L'imprudenza politica della chiesa
È probabile che Camillo Ruini, che per molti
anni ha presieduto la Conferenza episcopale italiana e ancora influenza la
Chiesa nella sua qualità di vicario di Roma, gioirà di quello che oggi potrebbe
accadere nella capitale: una moltitudine di cittadini romani e italiani, da lui
incitata e inebriata, accorrerà sicuramente all’Angelus, in piazza San Pietro,
per ascoltare il Papa e denunciare la persecuzione di cui sarebbe stato vittima.
Persecuzione che lo avrebbe indotto a non pronunciare più nell’aula
universitaria la prolusione che gli era stata - senza seria preparazione -
affidata. Il brutto episodio finirà col trasformarsi in una giornata gloriosa
per la Chiesa, questo il giudizio cui sembra esser giunto il cardinale, e il
male ancora una volta si muterà provvidenzialmente in bene. Lui stesso s’è
espresso in questo modo, venerdì alla televisione, ripetendo quanto già detto il
4 novembre a Aldo Cazzullo sul Corriere. La Chiesa (tali furono le sue parole) è
attaccata quando vince: «Constato che quando l’impegno non è coronato da
successo, quando la Chiesa “perde”, tutto fila liscio».
Il rifiuto che numerosi scienziati e un gruppo di studenti hanno opposto al
Pontefice, la ritirata strategica del Santo Padre: tutto questo non è, per una
parte della gerarchia, un episodio increscioso, o come ha detto sull’Avvenire
Souad Sbai, in nome dell’Islam italiano anti-integralista, un «giorno di
tristezza».
Forse non è del tutto increscioso neppure per il Papa. Al giornalista Rai che
l’interrogava, Ruini ha detto: «I rapporti tra Stato italiano e Chiesa possono
migliorare, grazie a episodi come questo».
E ha sorriso sibillino, come si rallegrano quei militanti apocalittici che
provocano tenebre e caos pensando che solo a queste condizioni rinasca la luce,
che incitano a sfasciare (nel linguaggio brigatista si diceva «disarticolare»)
per generare palingenesi prerivoluzionarie. La sovversione ha in genere queste
proprietà, avverse al filar liscio dei rapporti. Non a caso il sorriso di Ruini
si accentua sino a tingersi di scherno, quando respinge l’accusa d’ingerenza
nell’agenda politica e chiede - provocatoriamente, accendendo sorrisi complici
nel giornalista - se ci sia oggi «qualcuno in Italia, capace di dettare agende
politiche». Esiste insomma un modo di raccontare l’episodio della Sapienza, che
deforma ogni cosa. Si falsifica quel che accade, si comprime il tempo che
viviamo schiacciandolo tutto sul presente e togliendogli ogni profondità. Ci si
racconta la storia di una Chiesa perseguitata, prendendo in prestito il
linguaggio dell’esperienza ebraica; si denuncia e si irride la stasi della
politica. In questo Ruini ha comportamenti sovversivi che singolarmente lo
apparentano alla figura di Berlusconi.
Ma è un sovversivo che miete successi, e sono questi ultimi che conviene
analizzare. Non è un successo religioso, perché l’indebolirsi delle fedi non si
argina riempiendo piazze. Non è neppure in questione la libertà della religione
cattolica, perché in Italia essa è garantita e ha un’estensione enorme. Nessuno
l’ostacola, tanto meno la censura: se la fede è debole, quando è debole, lo è
per cause spirituali o pastorali e non per cause esterne, di potere politico.
Solo in Italia questa realtà è obnubilata. È sottratta allo sguardo dei
cittadini anche dai commentatori che dovrebbero sapere e che sanno, senza però
sentirsi in dovere di aiutare i fedeli a emettere giudizi adulti perché
informati.
Quel che molti commentatori o intellettuali nascondono è il divario tra simili
realtà e il modo di raccontarle. Il rapporto mimetico del cattolicesimo italiano
con l’ebraismo è un non senso, nelle democrazie. Fuori dall’Italia, in Francia o
Germania, Spagna o Inghilterra, esiste certo una nuova consapevolezza
dell’importanza delle religioni (le parole e le esperienze personali di Sarkozy
e Blair lo testimoniano), ma i mutamenti avvengono in contesti radicalmente
diversi: in nessuno di questi Paesi la Chiesa ha il peso, il tempo di parola che
ha in Italia. Venerdì, su questo giornale, Giacomo Galeazzi ha spiegato bene lo
spazio abnorme che le viene dato: da quando è Papa, Benedetto XVI ha avuto un
tempo d’antenna superiore a quello del premier e del Capo dello Stato, e appena
inferiore a quello di tutti i ministri messi insieme. Non solo: la Chiesa
cattolica ha il 99,8% dello spazio dell’informazione religiosa, lasciando
briciole a altre fedi. Il vittimismo è storia senza sostanza. La Chiesa italiana
non è imbavagliata ma piuttosto sovraesposta. L’idea che esistano comportamenti
etici su cui lo Stato non può autonomamente legiferare perché appartenenti alla
legge naturale, dunque iscritti dalla mano creatrice di Dio nella stessa natura
umana, dunque interpretabili e tutelabili solo dalla Chiesa, è idea diffusa. Chi
contesta il diritto della Chiesa a imporre i suoi veti su famiglia, unioni di
fatto, aborto, testamento biologico, ricerca biologica, è una minoranza.
È questa situazione che ha finito col generare rabbia gridata, e stupida perché
perdente. Ma rabbia che comunque non nasce dal nulla. Ogni evento ha una storia,
un tempo lungo in cui è iscritto ed è maturato: ha cause che dispiegano effetti,
non è istante che fluttua nell’etere come piuma ed è infilabile in ogni tipo di
racconto. Questa verità viene ignorata da parte della gerarchia, ma anche dal
Pontefice nell’ultimo incidente italiano. È la verità di una Chiesa italiana che
ancora non ha deciso che fare, dopo la perdita della Dc: se schierarsi con la
destra o no, se far politica direttamente o privilegiare lo spirituale, il
profetico-pastorale. È la verità di un Pontefice che sta mostrandosi incapace di
sintesi, di delicatezza istituzionale. Di volta in volta Benedetto XVI aderisce
a una corrente o all’altra della gerarchia, senza anticipare proprie soluzioni
alte e meno italiane. Un giorno s’infiamma contro il «degrado» di Roma, e
ventiquattr’ore dopo descrive una città accogliente e ben governata.
Precipitosamente accetta di aprire l’anno accademico, poi rinuncia senza fugare
il sospetto che la ritirata sia uno strumento - maneggiato da Ruini - per
inasprire le tensioni anziché placarle. La sua opinione politica oscilla,
diventa impreparazione, per forza vien chiamata inconsistente. È
un’impreparazione che non solo ignora la dimensione del tempo ma che induce i
vertici del Vaticano a sprezzare i significati profondi della laicità,
dell’autonomia della politica, dello Stato neutrale. È assurdo doverlo ricordare
alla presenza di un cattolicesimo che ha dato all’Europa questa separazione: ma
laicità non è pensiero debole, non è visione relativista del mondo, dell’etica.
Il laico non è, contrariamente a quello che Marcello Pera ha scritto su questo
giornale, «chi non crede o non riesce a credere». Non è neppure chi non riesce a
«conferire senso alla vita», a «interpretare il male» perché dotato del lume
della ragione e non anche della fede. Il laico è colui che tra Chiesa e Stato
sente di dover erigere, come diceva Thomas Jefferson, un alto «muro di
separazione»: per proteggere sia la sovranità legiferante del popolo, sia le
religioni. Diceva Jefferson che i poteri legislativi del governo «riguardano le
azioni, non le opinioni» (Lettera ai Battisti di Danbury, 1802), e di azioni
devono ancor oggi occuparsi i governi. La laicità non è un’opinione ma un
metodo, uno spazio dove le convinzioni più diverse - anche integraliste -
possono incontrarsi senza violenza e senza impedire leggi attente al bene
comune. L’autonomia della politica (il «muro» di Jefferson) non appartiene al
non cristiano: appartiene a ciascuno. Non esiste una forza esterna allo Stato
cui viene delegata la «competenza delle competenze», come la chiama lo storico
Giovanni Miccoli, e che può decidere le materie su cui lo Stato può o non può
legiferare. Il muro di Jefferson in Italia è in permanenza fatiscente - anche se
esiste nella sua Costituzione - e questo origina cronici disordini e
l’alternarsi continuo di ingerenze e di contestazioni anti-papaline. Queste
ultime son state definite malate, ma non meno malate son state le ingerenze
degli ultimi anni: l’intera spirale necessita guarigione e correzione. Il chiaro
muro divisorio non esisteva nemmeno nella Spagna di Franco, nel Portogallo di
Salazar, e quella malattia ha prodotto la reazione di Zapatero e le sue misure
di riordino e separazione laica.
In Italia siamo a un bivio simile, anche se con impressionante ritardo. È come
se nella nostra Chiesa permanesse ancora il modello franchista spagnolo, come se
il pensiero di cattolici come Rosmini e Maritain non avesse mai messo radice.
Come se non ci fossero stati il Concilio Vaticano II e Paolo VI, difensore della
laicità di Maritain contro gli integralisti del Vaticano. Come se fosse ancora
vivo e forte il «partito romano» che per decenni, da dentro la Chiesa, cercò di
suscitare uno Stato etico cristiano in Italia e mai si conciliò con papa Montini
e la Dc autonoma di De Gasperi.
L’episodio della Sapienza non è caduto dal cielo, e non rendersene conto
significa che una certa imprudentia politica sta divenendo la caratteristica del
Pontefice. Dice ancora Pera che le vecchie regole laiche sono sorpassate, e
forse lo pensa anche Benedetto XVI. Sono invece più che mai attuali, in
un’Europa dove si è ormai insediato un Islam forte, in espansione. Senza Stato
laico, che garantisca cattolici e non cattolici, atei e agnostici, avremmo in
Europa guerre di religioni, intolleranze, pogrom. Avremmo catastrofi benefiche
solo a chi non sa apprezzare quanto si stia bene, quando «tutto fila liscio».
Barbara Spinelli La Stampa 20/1/2008