È difficile essere laici nel paese delle chiese
Un articolo di Salman Rushdie (su Repubblica di venerdì 14) riapre il tema della
laicità. Lo riapre da par suo, radicalizzando il suo pensiero fino a
"scomunicare" il ruolo prescrittivo e fondamentalista delle religioni,
fomentatrici di intolleranze reciproche e perfino di violenze e di guerre quando
disputano di verità assolute e contrapposte. «I preti debbono essere
inascoltati» scrive Rushdie. «Le loro predicazioni sono favole per bambini che
si rifiutano di crescere e ingombrano i cieli di improbabili divinità che
offuscano la ragione e lacerano le coscienze anziché pacificarle con la vita».
Nel lessico di Rushdie i preti sono tutti coloro che amministrano le verità
rivelate, i dottori della legge rabbinica, i "mullah", gli "ayatollah", gli "ulema"
sciiti e sunniti che predicano il Corano, i sacerdoti della Chiesa di Roma e
delle altre chiese cristiane, divisi e in guerra tra loro ma uniti nel
manipolare le coscienze dei credenti, irretite dalla promessa della salvezza e
dell´eterna beatitudine.
Per lui la Bibbia, il Vangelo, il Corano, sono testi meravigliosi, poetici,
suggestivi, la cui lettura non può che rafforzare l´intelligenza e il sentimento
morale degli uomini e delle donne del mondo intero, ma il loro significato viene
stravolto dalla casta che si è autoproclamata depositaria esclusiva di quei
testi, intermediaria unica tra il cielo e la terra. E così conclude rivolgendosi
ai credenti la sua serrata requisitoria: «Solo tu puoi decidere se vorrai che
siano i preti a elargirti la legge e accettare che il bene e il male siano
esterni a noi stessi. A mio parere la religione, anche nella sua versione più
sofisticata, infantilizza il nostro io etico fissando infallibili Arbitri morali
e irriducibili Tentatori immorali al di sopra di noi. Essi pretendono di essere
i poliziotti delle nostre libertà e dei nostri comportamenti».
Questo è, nella sostanza, il testo di Rushdie; l´ho definito una scomunica
lanciata contro i preti di tutte le religioni, la protesta di un non credente
animosamente schierato contro gli dei fallaci che guidano gli eserciti, contro i
profeti che gli aprono la strada, contro l´infantile credulità degli adulti che
collocano dietro le nuvole i loro eterni Genitori e li invocano per allontanare
da loro il dolore e la precarietà della vita.
Francamente non mi era mai capitato di leggere un testo così radicale e senza
appello da parte di uno dei maggiori scrittori della modernità. Si può definire
un manifesto della laicità?
Da laico e da non credente ho qualche dubbio in proposito. Sento che il suono,
il sentimento, la visione della laicità - almeno come io la intendo - non sono
questo. Non sono rispecchiati da queste parole, da un´arringa così impietosa e a
sua volta così intollerante.
Voglio perciò spiegare le ragioni del mio dissenso, anche se concordo con gran
parte delle affermazioni di Salman Rushdie.
* * *
Prima di
spiegarmi debbo tuttavia dar conto di un altro testo, del quale nello stesso
numero di Repubblica viene pubblicato un sommario resoconto. Si tratta di un
documento redatto dal professor Ceruti, docente di epistemologia all´Università
di Bergamo, relatore del "Manifesto dei valori" del quale si occupa un´apposita
commissione del Partito democratico presieduta da Alfredo Reichlin.
Di quella commissione fanno parte credenti e non credenti, impegnati nel
definire il profilo del nuovo partito sulle materie «eticamente sensibili».
Quale sia insomma l´impegno del partito su temi molto concreti e attuali, come
la ricerca scientifica, l´eutanasia, il testamento biologico, la fecondazione
assistita, l´aborto, l´embrione, le coppie di fatto, l´omofobia. Insomma i
problemi della vita e della morte e scusate se è poco.
Non conosco il professor Mauro Ceruti. Apprendo soltanto che insegna a Bergamo e
che è cattolico. E´ giusto che il relatore di una materia così complessa e
delicata dichiari la propria credenza. E´ giusto che gli altri componenti di
quella commissione lo sappiano. E´ doveroso, da parte del relatore, tenere nel
debito conto le diverse esperienze e identità culturali dei suoi colleghi,
putativamente rappresentativi degli aderenti a quel partito.
Leggo dal resoconto giornalistico che Ceruti è fautore del dialogo. Bravo. Mi
sembra il minimo. Osservo tuttavia che la parola dialogo è ormai terribilmente
inflazionata. Se per dialogo si intende che ciascuno dei dialoganti esprima la
propria posizione sui temi in questione e poi resti aggrappato ad essa, questo
non è propriamente un dialogo bensì un monologo.
So che in quella commissione siede anche la senatrice Binetti, cattolica di
strettissima osservanza, balzata all´onor delle cronache per aver votato contro
l´emendamento sull´omofobia rischiando con quel voto di provocare una crisi di
governo.
Non ho nulla da obiettare in proposito: il voto di coscienza passa avanti ad
ogni altra considerazione. Ma il voto di coscienza passa avanti anche al
dialogo? Come si comporterebbe il relatore Ceruti se la Binetti ribadisse che su
quel tema e su altri analoghi lei non è disposta a mutare parere quali che siano
le obiezioni che gli possono essere opposte? E se, da un opposto versante, un
laico non credente affermasse anche lui il suo integrismo? Dove andrebbe a
finire il dialogo caro al professor Ceruti come a tutti noi?
Discutendo domenica scorsa su queste pagine il caso Binetti, scrissi che la
senatrice era certamente portatrice di valori apprezzabili, che quei valori
avevano la potenzialità di «contaminare» valori opposti, a condizione di esser
disponibili a farsi a loro volta «contaminare».
Così mi auguro che avvenga, ma ho drizzato le orecchie leggendo che la bozza
Ceruti invita gli scienziati a praticare la «buona scienza» (definizione che
trovo anche nell´enciclica "Spe Salvi"). «La libertà di ricerca - scrive Ceruti
- si deve conciliare con il principio per cui non tutto ciò che è tecnicamente
possibile è moralmente lecito».
Chi stabilisce e in base a quale principio che cosa sia moralmente lecito? Debbo
ricordare al relatore del Pd che la Santa Inquisizione e i Tribunali del
Sant´Uffizio stabilirono che il sole girava attorno alla terra (e misero in
gabbia Galileo che sosteneva il contrario)?
E´ evidente che sulla strada indicata dal professor Ceruti la commissione dei
valori del Pd non riuscirà a muovere un solo passo avanti, come non lo
muoverebbe se un altro relatore presentasse come carta valoriale la requisitoria
di Rushdie contro la casta dei preti. Dunque, che fare? Dove trovare la
«contaminazione» cioè la sintesi che non è una giustapposizione né un volatile
sincretismo ma, appunto, sintesi a livello più alto sia della tesi sia
dell´antitesi? (Mi permetto di ricordare alla senatrice Binetti di averle
chiesto di dare una risposta di verità sull´ipotetica telefonata che avrebbe
avuto con il segretario della Conferenza episcopale in prossimità del voto
sull´omofobia. Non è un tema privato, appartiene allo spazio pubblico
riconosciuto e ampiamente utilizzato dalla Chiesa. La Binetti è quindi tenuta a
rispondere, ma non ho notizia che l´abbia fatto).
* * *
Un manifesto
della laicità che configuri un partito che vuole identificarsi con la democrazia
non può avere altro punto di riferimento se non la democrazia stessa nella sua
essenza costituzionale. Non può quindi essere né clericale né anticlericale, né
prescrivere una laicità buona o una laicità cattiva; deve fare a meno di ogni
aggettivazione qualitativa che dettasse regole esteriori alla democrazia e ai
cittadini democratici.
La laicità senza aggettivi riposa esclusivamente sul principio di non imporre ai
cittadini altro vincolo all´infuori di quello che vieta a ciascuno di limitare
la libertà altrui e di violare il principio di eguaglianza di tutti di fronte
alla legge. Questo e non altro è il fondamento della democrazia di cui la
laicità non è che il sinonimo.
Ogni opinione può essere manifestata liberamente e in contrasto con altre
opinioni. Ma se l´opinione di alcuni - fosse pure opinione maggioritaria - si
trasformasse in norma discriminante, allora l´eguaglianza sarebbe violata e con
essa la democrazia.
L´esempio più chiaro è quello della legge sul divorzio. Si tratta in quel caso
di una norma facoltativa; consente a chi vuole utilizzarla di valersi di una
procedura a tutela di un diritto, che non impone alcun dovere a chi non voglia
valersene. Viceversa impedire il divorzio ad una coppia che voglia recidere il
contratto matrimoniale impone un limite ad un diritto l´esercizio del quale non
lede alcun altro cittadino.
Fondandosi sul principio di eguaglianza di fronte alla legge le Costituzioni
democratiche vietano ogni discriminazione basata su etnia, religione, sesso. La
legge è eguale per tutti. Tutti i diritti che non ledono diritti altrui meritano
rispetto e cittadinanza.
Su questi fondamenti democratici si basa la libertà religiosa, la libertà
sessuale, la libertà di ogni etnia. Le coppie di fatto siano etero siano
omosessuali, hanno diritto di esistere poiché non ledono alcun altro diritto. Le
leggi che le tutelano sono, come il divorzio, facoltative. Impedirne l´esistenza
costituisce una discriminazione e vìola in tal modo un precetto costituzionale.
Si può invocare l´obiezione di coscienza contro un principio costituzionale?
Rivendicando contemporaneamente la propria appartenenza ad un partito
democratico? Direi proprio di no. L´obiezione di coscienza avrebbe in tal caso
un´impronta tipicamente clericale, incompatibile con i principi della democrazia
«per la contraddizion che nol consente».
Post scriptum. Ho letto venerdì scorso sul Corriere della Sera un articolo di
fondo di Pierluigi Battista intitolato "I professionisti del rifiuto". La tesi è
questa: ci vuole una nuova legge elettorale che modifichi radicalmente il "porcellum"
esistente (voluto e votato da tutti i partiti del centrodestra allo scadere
della precedente legislatura).
Per varare una nuova legge elettorale è opportuna una larga maggioranza che
comprenda anche Forza Italia. Veltroni ha intrapreso questa strada «virtuosa».
Ma i professionisti del rifiuto (come da titolo) stanno seminando sul terreno
dei negoziati una serie di «bombe di carta» mirate a ravvivare la demonizzazione
di Berlusconi e impedire così che il negoziato prosegua fino al risultato
finale. Chi agisce in questo modo congiura contro gli interessi del Paese.
Fin qui Battista, il quale non nomina Repubblica ma è a noi che si riferisce e
alla «bomba di carta» della nostra denuncia (suffragata da un´inchiesta
istruttoria della Procura di Napoli) di una tentata compravendita di voti di
alcuni senatori da parte di Berlusconi e una serie di contatti che contengono
ipotesi di corruzione tra il leader di Forza Italia e Agostino Saccà, uno dei
massimi dirigenti della Rai.
Non entro nel merito delle opinioni di Battista; lui la pensa a quel modo, lo
scrive e se ne assume la responsabilità. Osservo che il suo articolo altro non è
che un processo alle nostre intenzioni. La nostra denuncia sarebbe cioè motivata
dal desiderio di impedire il negoziato in corso tra Berlusconi e Veltroni. Il
processo alle intenzioni è un metodo arbitrario, basato non su fatti ma su
supposizioni. Un giornalista che si rispetti e che abbia rispetto di sé dovrebbe
evitarlo.
Per quanto ci riguarda noi siamo favorevoli ad una riforma elettorale che
cancelli la legge vigente ed eviti il referendum. Siamo favorevoli al tentativo
di Veltroni di coagulare un´ampia maggioranza attorno alla nuova legge. Siamo
favorevoli ad un negoziato rapido che scongiuri il referendum. Se nel frattempo
ci imbattiamo in atti di corruzione attribuiti al leader dell´opposizione,
riteniamo nostro dovere darne notizia al pubblico. Se questi atti avessero
riguardato il presidente del Consiglio o un uomo politico del centrosinistra ci
saremmo comportati allo stesso modo.
A Battista vorrei chiedere: se la notizia di cui si discute fosse arrivata sul
suo tavolo e sui tavoli del suo giornale, che cosa avrebbe fatto Pierluigi
Battista? L´avrebbe cestinata perché inopportuna? L´avrebbe chiusa in cassaforte
a futura memoria? E´ questo il canone deontologico in vigore al Corriere della
sera?
Il suo articolo ce lo fa temere. Sarebbe grave se il giornalismo del Corriere si
piegasse a questo genere di compromessi. Nei confronti del centrosinistra non ha
mai taciuto nequizie, vere o supposte. Allora l´eccezione vale solo per
Berlusconi? Questo non sarebbe solo grave ma sarebbe gravissimo. Per voi e per
tutto il giornalismo italiano.
Eugenio Scalfari Repubblica 16.12.07