Le mura di casa
Perché ci appassiona il delitto di famiglia
Il nostro sentimento non ha superato le mura di casa, non si è fatto senso
civico, ma è rimasto confinato in quell´ambito ristretto dove violenza e
sessualità si intrecciano. L’amore-odio tra genitori, figli, coniugi, vicini di
casa.
Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco, Perugia. La geografia della
spettacolarizzazione del crimine. Non quello di portata sociale come la mafia,
la ´ndrangheta, la camorra che lascia tutti più o meno indifferenti, ma quello
circoscritto nell´ambito delle relazioni familiari è il crimine che appassiona
la gente e, cinicamente, anche giornali e tivù alla ricerca affannosa di
audience.
Questo ci dice che il nostro sentimento non ha ancora oltrepassato le mura di
casa, non è ancora diventato sentimento civico, ma è rimasto confinato in
quell´ambito ristretto e anche un po´ primitivo che è il delitto di famiglia,
dove la violenza e la sessualità, l´amore e l´odio intrecciano i loro cupi
legami.
Le morti sul lavoro non appassionano, i morti sulle strade sono dati per
scontati, i morti per malasanità fatti rientrare nelle statistiche, i morti per
droga confinati senza pietà nel ghetto dei disperati. Le vite infrante di
bambine e bambini abusati sono coperte da un disgustoso silenzio, quelle
precarie degli immigrati che muoiono in mare non destano il minimo sussulto,
così come le vite randagie dei senzatetto che talvolta si lasciano morire
assiderati sulle panchine delle nostre città. Solo le morti in famiglia o tra
famiglie suscitano quello spasmodico seguito nelle aule dei tribunali, dove la
gente si accalca alle cinque del mattino per potervi assistere, e nelle
trasmissioni televisive che finiscono per essere più seguite delle fiction di
successo, dove non è la pietà per i morti o per i sopravvissuti a tenere
incollata la gente allo schermo, ma il gusto cupo della trama macabra.
Questo la dice lunga sul sottosuolo della nostra anima e sulle passioni che in
quel sottosuolo sonnecchiano, perché se gli attori reali di quei crimini quando
appaiono in televisione diventano, per la magia dello schermo, i rappresentanti
delle nostre passioni che in loro possono rispecchiarsi, allora c´è da chiedersi
quanto il nostro amore si è fuso e combinato con l´odio, quanto la nostra
sessualità si è contaminata con l´aggressività, quanto il nostro sentimento si è
inabissato nel risentimento che, proibendosi di esplodere nella realtà, trova un
canale di sfogo nella rappresentazione televisiva dove, col pretesto del crimine
che appassiona, esperti di ogni tipo vanno a frugare nel fondo della nostra
anima mescolando le acque già torbide delle nostre passioni, anche le più truci,
inespresse.
Questo scavo, che potremmo definire un´analisi selvaggia su vasta scala, produce
quei fenomeni di transfert, di identificazione e di idealizzazione che
sommergono gli attori dei crimini di una quantità inimmaginabile di lettere di
amore o di odio a bassa definizione, dove il messaggio che si trasmette è una
sorta di idolatria di chi ha avuto il coraggio di fare quel che ciascuno di noi
in fondo in fondo, senza dirselo esplicitamente, ignorandolo persino, o senza
volerlo ammettere, vorrebbe fare col proprio vicino di casa, col proprio figlio,
con la propria moglie o col proprio marito, col proprio genitore senza averne il
coraggio.
Se poi gli attori dei crimini sono telegenici o belli, se sono giovani e,
nell´apatia del loro cuore, sono capaci di reggere e contrastare le accuse,
allora ci si divide tra innocentisti e colpevolisti, secondo le regole del tifo
a cui ci ha abituato l´overdose di calcio trasmesso in tivù.
Le prove non contano. Contano le impressioni, che sono poi i moti d´animo più
primitivi perché immediati e non disturbati dall´uso della ragione che fatica a
farsi largo là dove la fascinazione ha già fatto il suo lavoro.
E purtroppo la televisione è il mondo della fascinazione dove lo slogan, la
frase a effetto, il dettato ipnotico sono le performance richieste per accedervi
e per seppellire il ragionamento che la televisione aborre nella fretta dei suoi
tempi, nella velocità degli enunciati, nella rapida successione delle immagini,
perché il suo scopo è colpire lo spettatore, impressionarlo, se possibile
scioccarlo, in pratica ottundergli l´uso della ragione, fino a rendergliela in
ogni suo aspetto desueta. Sotto questo profilo la televisione non emancipa
perché obnubila.
E perciò il torbido, che ogni delitto di famiglia porta con sé, è il suo
programma preferito. E qui il circolo macabro si chiude. Le nostre passioni più
truci che sonnecchiano nel nostro inconscio trovano negli attori dei crimini di
famiglia la loro espressione.
La televisione, mettendole in mostra e raccontandocele a più riprese e da più
punti di vista ce le fa conoscere, ma come passioni di altri e non come nostre
passioni. Così facendo ci fa dono di una troppo facile innocenza che ci
gratifica e non ci fa fare un passo verso la ricognizione di noi, perché la
riflessione non è proprio una caratteristica della televisione. Anzi.
E così, abbarbicati a una storia che ci appassiona perché è nostra, ma che ci
viene illustrata come una storia d´altri, finiamo col non riconoscere che anche
il nostro amore è orlato di odio, persino l´amore materno, persino quello per i
nostri genitori, per i nostri vicini di casa, per i nostri amici, per cui basta
una leggera alterazione per trovarci al di là dello schermo, questa volta
guardati, dopo aver a lungo seguito con interesse storie di altri che in realtà
descrivevano quanto di torbido si agita in noi. E proprio nessuno ci aveva
avvertito, tanto meno la televisione, che la soglia che separa la misura
dall´eccesso è estremamente sottile, tenue, fragile, come neppure lontanamente
siamo soliti sospettare.
Umberto Galimberti Repubblica 8.2.08