la violenza privata. Pene dai sei mesi ai tre anni che ricadono nell´indulto (nessuna detenzione, quindi) e colpe che, tra dieci mesi (gennaio 2009), saranno prescritte (i tempi della prescrizione sono determinati con la pena prevista dal reato).
Come una goccia sul vetro, penosamente, le violenze di Bolzaneto scivoleranno via con una sostanziale impunità e, quel che è peggio, possono non lasciare né un segno visibile nel discorso pubblico né, contro i colpevoli, alcun provvedimento delle amministrazioni coinvolte in quella vergogna. Il vuoto legislativo consentirà a tutti di dimenticare che la tortura non è cosa «degli altri», di quelli che pensiamo essere «peggio di noi». Quel "buco" ci permetterà di trascurare che la tortura ci può appartenere. Che - per tre giorni - ci è già appartenuta.

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Nella prima Magna Carta - 1225 - c´era scritto: «Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, spossessato della sua indipendenza, messo fuori legge, esiliato, molestato in qualsiasi modo e noi non metteremo mano su di lui se non in virtù di un giudizio dei suoi pari e secondo la legge del paese». Nella nostra Costituzione, 1947, all´articolo 13 si legge: «La libertà personale è inviolabile. È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà»

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La caserma di Bolzaneto oggi non è più quella di ieri. Con un´accorta gestione, si sono voluti cancellare i «luoghi della vergogna», modificarne anche gli spazi, aprire le porte alla città, alle autorità cittadine, civili, militari, religiose coltivando l´idea di farne un "Centro della Memoria" a ricordo delle vittime dei soprusi. C´è un campo da gioco nel cortile dove, disposti su due file, i "carcerieri" accompagnavano l´arrivo dei detenuti con sputi, insulti, ceffoni, calci, filastrocche come «Chi è lo Stato? La polizia! Chi è il capo? Mussolini!», cori di «Benvenuti ad Auschwitz». Dov´era il famigerato «ufficio matricole» c´è ora una cappella inaugurata dal cardinale Tarcisio Bertone e nei corridoi, dove nel 2001 risuonavano grida come «Morte agli ebrei!», ha trovato posto una biblioteca intitolata a Giovanni Palatucci, ultimo questore di Fiume italiana, ucciso nel campo di concentramento di Dachau per aver salvato la vita a 5000 ebrei.

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Quel giorno, era venerdì 20 luglio, l´ambiente è diverso e il clima di piombo. Dopo il cancello e l´ampio cortile, i prigionieri sono sospinti verso il corpo di fabbrica che ospita la palestra. Ci sono tre o quattro scalini e un corridoio centrale lungo cinquanta metri. È qui il garage Olimpo. Sul corridoio si aprono tre stanze, una sulla sinistra, due sulla destra, un solo bagno. Si è identificati e fotografati. Si è costretti a firmare un prestampato che attesta di non aver voluto chiamare la famiglia, avvertire un avvocato. O il consolato, se stranieri (agli stranieri non si offre la traduzione del testo). A una donna, che protesta e non vuole firmare, è mostrata la foto dei figli. Le viene detto: «Allora, non li vuoi vedere tanto presto…». A un´altra che invoca i suoi diritti, le tagliano ciocche di capelli. Anche H.T. chiede l´avvocato. Minacciano di «tagliarle la gola». M.D. si ritrova di fronte un agente della sua città. Le parla in dialetto. Le chiede dove abita. Le dice: «Vengo a trovarti, sai». Poi, si è accompagnati in infermeria dove i medici devono accertare se i detenuti hanno o meno bisogno di cure ospedaliere. In un angolo si è, prima, perquisiti - gli oggetti strappati via a forza, gettati in terra - e denudati dopo. Nudi, si è costretti a fare delle flessioni «per accertare la presenza di oggetti nelle cavità». Nessuno sa ancora dire quanti sono stati i "prigionieri" di quei tre giorni e i numeri che si raccolgono - 55 "fermati", 252 "arrestati" - sono approssimativi. Meno imprecisi i «tempi di permanenza nella struttura». Dodici ore in media per chi ha avuto la "fortuna" di entrarvi il venerdì. Sabato la prigionia "media" - prima del trasferimento nelle carceri di Alessandria, Pavia, Vercelli, Voghera - è durata venti ore. Diventate trentatré la domenica quando nella notte tra 1.30 e le 3.00 arrivano quelli della Diaz, contrassegnati all´ingresso nel cortile con un segno di pennarello rosso (o verde) sulla guancia.

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È saltato fuori durante il processo che la polizia penitenziaria ha un gergo per definire le «posizioni vessatorie di stazionamento o di attesa». La «posizione del cigno» - in piedi, gambe divaricate, braccia alzate, faccia al muro - è inflitta nel cortile per ore, nel caldo di quei giorni, nell´attesa di poter entrare «alla matricola». Superati gli scalini dell´atrio, bisogna ancora attendere nelle celle e nella palestra con varianti della «posizione» peggiori, se possibile. In ginocchio contro il muro con i polsi ammanettati con laccetti dietro la schiena o nella «posizione della ballerina», in punta di piedi. Nelle celle, tutti sono picchiati. Manganellate ai fianchi. Schiaffi alla testa. La testa spinta contro il muro. Tutti sono insultati: alle donne gridato «entro stasera vi scoperemo tutte»; agli uomini, «sei un gay o un comunista?» Altri sono stati costretti a latrare come cani o ragliare come asini; a urlare: «viva il duce», «viva la polizia penitenziaria». C´è chi viene picchiato con stracci bagnati; chi sui genitali con un salame, mentre steso sulla schiena è costretto a tenere le gambe aperte e in alto: G. ne ricaverà un «trauma testicolare». C´è chi subisce lo spruzzo del gas urticante-asfissiante. Chi patisce lo spappolamento della milza. A.D. arriva nello stanzone con una frattura al piede. Non riesce a stare nella «posizione della ballerina». Lo picchiano con manganello. Gli fratturano le costole. Sviene. Quando ritorna in sé e si lamenta, lo minacciano «di rompergli anche l´altro piede». Poi, gli innaffiano il viso con gas urticante mentre gli gridano. «Comunista di merda». C´è chi ricorda un ragazzo poliomielitico che implora gli aguzzini di «non picchiarlo sulla gamba buona». I.M.T. lo arrestano alla Diaz. Gli viene messo in testa un berrettino con una falce e un pene al posto del martello. Ogni volta che prova a toglierselo, lo picchiano. B.B. è in piedi. Gli sbattono la testa contro la grata della finestra. Lo denudano. Gli ordinano di fare dieci flessioni e intanto, mentre lo picchiano ancora, un carabiniere gli grida: «Ti piace il manganello, vuoi provarne uno?». S.D. lo percuotono «con strizzate ai testicoli e colpi ai piedi». A.F. viene schiacciata contro un muro. Le gridano: «Troia, devi fare pompini a tutti», «Ora vi portiamo nei furgoni e vi stupriamo tutte». S.P. viene condotto in un´altra stanza, deserta. Lo costringono a denudarsi. Lo mettono in posizione fetale e, da questa posizione, lo obbligano a fare una trentina di salti mentre due agenti della polizia penitenziaria lo schiaffeggiano. J.H. viene picchiato e insultato con sgambetti e sputi nel corridoio. Alla perquisizione, è costretto a spogliarsi nudo e «a sollevare il pene mostrandolo agli agenti seduti alla scrivania». J.S., lo ustionano con un accendino.
Ogni trasferimento ha la sua «posizione vessatoria di transito», con la testa schiacciata verso il basso, in alcuni casi con la pressione degli agenti sulla testa, o camminando curvi con le mani tese dietro la schiena. Il passaggio nel corridoio è un supplizio, una forca caudina. C´è un doppia fila di divise grigio-verdi e blu. Si viene percossi, minacciati.
In infermeria non va meglio. È in infermeria che avvengono le doppie perquisizioni, una della polizia di Stato, l´altra della polizia penitenziaria. I detenuti sono spogliati. Le donne sono costrette a restare a lungo nude dinanzi a cinque, sei agenti della polizia penitenziaria. Dinanzi a loro, sghignazzanti, si svolgono tutte le operazioni. Umilianti. Ricorda il pubblico ministero: «I piercing venivano rimossi in maniera brutale. Una ragazza è stata costretta a rimuovere il suo piercing vaginale con le mestruazioni dinanzi a quattro, cinque persone». Durante la visita si sprecano le battute offensive, le risate, gli scherni. P.B., operaio di Brescia, lo minacciano di sodomizzazione. Durante la perquisizione gli trovano un preservativo. Gli dicono: «E che te ne fai, tanto i comunisti sono tutti froci». Poi un´agente donna gli si avvicina e gli dice: «È carino però, me lo farei». Le donne, in infermeria, sono costrette a restare nude per un tempo superiore al necessario e obbligate a girare su se stesse per tre o quattro volte. Il peggio avviene nell´unico bagno con cesso alla turca, trasformato in sala di tortura e terrore. La porta del cubicolo è aperta e i prigionieri devono sbrigare i bisogni dinanzi all´accompagnatore. Che sono spesso più d´uno e ne approfittano per "divertirsi" un po´. Umiliano i malcapitati, le malcapitate. Alcune donne hanno bisogno di assorbenti. Per tutta risposta viene lanciata della carta da giornale appallottolata. M., una donna avanti con gli anni, strappa una maglietta, «arrangiandosi così». A.K. ha una mascella rotta. L´accompagnano in bagno. Mentre è accovacciata, la spingono in terra. E.P. viene percossa nel breve tragitto nel corridoio, dalla cella al bagno, dopo che le hanno chiesto «se è incinta». Nel bagno, la insultano («troia», «puttana»), le schiacciano la testa nel cesso, le dicono: «Che bel culo che hai», «Ti piace il manganello». Chi è nello stanzone osserva il ritorno di chi è stato in bagno. Tutti piangono, alcuni hanno ferite che prima non avevano. Molti rinunciano allora a chiedere di poter raggiungere il cesso. Se la fanno sotto, lì, nelle celle, nella palestra. Saranno però picchiati in infermeria perché «puzzano» dinanzi a medici che non muovono un´obiezione. Anche il medico che dirige le operazioni il venerdì è stato «strattonato e spinto». Il giorno dopo, per farsi riconoscere, arriva con il pantalone della mimetica, la maglietta della polizia penitenziaria, la pistola nella cintura, gli anfibi ai piedi, guanti di pelle nera con cui farà poi il suo lavoro liquidando i prigionieri visitati con «questo è pronto per la gabbia». Nel suo lavoro, come gli altri, non indosserà mai il camice bianco. È il medico che organizza una personale collezione di «trofei» con gli oggetti strappati ai "prigionieri": monili, anelli, orecchini, «indumenti particolari». È il medico che deve curare L.K.
A L.K. hanno spruzzato sul viso del gas urticante. Vomita sangue. Sviene. Rinviene sul lettino con la maschera ad ossigeno. Stanno preparando un´iniezione. Chiede: «Che cos´è?». Il medico risponde: «Non ti fidi di me? E allora vai a morire in cella!». G.A. si stava facendo medicare al San Martino le ferite riportate in via Tolemaide quando lo trasferiscono a Bolzaneto. All´arrivo, lo picchiano contro un muretto. Gli agenti sono adrenalinici. Dicono che c´è un carabiniere morto. Un poliziotto gli prende allora la mano. Ne divarica le dita con due mani. Tira. Tira dai due lati. Gli spacca la mano in due «fino all´osso». G.A. sviene. Rinviene in infermeria. Un medico gli ricuce la mano senza anestesia. G. A. ha molto dolore. Chiede «qualcosa». Gli danno uno straccio da mordere. Il medico gli dice di non urlare. Per i pubblici ministeri, «i medici erano consapevoli di quanto stava accadendo, erano in grado di valutare la gravità dei fatti e hanno omesso di intervenire pur potendolo fare, hanno permesso che quel trattamento inumano e degradante continuasse in infermeria».

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Non c´è ancora un esito per questo processo (arriverà alla vigilia dell´estate). La sentenza definirà le responsabilità personali e le pene per chi sarà condannato. I fatti ricostruiti dal dibattimento, però, non sono più controversi. Sono accertati, documentati, provati. E raccontano che, per tre giorni, la nostra democrazia ha superato quella sempre sottile ma indistruttibile linea di confine che protegge la dignità della persona e i suoi diritti. È un´osservazione che già dovrebbe inquietare se non fosse che - ha ragione Marco Revelli a stupirsene - l´indifferenza dell´opinione pubblica, l´apatia del ceto politico, la noncuranza delle amministrazioni pubbliche che si sono macchiate di quei crimini appaiono, se possibile, ancora più minacciose delle torture di Bolzaneto. Possono davvero dimenticare - le istituzioni dello Stato, chi le governa, chi ne è governato - che per settantadue ore, in una caserma diventata lager, il corpo e la «dimensione dell´umano» di 307 uomini e donne sono stati sequestrati, umiliati, violentati? Possiamo davvero far finta di niente e tirare avanti senza un fiato, come se i nostri vizi non fossero ciclici e non si ripetessero sempre «con lo stesso cinismo, la medesima indifferenza per l´etica, con l´identica allergia alla coerenza»?

Giuseppe D'Avanzo   Repubblica 17.3.08