Il Dio della speranza è quello che riscatta gli oppressi qui e ora

 

Se si confronta l’Enciclica sulla speranza di Benedetto XVI con la costituzione pastorale Gaudium

et spes del Concilio Vaticano II, la sua peculiarità risulta subito evidente: essa è intesa all’interno

della Chiesa, è rivolta in senso pastorale ai vescovi della Chiesa cattolica romana e a «tutti coloro

che credono in Cristo». Essa limita la speranza cristiana ai fedeli e li separa da quelli che nel mondo

«non hanno alcuna speranza». La  Gaudium et spes  inizia con l’«intima unione della Chiesa con

l’intera famiglia umana»: «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei

poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le

angosce dei discepoli di Cristo e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro

cuore». La  Gaudium et spes  indaga perciò sui problemi dell’umanità del mondo di oggi, quali la

dignità e i diritti umani, la pace e la costruzione di una comunità di popoli. Nulla di questo si ritrova

nell’Enciclica. Il «mondo», come «mondo senza Dio» è solo «un mondo senza speranza».

L’Enciclica non inizia con la solidarietà di Cristo con tutti gli uomini, e nemmeno con l’obiettivo,

l’universale «Dio della speranza» (Rm 15, 13), ma soggettivamente ed ecclesialmente con «noi»:

«Siamo salvati dalla speranza» noi e non gli altri, la Chiesa e non il mondo. In questo modo si vuole

acuire la differenza tra credenti e non credenti, o diversamente credenti: noi abbiamo la speranza,

gli altri non hanno alcuna speranza (par. 3, 5, 23, 27 e altrove). Il primo esempio di Bakhita, la santa

africana vissuta nel XIX secolo, più che della forza della fede è un esempio della certezza della

speranza. Lo stesso vale per il martire vietnamita Paul Le-Bao-Thin (37).

Per quanto riguarda il noto punto della Lettera agli Ebrei 11,1 – «La fede è una certa fiducia delle

cose che si sperano...», il Papa ci fa conoscere il suo concetto di ipostasi, che egli traduce con

substantia: «La fede è l’ipostasi delle cose che si sperano». Che significa: il presente del futuro. Il

che   non   è   certamente   sbagliato.   Ma   perché   collegarlo   con   un’autocritica   protestante,   citando

l’esegeta   evangelico   H.   Köster:   «[…]   Non   può   più   essere   messo   in   dubbio   che   questa

interpretazione protestante, divenuta classica, è insostenibile»? Si sarebbe potuto consultare Lutero

o anche Calvino, oppure le opere sulla Lettera agli Ebrei degli stessi ex-colleghi di Ratzinger a

Tubinga Otto Michel e Ernst Käsemann.

Se   partiamo   dalla   resurrezione   oggettiva   di   Cristo,   non   costituisce   un   problema   il   pensare   al

presente del futuro. Se però si afferma che la fede equivale alla speranza e la speranza equivale alla

fede, si presenta il problema la cui soluzione viene proposta qui.

L’Enciclica affronta in modo apologetico la moderna accusa secondo cui la speranza cristiana è

«individualistica»   (13-15),   definendo   la   speranza   «comunitaria».   La   salvezza   è   stata   sempre

considerata come una «realtà comunitaria» (14). «Questa visione della "vita beata" orientata verso

la comunità mira, sì, a qualcosa al di là del mondo presente, ma proprio così ha a che fare anche con

la edificazione del mondo» (15).

Obiettivo e futuro della speranza cristiana, secondo l’Enciclica, è la beatitudine della vita eterna. La

via che conduce ad essa viene definita come quella «condizione intermedia» che si chiama anche

purgatorio, e la porta che vi conduce viene definita come «primo Giudizio».

Cosa manca? Non c’è un richiamo sufficiente al Vangelo del Regno di Dio, al messaggio del

dominio del Cristo Risorto sui vivi e sui morti e sull’intero cosmo, che troviamo nell’Apostolo

Paolo, alla «resurrezione della carne» e «la vita del mondo che verrà», come pronunciata nelle

professioni di fede, alla redenzione della creatura implorante (Rm 8) e alla speranza del nuovo

mondo, nel quale abita la giustizia (1 Petr 3, 13); in breve, alla speranza della grande promessa di

Dio, che dice: «Ecco, faccio ogni cosa nuova» (Apocalisse 21, 5). Aggiungerei gli orizzonti di

speranza per la creazione, per questa terra, per l’umanità - e sulla venuta stessa di Dio.

Si potrà qui obiettare che l’Enciclica si occupa dell’antropologia della fede e della speranza, non

della teologia della speranza. Ma se si limita la speranza alla beatitudine dell’anima nella vita

eterna, decadono anche  le promesse  profetiche dell’Antico  Testamento.  E la  speranza cristiana

difficilmente si distingue dalla religione gnostica della redenzione.

L’Enciclica passa poi criticamente all’attacco della «trasformazione della fede-speranza cristiana

nel tempo moderno» (16-23). Senza far riferimento all’Enciclica Populorum Progressio, critica la

fede nel progresso del mondo moderno, a partire da Francesco Bacone, come smania umana di

grandezza. Dato che il disastro europeo della prima e della seconda guerra mondiale ha già messo

fine   a   tale   vecchia   fede   nel   progresso,   la   critica   del   Papa   rischia   di   essere   l’assassinio   di   un

cadavere.

Lo stesso vale per la critica alla «ragione» e alla «libertà», al «regno della ragione» dei tempi

moderni   ed   alle   moderne   rivoluzioni   della   libertà,   delle   rivoluzioni   civili   e   socialistiche.

L’entusiasmo di Kant per l’Illuminismo viene rifiutato senza indagare sul feudalesimo e sull’iniquo

assolutismo del suo tempo.

Anche al cadavere del marxismo viene poi attribuito un «errore fondamentale» (21). «Il suo vero

errore è il materialismo» (21). Non si discute la sua dialettica e nemmeno le tesi di Marx su

Feuerbach. «Egli ha dimenticato che l’uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l’uomo e ha

dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male».

Tale tardo antimarxismo non può essere più semplice!

L’Enciclica fa propria l’«autocritica» del tempo moderno della Scuola di Francoforte di Adorno e

Horkheimer, per dimostrare con la «dialettica dell’illuminismo» che «l’uomo ha bisogno di Dio,

altrimenti resta privo di speranza» (23). Questo rischia di non convincere gli intellettuali del nostro

tempo,   poiché   hanno   già   operato   questa   autocritica   e   non   hanno   necessità   di   una   teologia   al

riguardo. Dietrich Bonhoeffer avrebbe detto: la teologia cristiana non ha nulla di proprio da offrire

allo spirito del tempo moderno?

 A seguito del Vaticano II e in particolare della  Gaudium et spes, negli anni sessanta i teologi

cattolici ed evangelici grazie alla  Paolus-Gesellschaft  sono entrati nel dialogo cristiano-marxista.

Abbiamo avvicinato la grazia ai marxisti umanisti, in rapporto al male, e la speranza di resurrezione

in vista della morte. Milan Machovec e Roger Garaudy hanno compreso molto bene il deficit delle

speranze   immanenti   della   modernità,   mentre   noi   abbiamo   compreso   la   loro   passione   per   la

liberazione degli oppressi e per la giustizia per gli umiliati.

La Teologia della speranza del 1964 e la Teologia della liberazione del 1971 sono nate dall’analisi

critico-cooperante della situazione dell’epoca moderna. La  Teologia politica  ha rappresentato il

contesto globale dell’«intima unione della Chiesa con l’intera famiglia umana». Il fatto che «un

mondo   senza   Dio»   sia   «un   mondo   senza   speranza»,   detto   con   questa   semplicità,   può   essere

empiricamente frainteso: un mondo con Dio è, empiricamente, un mondo in cui possono esistere la

rassegnazione e il terrore in nome di Dio. Dipende dal Dio di Israele e da Gesù Cristo, dal Dio della

Resurrezione e del futuro Regno sulla terra. Solo questo Dio è il «Dio della Speranza». Solo lui «è

colui che viene» (Apocalisse 1, 8).

È bene che l’Enciclica indichi i «luoghi» di apprendimento e di esercizio della speranza (32-48).

Innanzitutto   la   preghiera   viene   indicata   come   «scuola   della   speranza».   Questo   è   certamente

importante, ma la preghiera è allo stesso tempo anche la scuola della fede. Che cosa aggiunge la

fede alla preghiera? Il vegliare.

La chiamata alla preghiera nel Nuovo Testamento è sempre collegata con il richiamo al risveglio.

Nella tentazione nell’orto del Getsemani, ai discepoli che dormono Gesù chiede soltanto: «Non

potete vegliare un’ora con me?» (Marco, 14, 34). «Vegliate e pregate, affinché non cadiate in

tentazione». La preghiera è sempre collegata con il risveglio per il mondo di Dio e il risveglio di

tutti i sensi. Essere svegli e attenti, vegliare ed attendere, vegliare e vedere sono sempre correlati

alla fede cristiana nel Messia.

Pregando noi ascoltiamo e parliamo, stando svegli apriamo gli occhi e tutti i sensi alla venuta del

Signore nella nostra vita e nel mondo.

La preghiera con Cristo fa parte della spiritualità dei sensi vigili, affinché possiamo «vedere» Cristo

nei poveri, nei malati e nei prigionieri (Matteo 25, 37). La veglia è il luogo di apprendimento della

speranza.

Come secondo luogo della speranza vengono indicati l’«agire e soffrire della speranza». Questo è


       
certamente corretto, ma si tratta sempre dell’agire e soffrire della resistenza contro i vizi dell’uomo

e le forze della morte. «Resistere», scrisse Marie Durand nel Tour de la Constance a Aigues-Mortes,

dove fu incarcerata per 38 anni per la sua fede evangelica. Non tutte le sofferenze sono sofferenze

piene di speranza. La partecipazione alla sofferenza di Dio nel mondo è la sofferenza messianica: se

soffriamo come Cristo, risorgeremo con Lui.

L’Enciclica   cita   infine   anche   il   «Giudizio   come   luogo   di   apprendimento   e   di   esercizio   della

speranza». Anche questo non è certo sbagliato, ma vorrei riportare lo sguardo dalla fine all’inizio.

Il luogo di origine della speranza è la nascita, non la morte. La nascita di una nuova vita è motivo di

grande speranza. E quando i morti sono risorti, entrano nella realizzata speranza di vita. Il luogo di

apprendimento della speranza nella vita è pertanto il poter iniziare e il nuovo inizio, la vera libertà. I

sensi risvegliati dalla speranza e la ragione da essa illuminata esplorano le possibilità che si aprono

a noi ad ogni nuovo inizio. Al senso di realtà dell’amore, la speranza affianca il senso di possibilità

del cambiamento.

Chi è secondo la tradizione biblica il Dio della Speranza?

Papa Benedetto XVI chiude con un inno a Maria, la serva umile e fedele del Signore, divenuta

madre di tutti i fedeli, e la chiama «Madre della Speranza». Ma nella Bibbia c’è anche l’altra Maria,

che gioisce di Dio, del suo Redentore:

 

Ha spiegato la potenza del suo braccio,

ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore;

ha rovesciato i potenti dai troni,

ha innalzato gli umili;

ha colmato di beni gli affamati,

ha rimandato i ricchi a mani vuote (Lc 1, 48-54)

 

Essa riprende il canto di Anna (2 Sam 22) lodando il Dio rivoluzionario dei Profeti, che Martin

Luther King ha citato nel suo sogno del 1963 a Washington:

 

Preparate la via del Signore.

Ogni valle sia colmata,

ogni monte e colle siano abbassati;

il terreno accidentato si trasformi in piano

e quello scosceso in pianura.

Allora si rivelerà la gloria del Signore

e ogni uomo la vedrà (Is. 40, 3-5).

 

Paolo vede questo Dio operare nella comunità di Cristo:

 

Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti,

Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato

e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono,

Chi si vanta si vanti nel Signore (1 Cor. 1, 26)

 

Il Dio, che rende giustizia a coloro che soffrono la potenza, il Dio che ha risvegliato il Gesù

        umiliato e crocifisso, questo è il Dio della Speranza per Maria, per i Profeti e per gli Apostoli.

 

Jürgen Moltmann     Avvenire 2 marzo 2008