Viaggio nelle schiavitù del terzo millennio 

 

Lo abbiamo imparato a scuola: il 1848 è la data ufficiale dell’abolizione della schiavitù. Per la maggioranza della gente, quindi, il commercio degli schiavi è una mostruosità del passato, di cui ci siamo liberati anche se rimane la vergogna storica nella nostra coscienza di esseri umani e cristiani.

E’ vero: quel tipo di schiavitù è finita (quasi) dapper­tutto; ma ne è sorta una nuova, forse peggiore della prima, ed esiste in tutto il mondo, anche nei paesi più sviluppati, come Europa, Stati Uniti; Australia, Giap­pone. Anzi oggi ci sono più persone schiavizzate, di quante ne furono strappate all’Africa, in quasi tre se­coli di tratta transatlantica, per arricchire i colonizzatori delle Americhe.

Tutte le nazioni del mondo hanno dichiarato fuori legge lo schiavismo, anche se alcune sono arrivate con oltre un secolo di ritardo. Il guaio è che nei paesi dove la schiavitù è endemica, perché fa parte del tessuto culturale, sociale ed economico, nessuno si e premurato di dire a milioni di schiavi che sono liberi. Anzi governi di molti paesi negano l’esistenza della piaga o emanano leggi per curarla, senza poi farle rispettare.

E’ stata abolita la schiavitù legale, ma continua quel­la illegale, basata sul «diritto» del sopruso, camuffata sotto vecchie e nuove forme: da quelle tradizio­nali come la schiavitù per possesso, alla tratta di donne e bambini per lo sfruttamento sessuale, dal lavoro forzato a quello per debito, dalla schiavitù domestica a quella contrattualizzata. Tutte queste forme hanno un comune denominatore: il totale controllo delle vittime da parte dei nuovi schiavisti e gli alti profitti degli sfruttatori. La schiavitù è diventata, infatti, un business in continua espansione, un’industria che, nell’economia globalizzata, obbedisce alle leggi della domanda e dell’offerta. Lo schiavo, oggi; è «materiale di consumo», merce «usa e getta»: è usato finché serve; quindi viene scartato e rimpiazzato con altra «merce umana».

Il fenomeno investe anche l’Europa, dove gli schiavi si contano a centinaia di migliaia e l’Italia è al primo posto e al cen­tro di questo commercio, anche perché la schiavitù moderna è strettamente legata all’immigrazione clandestina.

I fatti di cronaca che parlano di donne nigeriane ed est-europee costrette alla prostituzione, bambini lavavetri o usati per l’accattonaggio, adulti e minorenni costretti ai lavori forzati nei laboratori gestiti da cinesi; maghrebini sfruttati nell’agricoltura e nella pesca e perfino la compravendita di neonati… sono la punta dell’iceberg della nuova schia­vitù in Italia, gestita da mafie di «negrieri» italiani, cinesi, albanesi, russi, nigeriani e di altre nazionalità. Quello che ci sfugge, però, sono i drammi umani del­le vittime, causati dalla libertà perduta, la dignità cal­pestata, i sogni infranti e la vita stessa in balia di maniaci e sfruttatori. E nessuno grida allo scandalo, poiché le loro tragedie sono ridotte a un problema di clandestinità; anzi, sono spesso banalizzate, con la scusa che la prostituzione è il mestiere più vecchio del mondo. Ma la stragrande maggioranza delle donne che battono i nostri marciapiedi sono schiave: non hanno scelto liberamente quel mestiere, ma vi sono costrette con l’inganno e la violenza, tanto che chi si ribella può finire ammazzata.

E chi le usa si rende complice di tale vergogna.

Sono certo che i nostri lettori provano sincera indignazione di fronte alle varie forme di schiavitù praticate dentro i nostri confini. Ma non basta. Occorre dilatare l’orizzonte, per non essere complici della vergogna che si consuma a livello mondiale.

Anche se indirettamente, gli schiavi hanno a che vedere con la nostra vita di ogni giorno. Può darsi che la banana che mangiamo e lo zucchero che mettiamo nel caffè siano intrisi del sudore di schiavi latinoamerica­ni e i tappeti che calpestiamo siano stati tessuti da schiavi pakistani; tende, camicie, gioielli e altri manufatti potrebbero essere frutto del lavoro coatto di donne e ragazzi indiani; palloni e giocattoli in mano ai nostri bambini potrebbero grondare sangue di al­trettanti minorenni asiatici o caraibici.. Gli esempi possono essere infiniti.

Non è facile seguire le tracce per risalire al crimine originario; ma non è impossibile. Oggi esistono pubblicazioni, associazioni, campagne di informazione che mostrano i legami tra schiavitù e prodotti richiesti da consumatori e rivenditori occidentali: bisogna informarsi ed essere disposti a cambiare qualche abitudine di vita. Soprattutto occorre chiamare questa vergogna globalizzata con il proprio nome: schiavitù, senza confonderla con altri crimini, per quanto gravi.

E questo vale soprattutto in casa nostra, dove i nostri governanti sembrano conoscere solo la repressione contro i «clandestini», confondendo in tale termine carnefici e vittime, senza preoccuparsi di restituire a queste ultime la propria dignità.

 

Editoriale di “Missioni Consolata” (Ott.Nov.2005)

(Benedetto Bollesi)