Se la carità sostituisce lo Stato
Mezzo miliardo di euro, secondo fonti ecclesiastiche, viene speso per opere di
assistenza nel mondo un tacito patto: mentre la mano pubblica smantella il
Welfare, quella vaticana tappa le falle più evidenti. Carità, l´altra faccia
dell´obolo così la Chiesa sostituisce lo Stato
Il grande obolo di Stato alla chiesa cattolica, che ogni anno costa circa cinque
miliardi di euro ai contribuenti, ha anche un volto e uno scopo nobili: la
carità. Le fonti della Chiesa parlano di mezzo miliardo di euro speso dal
Vaticano e dalle conferenze episcopali per opere di assistenza in tutto il
mondo. La quota più consistente arriva dalla Cei, la conferenza episcopale
italiana, che destina il 20 per cento del miliardo ricevuto con l´ «otto per
mille», oltre 200 milioni di euro, in assistenza e carità: 115 milioni in Italia
e 85 milioni nelle missioni all´estero. Ma il flusso di carità della Chiesa
avviene anche attraverso altri canali, come la Caritas internazionale, il fondo
papale della Cor Unum, le associazioni di volontariato e perfino la banca
vaticana, lo Ior, e la prelatura dell´Opus Dei, più note per attività meno
benigne.
Si può discutere se si tratti di tanto o poco rispetto al costo complessivo
della chiesa cattolica per gli italiani. Si potrebbe forse fare di più, come
sostengono molte voci cattoliche. Ma nei fatti in alcune realtà parrocchie e
missioni cattoliche sono rimaste sole a presidiare i confini più disperati della
società, quegli stessi dai quali lo stato sociale si ritira ogni giorno.
All´origine dei molti regali e favori fiscali concessi alla Chiesa, soprattutto
negli ultimi vent´anni, dopo la revisione del Concordato, non ci sono soltanto
il frenetico lobbyismo dei vescovi e la rincorsa di tutti i partiti al pacchetto
di voti cattolici, ormai esiguo in termini assoluti (le ricerche citano un 6-8
per cento) ma sempre decisivo. Esiste un tacito patto per cui, mentre lo stato
smantella pezzo per pezzo il welfare, la chiesa s´incarica del «lavoro sporco»,
di tappare le falle più evidenti e arginare la massa crescente di esclusi senza
più diritti, garanzie, protezione.
Basta girare le città italiane per vedere quanto sia estesa la rete di
supplenza. Le parrocchie sono diventate in molti casi i principali centri di
accoglienza per gli immigrati, gli uffici di collocamento per stranieri ed ex
carcerati, i consultori per le famiglie che hanno in casa un nonno con
l´Alzheimer, un figlio tossico, un parente con problemi di salute mentale. I
centri Caritas della capitale sono gli unici punti di riferimento e di ricovero
del «popolo della strada», senza tetto, mendicanti, alcolisti abbandonati dallo
stato e dalle famiglie. Svolgono un ruolo prezioso di raccolta dati per
segnalare le nuove emergenze, come la povertà giovanile italiana, la più alta
d´Europa.
L´incapacità dei governi di elaborare una seria politica dell´immigrazione,
oltre le sparate populiste, ha delegato nella pratica ai preti la questione
sociale più importante degli ultimi vent´anni. A Milano, personaggi come don
Colmegna svolgono di fatto il ruolo di «sindaci ombra» nelle periferie ormai
popolate in larga maggioranza da immigrati. E non sono soltanto le politiche
sociali a mancare. La comunità di Sant´Egidio a Roma è diventata un punto di
riferimento internazionale per le politiche nei confronti dell´Africa e del Sud
America, certo più consultata in materia della Farnesina. La stessa iniziativa
della moratoria contro la pena di morte, l´unico momento in cui la politica
estera italiana abbia ricevuto attenzione oltre i confini, è partita dalla
comunità con sede in Trastevere. Il Patriarcato di Venezia, in particolare con
l´arrivo del cardinale Scola, ha intrecciato una fitta rete di scambi culturali
con l´Islam. Franato con i muri il terzomondismo della sinistra, avvelenati i
pozzi della solidarietà laica nello «scontro di civiltà», ormai è
l´organizzazione cattolica a detenere quasi l´esclusiva dei problemi del terzo
mondo, anche quello di casa nostra.
La formula è «soldi in cambio di servizi». Privilegi fiscali, esenzioni, pioggia
di finanziamenti a vario titolo ma per delegare al mondo cattolico un lavoro
sporco che lo stato non vuole e non sa fare. Alla fine è sempre questa la
giustificazione all´anomalo rapporto economico fra stato e chiesa, al di là
delle improbabili contestazioni delle cifre (che sono quelle). Il discorso è
logico ma lo scambio è diseguale. Lo stato non ha nulla da guadagnare
nell´ammettere la propria inettitudine. Come spesso accade, sono proprio alcuni
intellettuali cattolici a rilevarlo.
Nella società spappolata dagli egoismi, come appare nell´ultima rapporto del
Censis, secondo Giuseppe De Rita il ruolo di supplenza della chiesa cattolica si
è evoluto fino a conquistare il cuore dei rapporti sociali: il campo
dell´appartenza. «La chiesa è l´unica ormai a capire che si fa sociale con
l´appartenenza. Non si tratta soltanto di fornire servizi ma anche accoglienza,
valori di riferimento, identità. Un tempo in Italia erano molte le classi di
appartenenza. Se penso al Pci nelle regioni rosse o ai grandi sindacati, alla
rete delle case del popolo, alle cooperative, questo mondo è scomparso in gran
parte, la mediatizzazione della politica ha cambiato i termini della questione.
Oggi se Veltroni vuol lanciare il Partito Democratico pensa a un evento, ai
gadget, alla comunicazione, ma non è la stessa cosa. Lo stato italiano, a
differenza di altri, non ha mai saputo creare appartenenza e per questo non è in
grado di fare politiche sociali efficaci, per quanto costose. I comuni sono
l´unica appartenenza politica degli italiani». Non è un caso che siano proprio i
comuni, i sindaci, a entrare più spesso in conflitto con la supplenza del clero,
per esempio nella vicenda dell´Ici. Ma non è paradossale che una società sempre
più laicizzata affidi compiti così importanti al clero? La risposta di De Rita è
netta. «E´ vero che la religione cattolica in quanto tale è in crisi. Le scelte
individuali ormai prevaricano le indicazioni dei vescovi. La vera forza della
chiesa non sta nel suo aspetto pubblico, mediatico, politico, ma nell´essere
rimasta l´unica organizzazione con un forte radicamento nei territori e una
pratica sociale quotidiana. Una pratica di solidarietà che molti laici non
hanno, me compreso. La chiesa di Ruini è un altro discorso».
Ma come la pensa chi al sociale ha dedicato la vita? Don Luigi Ciotti s´incarica
di combattere da quarant´anni, attraverso il Gruppo Abele e poi Libera, tutte le
guerre che la politica considera perse: contro la povertà, le mafie, le
dipendenze, la legge non uguale per tutti, i ghetti carcerari, le periferie
insicure, le morti in fabbrica. Con il sostegno della chiesa, ma non sempre. Fu
processato in Vaticano quando da presidente della Lila sostenne che l´uso del
preservativo per non trasmettere l´Aids era un atto d´amore cristiano. E ancora
quando parlò dal palco di Cofferati davanti ai tre milioni del Circo Massimo. La
sua è una testimonianza in primissima linea. «In quarant´anni ho imparato che
una società felice è quella dove c´è meno solidarietà e più diritti. La bontà da
sola non basta, a volte anzi è un alibi per lasciare irrisolti i problemi.
Questa bontà ci rende complici di un sistema fondato sull´ingiustizia, che poi
delega a un pugno di volontari la cura delle baraccopoli perché non diano troppo
fastidio. I volontari del gruppo Abele, di Libera, cattolici o no, non hanno
certo rimpianti per la vita che si sono scelti, era tutto quanto volevamo fare.
Ma non che potevamo fare. Si ha sempre l´impressione di rincorrere i problemi.
La questione è reclamare più giustizia, non offrire come carità ciò che dovrebbe
essere un diritto». La chiesa con i suoi interventi pubblici sembra richiamare
l´attenzione più sui temi sessuali o sulla famiglia che non sulle questioni
sociali, o è un pregiudizio anticlericale? «La Chiesa è fatta da uomini e ospita
di tutto, anche mondi assai distanti fra di loro. Ma è vero che l´attenzione dei
media e della politica si concentra soltanto su alcuni aspetti, Per esempio, se
i vescovi criticano i Dico la polemica dura anni. Se invece Benedetto XVI si
scaglia contro il precariato giovanile, la sera stessa la notizia sparisce dai
telegiornali. Molti nella chiesa pensano di più agli aspetti spirituali e
considerano che la giustizia non sia di questo mondo. Io non l´ho mai vista
così. Penso che la strada per il cielo si prepara su questa terra»
Curzio Maltese Repubblica 17.12.07