La
laicità dopo il caso Sapienza
L´analisi delle vicende complesse, dunque l´esercizio della virtù della
riflessione e della distinzione, diviene sempre più difficile. Questa difficoltà
è cresciuta nel caso della visita del Papa all´università "La Sapienza". Senza
ricorrere alla parola "laicità", e ricordando anche argomentazioni già proposte,
vorrei sottolineare quali dovrebbero essere i principi di un discorso pubblico
in una società che vuol essere democratica.
Per cominciare. Il furore polemico ha abusato di due argomenti, che chiamerò
volterriano e iran-americano. Ridotta a slogan o a giaculatoria, è stata
ripetuta la nota massima di Voltaire – «non condivido le tue idee, ma mi batterò
perché tu possa manifestarle» (su questo ha scritto bene Giovanni Valentini).
Ma, se durante una delle settimanali udienze del Papa uno dei partecipanti alza
la mano, pretende di tenere un discorso e viene giustamente invitato a tacere,
il canone volterriano è violato? Se, all´apertura di un congresso di partito,
subito dopo la relazione del segretario, il leader di un altro partito pretende
di parlare e giustamente gli viene negata la parola, siamo di fronte alla
censura, all´imposizione di un bavaglio? Faccio queste domande, retoriche, non
per ridimensionare la portata del principio indicato da Voltaire, ma per
ricordare che si deve sempre tenere conto del contesto e, soprattutto, che quel
principio non può essere applicato selettivamente. Non ci si può battere per il
diritto di parola di Benedetto XVI e negarlo a Marcello Cini e Carlo Bernardini.
La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto del principio di parità.
Veniamo all´altro argomento. Più d´uno, per mostrare l´inaccettabilità delle
pretese dei critici dell´invito al Papa, ha voluto ricordare che la Columbia
University ha addirittura invitato il Presidente iraniano Ahmadinejad. Si può
invitare un dittatore, un negatore dell´Olocausto, e non il Pontefice? Vediamo
come sono andati i fatti. All´annuncio della visita sono partite molte critiche
accademiche e una forte protesta degli studenti. Prima di dar la parola ad
Ahmadinejad il presidente dell´università, Lee Bollinger, ha criticato con
estrema durezza, al limite della maleducazione, le sue idee e posizioni. Dopo il
discorso del Presidente iraniano, i presenti gli hanno rivolto molte domande ed
hanno commentato anche pesantemente le sue risposte. Quel che è accaduto a New
York, dunque, prova esattamente il contrario di quel che sostenevano quanti
hanno richiamato quel fatto. L´università si fonda, in ogni momento, sul
confronto e sul dialogo. La correttezza del discorso pubblico esige il rispetto
del principio della veritiera descrizione dei fatti.
Proprio in omaggio a questo principio, bisogna ricordare che, pur essendo vero
che alcune decisioni universitarie sono di competenza del Rettore e del Senato
accademico, questo non vuol dire affatto che queste decisioni non possano essere
oggetto di pubblica critica da parte di ogni professore o studente, né che la
loro libertà di critica sia limitata alla scelta di non partecipare all´evento
sgradito. L´università non è una organizzazione rigidamente gerarchica, né il
Rettore è assistito dal privilegio dell´infallibilità. Peraltro, proprio la
storia recente delle inaugurazioni dell´anno accademico alla Sapienza conosce
critiche e contestazioni, in qualche caso accolte, agli inviti che si aveva in
mente di fare. Non è esclusa la possibilità di invitare qualcuno a parlare senza
contraddittorio, ma è indispensabile valutare attentamente le conseguenze di
questa scelta. La correttezza del discorso pubblico esige che ogni vicenda venga
valutata nel preciso contesto in cui si è svolta.
È rivelatore, peraltro, il modo in cui sono stati giudicati i 67 professori
firmatari della lettera al Rettore, con la quale veniva chiesta le revoca
dell´invito a Benedetto XVI. Sono stati definiti "professorucoli", si è detto
che «i ragli degli asini non arrivano in cielo». La libertà accademica e la
libertà di manifestazione del pensiero, dunque, dovrebbero arrestarsi di fronte
al principio di autorità? Quale "licenza de li superiori" sarebbe necessaria per
ottenere il permesso di parlare di chi sta in alto? La correttezza del discorso
pubblico esige il rispetto del principio che tutti possano parteciparvi.
La critica ai professori firmatari della lettera e alle posizioni estreme di
alcuni gruppi di studenti ha poi assunto toni dichiaratamente politici ed ha
determinato anche ulteriori travisamenti della realtà. Si è descritto quel che è
accaduto con parole come "veto", "censura", "cacciata", "bavaglio". Non insisto
sul dato formale, ma tutt´altro che irrilevante, di una decisione presa in
assoluta autonomia dal Papa, di cui non discuto motivazioni e finalità. Ma non
si può chiedere ai firmatari di uniformarsi ad un principio di "opportunità"
che, come ben vediamo in molti settori a cominciare da quello dei mezzi
d´informazione, può facilmente diventare autocensura. La democrazia si nutre di
opinioni non solo diverse, ma anche sgradevoli, delle quali si può ben discutere
il merito, ma di cui non si può negare la legittimità. E le posizioni degli
studenti devono essere giudicate con lo stesso metro, eccezion fatta per gli
aspetti di ordine pubblico, peraltro ritenuti tali da non provocare
preoccupazioni, secondo le dichiarazioni del ministro dell´Interno. Comunque,
gli aspetti politici della vicenda devono essere analizzati con criteri
anch´essi politici. La correttezza del discorso pubblico esige che non si
mescolino i piani delle valutazioni.
La politica, allora. È indubitabile, ormai, che non tanto la linea scelta dal
Pontefice, quanto i concreti modi di attuarla, vadano ben al di là della
dimensione pastorale e teologica. Il Pontefice si comporta ed è percepito come
un leader politico. Questa non è una conclusione malevola. Basta ricordare una
sola vicenda, quella legata al duro intervento del Papa sulle condizioni di Roma
in occasione dell´udienza concessa ai rappresentanti degli enti locali del
Lazio. Quelle dichiarazioni hanno determinato una trattativa "diplomatica" che,
in linea con le peggiori abitudini della politica italiana, ha poi portato a
denunciare le "strumentalizzazioni" e le "deformazioni" delle parole del Papa,
entrate con prepotenza nel dibattito politico.
Questo porta ad una considerazione più generale. Si insiste nel dire che la
religione deve essere riconosciuta anche nella sfera pubblica. Ma che cosa
significa questa affermazione? Che nello spazio pubblico la religione ha uno
statuto privilegiato o che, entrando in quello spazio, ogni religione partecipa
al discorso pubblico con le proprie importanti caratteristiche, ma in condizioni
di parità? Nel 1989 la Corte costituzionale ha scritto che «il principio supremo
della laicità dello Stato è uno dei principi della forma di Stato delineata
nella Carta costituzionale della Repubblica», sancendo così l´eguaglianza che
accomuna tutte le religioni e, insieme, la loro sottoposizione a quel principio
fondativo della convivenza democratica. Nella sfera pubblica tutti i soggetti
devono accettare la logica del dialogo, della critica ed anche della
contestazione.
Altrimenti l´insidia del temporalismo si fa concreta. Non a caso da studiosi
autorevoli e da politici cattolici consapevoli dei rischi di questa deriva sono
venute analisi rigorose del rischio di un ritorno del "Papa re" e di un vero uso
strumentale della religione, simboleggiato da quella sorta di "chiamata alle
armi" dei cattolici a manifestare in piazza San Pietro in una occasione
squisitamente liturgica. La correttezza del discorso pubblico esige una presenza
costante del canone della democrazia.
Ha fatto bene Alberto Asor Rosa a ricordare la feconda stagione di dialogo tra
credenti e non credenti nella Cappella universitaria della Sapienza, dove ebbi
la fortuna di discutere con un grande biblista, Luis Alonso Schoekel. Aggiungo
il mio personale ricordo dell´invito che rivolsi a monsignor Clemente Riva
perché venisse a parlare nel mio corso, e del suo emozionante dialogo con gli
studenti. Altri tempi, altre persone, altra politica? Una stagione irripetibile?
Spero e voglio credere di no, perché continuo ad avere molte occasioni di
dialogo con un mondo cattolico che tuttavia fatica ad essere presente nella
sfera pubblica. Altrimenti dovremmo tornare alle amare parole di Arturo Carlo
Jemolo, che nel 1963 così scriveva: «Questa Italia non è quella che avevo
sperato; questa società non è quella che vaticinavo... l´affermarsi e il
dissolversi delle tavole del liberalismo; l´inattesa realizzazione di uno Stato
guelfo a cento anni dal crollo delle speranze neoguelfe».
Stefano Rodotà Repubblica 22.1.08