Credenti o atei di chi è la ragione?
Salman Rushdie, lo scrittore indiano dei famosi Versetti satanici ha scritto
ieri sulle pagine di Repubblica di aver cambiato idea sullo scontro di civiltà.
Lui che è stato costretto a riparare a Londra per sfuggire alla condanna a morte
del regime khomeinista degli ayatollah riconosce che la tesi di Samuel
Huntington è un'ipersemplificazione, che però un'idea, per quanto astratta, se
diventa un luogo comune condiviso dalla maggioranza, si trasforma in una
terribile realtà. Una profezia che si autoavvera. Attenzione, però. Non è che
Rushdie sposi le tesi di Huntington - come Repubblica allude. Non dice che le
religioni sono monolitiche, che sono l'unico fattore di identificazione della
civiltà e degli individui. Né tantomeno adombra la fatalità della guerra
infinita dell'occidente contro l'oriente. Dice invece un'altra cosa: che la
guerra vera è culturale, è la lotta doverosa della ragione contro i dogmi
religiosi e della libertà contro l'autorità delle chiese cui nessuno di noi può
sottrarsi. «Questa è la battaglia che combatteva Voltaire, ed è anche quello che
tutti i sei miliardi di noi potremmo fare per noi stessi, la rivoluzione in cui
ognuno di noi potrebbe giocare la sua piccola, seimiliardesima parte: potremmo,
una volta per tutte, rifiutare di permettere ai preti e alle storie immaginarie
in nome delle quali essi pretendono di parlare, di essere i poliziotti delle
nostre libertà e del nostro comportamento». Potremmo vedere il «mondo semplice e
sdogmatizzato».
Anche qui da noi lo scontro tra ateismo e fede è diventato un tema costante nel
dibattito pubblico. Case editrici, filosofi, intellettuali e maitre à penser ne
hanno fatto un refrain e si sono lanciati in una produzione sterminata di
pamphlet ora (un po' più) a favore dei credenti, ora (un po' meno) a favore del
laicismo.
Tutto è iniziato con Benedetto XVI. La sua campagna contro il relativismo -
davvero un'invenzione semantica azzeccata - ha dato l'abbrivio a un nuovo genere
editoriale a confine tra letteratura e saggistica come piace al pubblico. Tutta
opera di Ratzinger? In parte sì. E non è operazione da sottovalutare. Alla sua
intelligenza di raffinato teologo non sarà sfuggito la crisi della teologia e
delle religioni istituzionalizzate nella società consumistica che è, de facto ,
la smentita più virulenta dei valori del cristianesimo. Non è sfuggita la crisi
del pensiero forte, delle grandi ideologie, delle visioni organiche del mondo. E
ha reagito imboccando la strada di uno scontro culturale tra la sua parte -
quella dei valori, dei fini ultimi, della vita - e l'avversario, dipinto a
proprio uso e consumo come arbitrio soggettivo, come negazione della vita, dei
valori e dell'uomo. Ma se Ratzinger stesse invece combattendo un altro nemico,
più pericoloso perché interno e irrazionale? Forse non è la ragione a
preoccupare la Chiesa del nostro tempo - e non sarà certo un caso se Benedetto
XVI rivendica al cristianesimo l'eredità del logos greco - quanto invece la
diffusione dell'irrazionale, delle credenze costruite a uso consolatorio
dell'individuo, della new age e del misticismo, delle sette.
Ecco, appunto, da che parte sta la ragione? Dalla parte dell'ateismo che cerca
un criterio per distinguersi dalla credenza o dalla parte della chiesa
istituzionale per la sua battaglia interna contro le eresie mistiche del nostro
tempo? Ci provano a rispondere tre filosofi, Paolo Flores d'Arcais, Michel
Onfray e Gianni Vattimo in un libro-conversazione, Atei o credenti (Fazi
Editore, pp. 184, euro 15).
Anche la filosofia è chiamata in gioco, presa com'è in mezzo a due fuochi -
scrive Flores d'Arcais. Tra la volontà di rivincita delle religioni e la fortuna
in campo filosofico di scuole che rifiutano il disincanto, cioè la «finitezza
empirico-naturalistica del mondo». Come si spiega questa crisi? La filosofia
dopo Hume e Darwin dovrebbe sapere tutto sull'uomo, sui limiti del suo pensiero,
sulle sue origini biologiche e sulla mancanza di un destino storico. Perché non
accetta allora l'ateismo come suo orizzonte naturale? Siamo in grado di
affermare ragionevolmente la non esistenza di Dio e dell'immortalità dell'anima.
Abbiamo la scienza sperimentale e descrittiva, abbiamo la logica, un criterio
sicuro e accertabile per distinguere ciò che è razionale da ciò che non lo è.
L'ateismo sarebbe tutt'altro che quel pensiero anarchico, selvaggio, affogato
nel relativismo e nell'indifferenza di tutti i valori come lo dipinge Benedetto
XVI. Flores d'Arcais scommette sul recupero dell'Illuminismo, di una razionalità
capace di valori conoscitivi ed etici universali, validi per l'umanità intera.
Però Onfray e Vattimo gli rimproverano di non accorgersi che la ragione di cui
parla - come la scienza e la tecnica - è figlia di una cultura che nasce dalla
volontà di potenza dell'occidente. Cosa ci resta allora? Abbracciare il
relativismo e l'indifferenza dei valori di verità, cedere all'egemonia del
postmoderno, e pensare che anche la razionalità, come tutto il resto, sia una
pratica simbolica della nostra cultura e intraducibile nella cultura degli
altri?
Tonino Bucci Liberazione 15.12.07