L’odore del diavolo
Vedo un problema per i giornalisti che verranno dopo (alla fine un dopo ci sarà)
e dovranno spiegare l’applauso che ha coperto la voce di Clemente Mastella
mentre - alla Camera dei Deputati - ha lanciato la sua invettiva contro i
giudici. Certo, in quella voce di un uomo che stava dimettendosi da ministro
della Giustizia, era umano che vi fosse tensione, rabbia, indignazione, furore.
Ciascuno ha diritto di sentirsi innocente e ingiustamente perseguitato, offeso
se la famiglia è coinvolta, aggressivo nell’impeto di difendersi. E tutti noi
siamo vincolati alla presunzione di innocenza.
Un dignitoso, riservato silenzio sarebbe stato il naturale comportamento di
un’istituzione che rappresenta tutto il Paese che l’ha votata. Invece un
applauso concitato, tonante, assolutamente compatto ha fatto irruzione come
accade solo durante i concerti, quando un solista o un direttore d’orchestra
hanno superato le soglie della bravura, e non resta che lo slancio dell’emozione
per gridare «Bravo!». Vorrei esserci - in quel dopo che verrà - per capire come
quella sequenza incredibile - tutta la Camera dei Deputati che porta in trionfo
una persona pur sempre indagata - sarà spiegata in qualche programma tipo La
storia siamo noi a cura del nipote di Minoli.
Forse dovranno invitare qualche storico che adesso è alle elementari, sempre che
l’Italia, in quel futuro che non vedo vicino, sarà tornato un Paese normale.
Altrimenti si continuerà a mentire. Altrimenti si creerà una particolare
cerimonia religiosa nella vecchia redazione del Foglio, diventata nel frattempo
una chiesa, per celebrare l’anniversario della cacciata del Papa dall’Università
La Sapienza. Ci saranno immagini, ripetute all’infinito, dei giovani con la
bocca bendata. E sarà spiegabile - perché la storia spesso è alterata - come mai
si è potuto dire che un illustre personaggio che rifiuta un invito è un
personaggio «cacciato», «censurato», «costretto a tacere», lui che ha parlato,
parla e parlerà più di ogni “celebrity” al mondo (a confronto il presidente
degli Stati Uniti vive in clausura).
E nessuno ricorderà un curioso dettaglio andato completamente perduto già oggi,
figuriamoci nella storia. «Censura» sarebbe stato svilire e cacciare i
professori e gli studenti che si sono opposti al Papa- docente. Certo, su di
loro è calato il maglio del disprezzo, il vero disprezzo, da parte di tutti,
come se invece di esprimere dissenso in un ateneo avessero bestemmiato in
chiesa. Infatti il direttore di Radio Maria ha potuto dire pubblicamente - e
senza provocare veglie - che «intorno a loro si sente certo l’odore del
diavolo».
Poi la rinuncia del Papa a fare lezione è stata rovesciata in «proibizione di
parlare», come se la sola condizione per parlare fosse il tripudio universale e
preventivo e l’assoluta certezza che chi dissente taccia per sempre. Mi domando
se in quel futuro lontano in cui l’Italia tornerà capace di una rappresentazione
libera e critica di se stessa, qualcuno avrà conservato la registrazione di una
serata di Porta a Porta che pure sarebbe molto importante per gli storici che
verranno, per metterli in grado di domandarsi: «come è stato possibile?», e
forse per guidare bus di studenti verso ciò che resta dello studio di Bruno
Vespa, fra i ruderi di Saxa Rubra. Un esperto - se ci sarà - di questi giorni
incomprensibili, potrà indicare: lì sedeva quella sera Marco Pannella, che è
stato trattato come un malato di mente dai sostenitori del Papa (tutti i
presenti compreso un attivissimo conduttore che incalzava e accusava, e la sola
attonita eccezione dei professori atei Odifreddi e Cini, identificabili per
l’odore del diavolo) mentre documentava le enormi percentuali di tempo riservate
al Papa in tutti i media, circa un terzo delle notizie dal mondo trasmesse agli
italiani. È stato a quel punto - ricorderanno gli storici - che un alto prelato
del tempo, presumibilmente cappellano della televisione pubblica (o guida
spirituale del celebre talk show di quei tempi bui) ha potuto ammonire Pannella,
che forse era considerato un reietto e un disturbatore abituale dell’universale
consenso: «Noi non abbiamo bisogno di digiunare per ottenere spazio in
televisione».
Col tempo si capirà che la frase aveva un significato chiaro, anche se un po’
sarcastico. Significava: «Non si agiti, Pannella, tanto noi, con la scorta
armata e agguerrita dei credenti di carriera, facciamo quello che vogliamo per
tutto il tempo che vogliamo».
Invece, sul momento, e in quello studio, è stata accolta come un mite
ammonimento pastorale. E la regia si è sempre preoccupata di mandare in onda,
oltre alle dure sgridate ai laici di un conduttore evidentemente toccato nel
vivo dei suoi sentimenti religiosi, il sorriso di compatimento che l’on. sen.
prof. Buttiglione dedicava al folle Pannella (mentre leggeva i dati
incontrovertibili del tempo sterminato dedicato dalla televisione di Stato al
Papa) al suo sguardo di difesa e diffidenza verso i luciferini docenti del male
Odifreddi e Cini che stavano profanando lo studio tv, a quel tempo una sorta di
cappella consacrata alle sole verità consentite.
Ma grande sarà, in quel futuro fortunato e lontano, anche la difficoltà di
commentare e spiegare il tripudio di una immensa folla accorsa in piazza San
Pietro domenica 20 gennaio per dare tutto il sostegno al Papa e ascoltarlo
finalmente e liberamente parlare esattamente come accade a grandi folle bus
trasportate ogni domenica, ogni mercoledì e in ogni altro santo giorno
infrasettimanale, più tutti i telegiornali che Dio ci manda.
***
Ma questo è
il sogno di un futuro che non è neppure in vista. Stretti fra il sostegno al
Papa, che pure dice quando vuole quello che vuole interferendo nella libertà,
nelle decisioni e nelle leggi della nostra vita come nessuno, da quando esiste
la democrazia e la separazione tra Stato e Chiesa ha mai potuto fare; e la
solidarietà a Mastella di cui aspettavamo al Senato la legge che avrebbe vietato
ai giornalisti di pubblicare notizie certe, legali, documentate, con
l’indicazione della fonte (la celebre legge anti intercettazioni), ci sentiamo
un po’ soli, come credo tocchi a coloro che non riescono a dare una
ricostruzione logica ai fatti che ci travolgono.
Sono certo che i lettori mi perdoneranno se - in questo presente disorientamento
- parlerò d’altro, cercando di dimostrare che questo parlar d’altro ha un suo
senso che ci riguarda.
Un film mi ha aiutato ad attraversare, con pensieri, ricordi e riflessioni
utili, questi giorni di significati rovesciati, immagini capovolte e fatti noti
a tutti però negati. È il film La Signorina Effe di Wilma Labate. Dirò perché.
Perché è molto raro che un film rivolto al passato sia a suo modo profetico;
perché individua il vero confine fra un prima e un dopo che ha cambiato la
storia; perché sembra che riguardi Torino e la Fiat e invece racconta e spiega
il mondo, dalla fine del posto di lavoro fisso al crollo dei mutui detti
“future" e "subprime"; perché la traccia sentimentale che sembra sovrapporsi a
quella sindacale e politica individua in realtà istintivi percorsi di salvezza
verso un piccolo "noi" privato mentre finisce qui un "noi" grande come il mondo,
la vita degli altri, gli ideali per cui impegnarsi insieme.
Io non so quanto sia consapevole la bravissima Wilma Labate di avere fatto il
ritratto di un’epoca, di un grandioso e cupo momento di transizione nel mondo
che va molto al di là di una storia d’amore ai cancelli di Mirafiori a Torino.
Quello che accade è che la vicenda collettiva (che riguarda tutti a Torino,
tutti a Detroit, tutti a Tokyo, tutti in Svezia, tutti in Inghilterra, persino
tutti in India) è l’impetuosa corsa di un fiume che trascina via non solo ogni
ostacolo sindacale ma anche le vite private di coloro che nel film sono i
protagonisti e nella vita sono coloro che ciascuno di noi ha conosciuto sui
posti di lavoro. Il volto della ragazza intelligente e in cerca di una sua vita,
contesa fra un ingegnere e un operaio, che in apparenza racconta la storia
principale del film, in realtà galleggia fra i detriti dell’inondazione che
spazza via ogni argine. Spazza via l’ingegnere, l’operaio, gli operai, i quadri,
buona parte dei manager, tutti coloro che credevano di sostenere il nuovo mondo
spregiudicato e moderno o quello di prima, oscillante fra il buon lavoro e il
sogno di una vita più piena, libera e personale.
Nel film di Wilma Labate - sequenza dopo sequenza di vicende che sembrano solo
la storia di qualcuno - va via il lavoro, le sue garanzie, la sua dignità, la
sua certezza, gli equilibri faticosamente trovati fra chi investe danaro
nell’impresa e chi affitta la vita all’impresa chiamata lavoro. I
giocatori-lavoratori hanno creduto di rilanciare ma sono stati prontamente
avvertiti che era finita un’epoca, compresi gli impegni presi, le parole date, e
le varie immaginazioni e attese per il futuro.
Ciò che accade è insieme privato ed enorme. Trovo strana, e nello stesso tempo
esemplare, la coincidenza che ho dovuto notare tra il film appena visto la sera
del 16 gennaio, e un articolo che occupava quasi tutta la pagina 6 dell’International
Herald Tribune del 17 febbraio dal titolo «Un modo di vivere scompare mentre
scompaiono gli operai del Mid West». Mid West vuol dire Chicago, Detroit, Ohio,
vaste pianure costellate di fabbriche. Quelle fabbriche chiudono perché il
lavoro ormai si fa altrove. L’articolo si conclude con la frase del capo squadra
Jeffrey Evans, 49 anni, appena “messo in libertà”: «ho ceduto la mia casa,
buttato le chiavi al nuovo proprietario. Ho guidato fino a casa di mia madre, mi
sono ubriacato e sono andato a dormire». Questa è solo una di una ventina di
storie esemplari, uomini e donne che hanno lavorato bene, lasciati
all’improvviso senza lavoro, più giovani e più anziani di Jeffrey Evans. E non
sai se tra loro c’è una Signorinaeffe, un operaio e un ingegnere che l’avrebbero
voluta e lei che cerca da sola il suo destino. E non sai neppure se sia una
fortuna o una disgrazia che il loro lavoro fisso e relativamente ben pagato (14
dollari all’ora) sia durato più a lungo di quello della Signorinaeffe e dei suoi
compagni.
Di certo, per tutti coloro che chiamavamo “i lavoratori” è passata l’onda lunga
della svalutazione e della irrilevanza. Ti devi domandare come sarà il futuro
senza operai o con operai messi continuamente in concorrenza con rumeni e cinesi
in una corsa sfrenata verso il lavoro a costo zero. Di certo, sia nel film di
Wilma Labate che nelle praterie americane, non trovi leader politici. Nel film
italiano, certo, ci sono repertori filmati di un passato (i picchetti con
Berlinguer ai cancelli di Mirafiori) la cui fine è stata formalmente
certificata. Nell’articolo - che pure è scritto mentre l’America è in piena
campagna elettorale - non c’è alcun riferimento politico o sindacale, neppure
come rimpianto.
Non sappiamo per chi pensi di votare Jeffrey Evans. Sull’orlo di un evento che
cambia il mondo di tutti e certo ha cambiato il suo, lui ci dice che, a 49 anni,
è tornato dalla madre, si è ubriacato ed è andato a dormire.
È la stessa intuizione - un po’ sociologica e un po’ poetica - delle ultime
scene del film italiano. Solitudine. In quella solitudine non c’è la politica.
La politica non dice, non vede, non guida, non sente, non dà un senso al caotico
precipitare di eventi. Forse, da noi in Italia, siamo talmente schiacciati tra
il Papa e Mastella che il lavoro diventa solo una questione di contratti che non
si rinnovano e le morti sul lavoro sono il destino.
Come la spazzatura, riguardano solo coloro che sono coinvolti nella sequenza
sgradevole. Resta il vuoto. Resta la solitudine. Restano le notizie inventate o
insensate che ci riversano addosso ogni giorno per tenerci occupati. Non è una
buona vita. E non è una buona politica. Mi servono, per spiegare quello che ho
cercato di dire, due frasi che l’ex senatore Goffredo Bettini ha detto alla
Repubblica il 19 gennaio: «Siamo di fronte a un Paese diviso, incarognito,
avvelenato. Allora o il Pd ribalta questa situazione o non ha senso che esista.
O ridà speranza all’Italia o fallirà nella sua missione».
Furio Colombo l'Unità 20.1.08
colombo_f@posta.senato.it