Le parole della laicità
Giancarlo Bosetti ha invitato su La Repubblica di lunedì scorso coloro che si
occupano del dialogo fra non credenti e credenti a registrare gli orologi sul
tempo presente lasciando da parte Togliatti e De Gasperi. Lo si può certo fare,
a condizione però di mettere, dopo l’intervento del cardinale Bertone, qualche
puntino sulle i. Perché il cardinale non ha dimenticato soltanto, come gli è
stato ricordato, che negli anni di Togliatti, un dialogo fra comunisti e
cattolici vi è stato effettivamente, ma che esso si è svolto in una prima fase,
e a lungo, dopo il voto favorevole del Pci all’articolo 7, fra comunisti
scomunicati e cattolici scomunicandi o scomunicati. C’è anche dell’altro. Il
cardinale, infatti, mettendo al vivo vuoti di memoria ancora più gravi - perché
quel che venivano ignorati erano qui, insieme alle motivazioni che hanno spinto
i comunisti, soprattutto con Berlinguer, alla politica del dialogo, anche i
mutamenti intervenuti nelle posizioni della Chiesa - ha colpito a fondo le basi
stesse sulle quali, oggi come ieri, il dialogo può essere fondato.
Quelle basi che Giancarlo Bosetti ha riconosciuto valide affermando di far
proprio il principio di «eguale rispetto» da parte dello Stato nei confronti
delle varie posizioni religiose e anche nei confronti della non-religione. Il
«non preferenzialismo» dunque, o anche, più semplicemente, la tolleranza: (è
significativo che il Corriere parlando dell’ultimo libro di Papa Ratzinger abbia
messo in rilievo il riferimento alla fede «universale ma non intollerante»). Qui
c’è qualcosa del passato che va salvaguardato e per molti aspetti - anzi -
recuperato. Penso ad esempio a Berlinguer che nella famosa risposta dell’ottobre
1977 al vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi ha parlato del Partito comunista
italiano come di un partito «laico e democratico», e come tale «non teista, non
ateista e non antiteista», impegnato a dar vita ad «uno Stato laico e
democratico..., non teista, non ateista, non antiteista».
Un cittadino insomma può essere teista o ateo (e non vedo proprio perché
Odifreddi non possa essere definito laico allo stesso titolo di Bosetti) ma lo
Stato non può essere che «laico e democratico», e cioè di tutti: di coloro che
pensano che il matrimonio sia un sacramento religioso ma anche degli altri. «Chi
desidera sinceramente la ripresa, e la pratica effettiva di quella distinzione
fondamentale tra cattolici in quanto appartenenti alla comunità ecclesiale e
cattolici in quanto cittadini della repubblica - ha scritto ancora Berlinguer
nei giorni del referendum sul divorzio - deve adoperarsi per dare scacco alle
attuali scelte politiche dei dirigenti democristiani». Ma anche nel momento
dello scontro - ha aggiunto - «la linea della collaborazione e dell’intesa coi
movimenti politici e sociali dei cattolici» deve essere ribadita e riaffermata.
Questo è Berlinguer. Per quel che riguarda i cattolici mi limiterò a citare le
parole - riprendendole dalla rubrica del Corriere di Sergio Romano - con le
quali Alcide De Gasperi nel 1952 ha risposto a Pio XII che, ma invano, aveva
esercitato pressioni sulla Dc per indurla a dar vita a Roma, contro la sinistra,
ad una coalizione coi monarchici e i neofascisti. Per punire e umiliare il
Presidente del Consiglio italiano, il papa gli aveva negato un’udienza in
Vaticano. Ed ecco la risposta di De Gasperi: «Come cristiano accetto
l’umiliazione benché non sappia come giustificarla; come Presidente del
Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento, e di
cui non mi posso spogliare anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere
stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla
Segreteria di Stato un chiarimento». Il Papa insomma era per De Gasperi oltre
che il Capo della Chiesa cattolica anche il capo di uno Stato straniero. Di uno
Stato che aveva tentato di ingerirsi nelle vicende italiane rendendo così
inevitabile, in risposta, un vero e proprio atto diplomatico.
I comunisti, la Dc e il Vaticano di Pio XII. Ma poi anche la Chiesa che con
altri papi imboccò la via del dialogo aprendosi al mondo moderno. Non solo
operando dei distinguo fra le dottrine filosofiche e i movimenti storici reali
ma affermando, come si può leggere nella Pacem in Terris, che «gli incontri e le
intese nei vari settori dell’ordine temporale fra credenti e quanti non credono
o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere
occasione per scoprire la verità e renderle omaggio».
Né si è trattato soltanto di parole perché, dopo avere conquistato l’assenso
oltreché degli Stati Uniti anche - tramite Andreotti, secondo una testimonianza,
un poco sibillina seppure del tutto verosimile, di quest’ultimo - del Vaticano,
il Pci e la Dc hanno potuto stringere accordi per il governo del paese.
Certo guai a non vedere, pensando al passato, i segni pesanti di un secolo che
non si può certo definire come «il secolo del dialogo». E anche a non vedere i
limiti, di ieri ma anche di oggi della cultura di sinistra che, nello stesso
momento in cui è chiamata a individuare soluzioni adeguate ai problemi aperti
dagli spazi impressionanti ma anche, per certi versi agghiaccianti, conquistati
e conquistabili dal progresso scientifico, deve fare i conti con la tante
questioni irrisolte del passato (non è forse vero che anche oggi c’è a sinistra
chi pensa ad esempio che «difendere la famiglia» significhi negare che anche la
famiglia sia una costruzione della storia e nella storia, e che dunque vi
possono essere, vi sono, tante e diverse «famiglie naturali», tutte da
difendere?).
Tuttavia, se è giusto respingere, perché del tutto contrastante con la realtà,
il modo curiosamente nostalgico col quale il cardinale Bertone ha parlato del
dialogo avviato da comunisti e cattolici negli anni della guerra fredda, è bene
anche ricordare che, e proprio sui temi della «modernità», da quel dialogo sono
nate importanti leggi dello Stato. Leggi che vanno difese, contro un’offensiva
diretta non solo, e non tanto, contro i non credenti e gli atei (che avranno
tutte le colpe di questo mondo, non certo quella però di battersi perché le loro
opinioni diventino leggi dello Stato) ma in primo luogo contro i cattolici
democratici.
Cercando ad esempio di raggiungere uno per uno persino nelle aule parlamentari
quei deputati cattolici che nei giorni del dibattito sui Dico avevano detto in
sostanza, che essi avrebbero votato non già per imporre a tutti i cittadini,
come legge dello Stato, i valori che condividevano con la Chiesa, ma,
all’opposto, per permettere a tutti i cittadini di vedere rispettati dalle leggi
dello Stato, i propri valori e la propria morale quando beninteso non vengano
lesi valori e morale di altri.
Penso che la sinistra - quella, intendo, che si arricchisce nell’incontro con le
altre culture senza perdere e senza rubare, rincorrendo il mito del «pensiero
unico», autonomia e indipendenza - nel momento in cui è chiamata ormai
quotidianamente a genufflettersi dovrebbe sostenere quei cattolici che guardano
allo Stato come a un istituto che non può essere né teista, né ateista, né
antiteista.
Adriano Guerra l’Unità 11.1.08