Il nome esatto è «femminicidio»


Le donne sono capaci di altrettante efferatezze degli uomini: dalle torture sul nemico prigioniero alla violenza sui loro stessi figli perpetrata anche per denaro. Tuttavia ritengo sia giusto usare il termine «femminicidio». Partiamo da lontano : paesi ricchi e poveri, salvo poche eccezioni, hanno in comune il monopolio maschile dell’uso legittimo della forza. Ovvero, in Occidente la lotta per le pari opportunità nella presenza delle donne nei corpi di polizia e nell’esercito è cominciata da pochissimo e, per ora, non ha dimostrato che sia possibile umanizzare il rapporto con il nemico (le foto dall’Iraq sono state eloquenti), ma neppure che sia possibile introdurre metodologie non violente nell’addestramento dei corpi di polizia. Dunque siamo lontani dalla civilizzazione dell’aggressività umana e, per ora, restiamo all’evidenza più semplice: gli uomini sono, in percentuali assolutamente preponderanti, responsabili di atti di violenza su persone di ogni sesso ed età.
La dicotomia culturale tra i due generi, costruita per gli uomini sulla valorizzazione di alcune forme dell’aggressività (il guerriero come ideale della virilità) e per le donne come interiorizzazione e colpevolizzazione delle pulsioni aggressive (l’ideale della madre che muore per il figlio e sopporta ogni «esuberanza» del marito), danneggia ambedue, perché ha contribuito a costruire una relazione con germi socialmente patologici, a partire dal primo legame, quello familiare. Senza fare sconti alle responsabilità individuali, la costruzione delle relazioni uomo-donna attorno alle asimmetrie nell’uso dell’aggressività svela anche la violenza delle donne sui loro figli, e la violenza sui bambini in generale, come violenza di genere, cioè inerente a quella relazione primaria in cui il maschile e femminile si fanno la guerra anche attraverso i loro cuccioli. Oggi siamo colpiti da due fenomenologie: la tratta delle donne e quella dei minori; la violenza sulle compagne di scuola, moltiplicata dall’uso di cellulari, blog, internet. La tratta non è un fenomeno recente: rimando alle ricerche dei sociologi di Chicago degli anni ’20-’30 in cui i trafficanti sono per antonomasia gli italiani.
Da sempre gli uomini poveri, ma ricchi della proprietà delle «loro» donne e dei loro figli, ne hanno fatto mercato, offrendoli ad uomini più ricchi che, per ragioni culturali, non potevano disporre allo stesso modo delle loro donne e dei loro figli.
Dunque, oggi i modelli patriarcali di possesso familiare, e le culture della parità e della tutela del miglior interesse del bambino, si incontrano nelle metropoli globalizzate, che si estendono anche alle periferie delle piccole e medie città italiane. Lo scambio tra sesso e denaro avviene con la mediazione di multinazionali del crimine, in cui prevale chi, volta a volta, rappresenta il gruppo dei venditori. Al di sotto dello scambio c’è anche la doppia ricerca del rafforzamento di un potere maschile a rischio: nell’emigrazione le «loro» donne si emancipano, ed i «nostri uomini» partecipano con noi del rifiuto esplicito di modelli di virilità che, purtuttavia, continuano segretamente a desiderare.
Eppure, come madri anche «noi» sopportiamo ancora piuttosto bene le «trasgressioni» dei nostri figli: c’è un punto di giunzione tra i giovani clienti dei «puttan tour» ed i giovanissimi della violenza ripresa con i cellulari.
In particolare, la trasposizione dei giochi erotici tra adolescenti in violenza di gruppo non è un fenomeno della modernità. È probabile che il cellulare mostri agli adulti di oggi ciò che gli adulti di ieri non potevano o non volevano vedere, come è probabile che l’autonomia delle giovanissime sia esposta a forme di violenza ieri sconosciute, tuttavia ben note alle loro madri che, nelle inchieste, ammettono solo per telefono i costi della loro ricerca di felicità familiare e amorosa. Nell’ambito delle violenze tra giovanissimi, è emersa di recente l’omofobia: anche qui i modelli di genere contano moltissimo e, di nuovo, siamo di fronte ad un’emersione di vecchie storie.
Tuttavia la violenza più diffusa, per le donne come per i bambini, è quella domestica e sessuale, che si colloca nella famiglia e nelle relazioni primarie, che proviene da padri, mariti, compagni, genitori acquisiti, parenti, amici e vicini: è la violenza dell’intimità e non dell’estraneità, è la violenza di chi pensi nell’amore e non quella di chi credi un nemico. Per questo è importante dare all’insieme delle più diverse fenomenologie un nome che le identifichi alla radice. Non è giusto chiamarla «violenza maschile»: anche se i violenti sono per il 90% uomini, non si tratta di propensioni naturali, genetiche e neppure di responsabilità collettive.
Il suo nome è violenza di genere e sessuale. Si tratti di donne, di bambini, di omosessuali, le forme della violenza vengono agite sulle vittime all’interno delle più ovvie e spesso accettate costruzioni della mascolinità, e, poiché in esse è in gioco la vulnerabilità più intima delle persone, trattate in ogni caso... come donne, sembra giusto affrontarle assieme sul piano politico, e cercare, sul piano scientifico, di studiarne accuratamente le differenti fattispecie, per dipanare meglio le relazioni tra gli umani e gli intrecci tra vecchi e nuovi modelli.
Dunque la giornata del 25 novembre era dedicata alla violenza di genere e sessuale. Tuttavia poiché le vittime sono per la grandissima maggioranza donne e bambine, è giusto parlare di «femminicidio», riconoscendo che le donne vengono battute, violate, uccise soprattutto in quanto donne, in relazione alla loro diversità sessuale. Se possiamo capire, rispetto all’Olocausto, la differenza tra l’essere perseguitati ed uccisi in quanto ebrei oppure come una qualsiasi persona in una «banale» rissa o resa dei conti, possiamo anche accettare il termine «femminicidio», forse sconosciuto al vocabolario ma purtroppo ancora attuale, dove sono negati la libertà e l’orgoglio della differenza, dove la differenza è pensata come «natura» da ridurre sotto un dominio o cancellare, lì inizia l’idea del genocidio.

Franca Bimbi     l’Unità 27.11.07