Io, cattolico a modo mio

 

La politica mi ha appassionato, non strumentalmente come mezzo per un fine diverso dalla politica

stessa, ma come politica in sé, come disegno per il futuro, come valutazione razionale del possibile

e come sofferenza per l'impossibile, come chiamata ideale dei cittadini a nuovi traguardi, come

aspirazione a un'uguaglianza irrealizzabile che è tuttavia il tormento della storia umana. Mi ha

interessato la politica per quello che non riesce a essere molto più che per quello che è.

Tutto questo ha avuto ed ha nell'esperienza cristiana le sue radici profonde: il cristianesimo è stato il

lievito della storia, ma la politica ha una sua laicità che non può essere travolta dalla visione

totalizzante dei fini. Inutile dire che questo modo di sentire la politica non ha rappresentato la

premessa di una carriera, ma solo di un'esperienza che considero feconda. Attraverso queste

ricerche e queste esperienze è maturata la mia identità di cristiano e di cattolico. Vedo due aspetti di

questa identità che possono apparire in conflitto e che mi sembrano invece, a un livello più

profondo, complementari: il senso forte della soggettività, dell'interiorità dell'esperienza religiosa e

per altro verso il senso della comunità per cui non si crede da soli, ma solo e sempre in una

comunità credente e orante.

[***]

Penso che non possa esistere e durare nel tempo una comunità credente senza un minimo di

struttura che comporta necessariamente un'autorità; di conseguenza, mi sembra, la partecipazione

alla comunità credente, che è il modo più concreto e vitale di credere, non può prescindere da un

rapporto con l'autorità della comunità credente. Ma attenzione: tutto è e rimane finalizzato a quel

modo di credere, a quella partecipazione alla corrente viva di fede che la comunità interpreta ed

esprime. Non è concepibile alcuna forma di sudditanza passiva: la libertà che caratterizza la scelta

di fede caratterizzerà in ogni momento anche l'appartenenza alla comunità e il rapporto in essa con

l'autorità, rapporto che esige sempre una posizione attiva, non di sudditanza passiva. Non si riceve

soltanto dall'autorità l'insegnamento, si partecipa attivamente alla riflessione sulla Bibbia,

all'interpretazione della parola, alla lettura dei segni dei tempi.

Da quanto abbiamo detto emerge un'esigenza che è conclusiva, ma che è anche premessa di tutto: la

fedeltà al Concilio. E aggiungo: la difesa del Concilio. Io credo che dobbiamo farci carico, tutti, non

solo della fedeltà al Concilio ma della sua difesa. Perché nella Chiesa riemergono spontaneamente

tendenze, idee, modi di pensare che sono contro, che sono fuori, che sono prima del Concilio.

Si dice, e lo si dice anche a livello di magistero, che il Concilio non cancella, non ha cancellato il

Concilio precedente e il magistero precedente. Si dice: c'è il Concilio, c'è la Dignitatis humanae ma

c'è anche il Sillabo, e sono sullo stesso piano nel magistero della Chiesa. No, non si può dire così.

Certo che c'è il Sillabo nella storia della Chiesa, ma c'è un pensiero, c'è un magistero che ha

interpretato, che ha superato il Sillabo e che è arrivato alla Dignitatis humanae. C'è tutto nella storia

della Chiesa ma, appunto, c'è una storia, c'è uno sviluppo.

Il Concilio non cancella il passato ma lo interpreta, e non si chiude al futuro. Non è detto che il

Concilio sia l'ultima parola perché lo Spirito continua a parlare. Lo leggiamo nel Vangelo di

Giovanni nei discorsi dell'addio: «Molte cose ho ancora dirvi ma per il momento non siete capaci di

portarne il peso. Quando però verrà lo spirito di verità egli vi guiderà alla verità tutta intera».

Dunque dobbiamo vivere in questa disponibilità a una Chiesa che cresce, che matura: il Concilio

vaticano II è stato un momento decisivo di questa maturazione. E bisogna difenderlo con la fedeltà,

non con la contestazione.

La contestazione, che abbiamo tutti conosciuto negli anni del post-Concilio, non ha aiutato il

consolidamento delle novità portate dal Concilio. Dico adesso, ripensando a quegli anni, che la

contestazione non aiuta. Occorre vivere una "obbedienza in piedi" secondo la bella immagine di

Fonsegrive ripresa tante volte da don Mazzolari: obbedire in piedi. Obbedire in piedi vuol dire


 

 

 

obbedire con una partecipazione diretta; Fonsegrive diceva «obbedire in piedi per servire meglio».

Non obbedire passivamente, in ginocchio, con senso di sudditanza. Non sudditi, ma cittadini della

Chiesa.

***]

La laicità è una parola ambigua, ha molti significati e diverse espressioni. Due sono le linee di

fondo: quella francese e quella anglosassone.

In Francia la laicità tende ad essere un'ideologia di Stato. Nel mondo anglosassone è un principio di

incompetenza dello Stato che non esclude il riconoscimento del rilievo sociale del fenomeno

religioso.

In Italia si delinea oggi una tendenza verso la concezione anglosassone che non esclude legami e

momenti di dipendenza dalla concezione francese.

Comuni alle diverse concezioni sono le origini: l'ésprit laique di cui ha scritto George Lagarde

esprimeva alla fine del Medioevo la volontà dello Stato di rivendicare i suoi diritti dentro un mondo

cristiano; George Weill nota che le polemiche tra il clero e lo Stato dell'antico regime erano «beghe

di famiglia» e l'italiano Luigi Salvatorelli ha parlato per il Settecento di «laicità religiosa». L'idea di

laicità insomma non nasce fuori, o contro, ma dentro il mondo cristiano. Mentre è quasi ignota

all'Islam.

La tradizione anglosassone trova una formalizzazione giuridica del principio di laicità nel primo

emendamento della Costituzione americana del 1791 (quattro anni dopo l'approvazione della

Costituzione): l'emendamento stabilisce l'incompetenza del congresso in materia religiosa.

Nel corso dell'Ottocento vi è uno sviluppo semantico della parola, che è sostanzialmente parallelo in

Francia e Italia, che non a caso non trova riscontro nella lingua inglese. Laico è, ancora all'inizio del

secolo XIX, chi nella Chiesa non è sacerdote né monaco. La parola ha un significato interno alla

Chiesa.

Poi progressivamente, le parole laicità e laicismo perdono il loro significato originario, ma non

senza una perdurante ambiguità. (...)

La laicità dello Stato è discussa ma sostanzialmente acquisita in ambito nazionale ed ora anche in

ambito europeo. E' impossibile immaginare un futuro per le nostre società senza un vigoroso

apporto di energie morali ad una democrazia che rischia di chiudersi nella pura logica della

rappresentanza degli interessi costituiti. E un vigoroso apporto di energie morali è difficilmente

pensabile senza il contributo delle grandi esperienze religiose che possano svolgere un ruolo

fecondo di lievito della vita sociale e di animazione della democrazia.

Ma la religione per svolgere questo ruolo deve accettare in pieno la dimensione della laicità, che è

la condizione per una sua rinnovata presenza nel mondo contemporaneo.

A questo fine le religioni tra loro devono collaborare e non combattersi: l'ecumenismo e il dialogo

interreligioso sono la condizione essenziale perché le religioni possano svolgere questo ruolo civile.

La laicità non riguarda solo gli Stati, le leggi e il modo di essere delle istituzioni; la laicità è prima

di tutto un modo di vivere l'esperienza religiosa a livello personale e interiore: se manca questa

condizione interiore anche gli aspetti istituzionali della laicità ne risulteranno indeboliti e alla fine

compromessi. Essere laici è un aspetto essenziale di quel modo di credere di cui abbiamo parlato;

essere laici significa sentirsi partecipi di una comune umanità prima ancora di aderire a un qualsiasi

credo religioso; se si crede per libera scelta e per libera scelta si aderisce ad una corrente di fede,

che è prima di noi e anche senza di noi, essere laici significa coscienza di questa alterità; essere laici

implica un atteggiamento di fronte alle cose e alle persone che ci circondano viste nella propria

identità e non rispetto ad un obiettivo a loro esterno; laico è colui per il quale le cose ci sono nella

propria identità.

L'essere laici nel senso che si è detto, come stile e atteggiamento interiore, ha molti e significativi

effetti.

Pietro Scoppola     la Repubblica   4 marzo 2008