L'ideologia senza ideali.
L'intervento del sociologo al Festival di Filosofia a Modena
C'è chi crede che cercare una
società giusta sia una perdita di tempo
Cosa significa l'invito di
Sarkozy a "guadagnare e lavorare di più"
Questo pensiero proclama che è
inutile, anzi dannoso, unire le forze per una causa comune
Così si prende di mira la
solidarietà sociale e si deride il principio della responsabilità collettiva
Lo scorso giugno, poco dopo la sua elezione a
Presidente della Francia, Nicolas Sarkozy ha dichiarato in un´intervista
televisiva: «non sono un teorico, non sono un ideologo, non sono certo un
intellettuale: io sono uno concreto». Cosa voleva dire con queste parole? Con
ogni probabilità voleva dire che crede fermamente in talune convinzioni mentre
con altrettanta fermezza ne respinge risolutamente altre.
Dopo tutto ha affermato pubblicamente di essere
un uomo che crede «nel fare, non nel pensare» e ha condotto la sua campagna
presidenziale invitando i francesi a «lavorare di più e guadagnare di più». Ha
detto più volte agli elettori che lavorare più duramente e più a lungo per
diventare ricchi è cosa buona. (Si tratta di un invito che i francesi sembrano
aver trovato attraente, anche se non l´hanno affatto ritenuto unanimemente
sensato dal punto di vista pratico: secondo un sondaggio TBS-Sofres il 39% dei
francesi ritiene che sia possibile diventare ricchi vincendo la lotteria, contro
il 40% che ritiene che si diventi ricchi grazie al lavoro). Dichiarazioni come
queste, se sono sincere, rispettano tutte le condizioni della credenza ed
espletano la funzione principale che ci si attende dalle credenze: dicono cosa
si deve fare e suscitano fiducia che, così facendo, si otterranno risultati
positivi. Manifestano inoltre l´atteggiamento agonistico e partigiano
normalmente connesso con una «ideologia».
Alla filosofia di vita di Nicolas Sarkozy manca
solo una delle caratteristiche delle «ideologie che abbiamo conosciuto finora»,
ossia una qualche concezione di una «totalità sociale» che, come suggerito da
Emile Durkheim, sia «maggiore della somma delle sue parti», vale a dire diversa,
per esempio, da un sacco di patate e quindi non riducibile al cumulo dei singoli
elementi in essa contenuti. La totalità sociale non può venire ridotta a un
aggregato di individui ciascuno dei quali persegua le sue finalità private e sia
guidato dai suoi desideri e dalle sue regole private.
Le reiterate affermazioni pubbliche del
Presidente francese suggeriscono invece proprio una riduzione di questo tipo.
Non sembra che le previsioni sulla «fine delle
ideologie», comuni e largamente accettate venti-trent´anni fa, si siano avverate
o stiano per farlo. Le apparentemente paradossali affermazioni che ho citato
indicano invece la sorprendente svolta compiuta oggi dal concetto di
«ideologia». In contrapposizione a una lunga tradizione, l´ideologia che viene
attualmente predicata dai vertici perché sia fatta propria dal popolo coincide
con l´opinione che pensare alla «totalità» ed elaborare concezioni della società
giusta sia una perdita di tempo, in quanto irrilevante per i destini individuali
e per il successo nella vita. La nuova ideologia non è un´ideologia
privatizzata, e del resto tale nozione sarebbe un ossimoro, perché l´erogazione
di sicurezza e di fiducia in se stessi che costituisce il principale impegno
delle ideologie e la condizione primaria del loro carattere seduttivo sarebbero
irrealizzabili senza un´adesione pubblica e di massa. Essa invece è un´ideologia
della privatizzazione. L´invito a «lavorare di più e guadagnare di più», invito
rivolto agli individui e adatto solo a usi individuali, scalza quelli del
passato a «pensare alla società» (o alla comunità, alla nazione, alla chiesa,
alla causa). Sarkozy non è il primo che cerca di avviare o di far accelerare
tale trasformazione: la precedenza spetta a Margaret Thatcher e al suo
memorabile annuncio secondo cui «non esiste qualcosa che si possa chiamare
«società»: esistono solo il governo e le famiglie».
Si tratta di una nuova ideologia per la nuova
società individualizzata, a proposito della quale Ulrich Beck ha scritto che
uomini e donne, in quanto individui, dovranno adesso trovare soluzioni
individuali a problemi creati dalla società e implementare individualmente tali
soluzioni con l´aiuto di capacità e risorse individuali. Questa ideologia
proclama che è inutile, anzi controproducente, unire le forze e subordinare le
azioni individuali a una «causa comune». Essa prende di mira la solidarietà
sociale; deride il principio della responsabilità comune per il benessere dei
membri della società considerandolo fondamento dello «Stato assistenziale»;
ammonisce che prendersi cura degli altri è la ricetta per creare l´aborrita
«dipendenza».
Si tratta anche di un´ideologia fatta a misura
della nuova società di consumatori. Essa rappresenta il mondo come un deposito
di oggetti di potenziale consumo, la vita individuale come una perpetua ricerca
di transazioni aventi per scopo la massima soddisfazione del consumatore e il
successo come un incremento del valore di mercato degli individui. Largamente
accettata e saldamente accolta, essa liquida le sue antagoniste con un secco
«non esistono alternative». Avendo così ridimensionato i suoi avversari, essa
diviene, per usare la memorabile espressione di Pierre Bourdieu, veramente
pensée unique. Almeno nella parte ricca del pianeta la posta in gioco in questa
spietata concorrenza tra individui non è la sopravvivenza fisica, e nemmeno la
soddisfazione dei bisogni biologici primari necessari alla sopravvivenza; né il
diritto di affermare se stessi, di darsi i propri obiettivi e di decidere che
tipo di vita si vorrebbe vivere.
Esercitare tali diritti viene ritenuto,
viceversa, un dovere di ogni individuo.
Si parte inoltre dal presupposto che tutto ciò
che accade agli individui sia conseguenza dell´esercizio di questi diritti
oppure di gravissimi errori in tale esercizio, fino al suo blasfemo rifiuto.
Così tutto ciò che accade agli individui viene comunque definito
retrospettivamente come dovuto alla responsabilità dei singoli. Ciò che è ora
pienamente e veramente in gioco è il «riconoscimento sociale» di quelle che
vengono viste come scelte individuali, ovvero della forma di vita che gli
individui praticano (per scelta o per forza). «Riconoscimento sociale» significa
accettazione del fatto che l´individuo che pratica una certa forma di vita
conduce un´esistenza degna e decente, e per questo motivo merita il rispetto
dovuto e prestato agli altri individui degni e decenti.
L´alternativa al riconoscimento sociale è la
negazione di dignità, cioè l´umiliazione, e questo sentimento nutre
risentimento. E corretto affermare che in una società di individui come la
nostra questa sia la più velenosa e implacabile forma di risentimento che i
singoli possono provare, nonché la più comune e prolifica causa di conflitto, di
ribellione e di sete di vendetta. Negazione del riconoscimento, rifiuto di
prestare rispetto e minaccia di esclusione hanno rimpiazzato sfruttamento e
discriminazione, divenendo le formule più comunemente usate per spiegare e
giustificare lo scontento che gli individui provano nei confronti della società
o di quei settori e aspetti della società cui essi sono direttamente esposti
(personalmente o attraverso i media) e di cui fanno esperienza di prima mano.
Ciò non vuol dire che l´umiliazione sia un fenomeno nuovo, specifico
dell´attuale forma della società moderna, perché al contrario essa è antica
quanto la socialità e la convivenza tra gli uomini. Vuol dire però che nella
società individualizzata di consumatori le più comuni ed «eloquenti» definizioni
e spiegazioni delle afflizioni e dei disagi che derivano dall´umiliazione hanno
rapidamente spostato, o stanno spostando, il proprio riferimento dal gruppo e
dalla categoria alle singole persone. Invece che essere attribuite
all´ingiustizia o al cattivo funzionamento dell´organismo sociale, cercando
dunque rimedio in una riforma della società, le sofferenze individuali tendono a
essere sempre più percepite come risultato di un´offesa personale, di un attacco
alla dignità personale e alla stima di sé, invocando dunque una reazione
personale o una vendetta personale. Questa ideologia, come tutte le ideologie a
noi note, divide l´umanità. Ma in più essa genera divisione anche tra chi le
presta fede, dando capacità a qualcuno e rendendo tutti gli altri incapaci. In
questo modo essa inasprisce il carattere conflittuale della società
individualizzata/privatizzata.
Depotenziando le energie e neutralizzando le
forze che potenzialmente sarebbero in grado di intaccarne il fondamento, questa
ideologia conserva tale società e rende più fievoli le prospettive di un suo
rinnovamento.
Zygmunt Bauman - La Repubblica17/09/2007