SE IL MESSALE È UNA BANDIERA
Molto atteso dai pochissimi cattolici “tradizionalisti” e
molto temuto dai vescovi e dalle chiese locali, è stato promulgato, dopo molte
dilazioni indicatrici di incertezze, il "motu proprio" Summorum Pontificum che
"liberalizza" il rito della messa vigente prima della riforma liturgica.
Preconizzato da più di un anno, ha destato grandi preoccupazioni e ha acceso un
dibattito di grande qualità.
Conferenze episcopali, singoli vescovi, teologi e liturgisti hanno analizzato
con spirito di pace e volontà di riconciliazione con i tradizionalisti
scismatici i problemi e le derive che potrebbero inoculare contrapposizioni e
ulteriori divisioni tra i cattolici. Sì, perché in questi 40 anni del
post-concilio, le chiese hanno percorso un lungo cammino, spesso faticoso,
nell'attuazione della riforma liturgica, hanno registrato anche qua e là abusi e
contraddizioni allo spirito dell'autentica liturgia cattolica ma, come ha
affermato Giovanni Paolo II nel 1988, “questo lavoro è stato fatto sotto la
guida del principio conciliare: fedeltà alla tradizione e apertura al legittimo
progresso; perciò si può dire che la riforma liturgica è strettamente
tradizionale, "secondo i santi padri"” (XXV annus n. 4). Di conseguenza, nel
chiarire le possibilità offerte ai tradizionalisti Giovanni Paolo Il precisava
che “la concessione dell'indulto non è per cercare di mettere un freno
all'applicazione della riforma intrapresa dopo il concilio (Udienza generale del
28.9.90).
Noi cattolici, ma per la convinzione profonda che il vescovo di Roma è il servo
della comunione ecclesiale, obbediamo anche a prezzo di fatica, di sofferenza e
di non piena comprensione di ciò che ci vien chiesto autorevolmente e che non
contraddice il vangelo: siamo anche capaci di obbedienza pur dissentendo
lealmente e con pieno rispetto. Questa obbedienza che vuole essere evangelica e
"in ecclesia", richiede che ci esercitiamo a pensare e riflettere per capire
maggiormente e per animare la comunicazione in vista di una comunione matura e
salda, per fare di tutto affinché la chiesa non soffra di disordine e di
ulteriori contrapposizioni: chi ha un vero sensus ecclesiae questo soprattutto
teme!
Dunque questo "motu proprio" deve essere accolto come un atto di Benedetto XVI
teso a metter fine allo scisma aperto dai lefebvriani e alla "sofferenza" di
altri pur restati in comunione con Roma. Il papa è consapevole che più passano
gli anni, più le posizioni si induriscono, più ci si abitua allo scisma e si
affievolisce il desiderio di una reciproca riconciliazione tra chiesa e
scismatici. Per questo il papa autorizza con liberalità la celebrazione della
messa conformemente al messale detto di Pio V. Si esce così dall'indulto
concesso da Giovanni Paolo II, perché allora si dava la possibilità di celebrare
la messa detta di Pio V se il vescovo lo permetteva, mentre ora vi è la
possibilità di celebrarla e il vescovo non può proibirla. Non è più dunque
"eccezionale" ma "straordinaria", non è più una deroga alle regole ma permessa
dalle regole.
Ma per chi è stata promulgata questa nuova legislazione? La risposta non è
semplice perché quanti chiedono la possibilità di praticare il messale di Pio V
sono una galassia numericamente ridotta ma molto variegata. In tutto il mondo
questi cattolici con sensibilità tridentina sono circa 300.000 con circa 450
preti, sul totale di un miliardo e 200 milioni di cattolici, e di essi circa la
metà appartiene alla porzione scismatica dei seguaci di mons. Lefebvre. Nel "motu
proprio" si pensa certo a questi ultimi - per quali, afferma la lettera, "la
fedeltà al messale antico divenne un contrassegno esterno" - ma c'è attenzione
soprattutto ai tradizionalisti in comunione con Roma, quelli legati al rito
diventato per loro familiare fin dall'infanzia.
Accanto a questi cattolici, scismatici o no, all'orizzonte affiorano anche
giovani preti che vorrebbero ritornare all'antico rito e alcuni movimenti
ecclesiali che auspicano una ripresa di un'i-dentità fondamentalista cattolica;
vi è poi un'appariscente deriva di confraternite e ordini cavallereschi vari che
attendono di poter celebrare in latino per rinvigorire il loro folklore e ridare
lustro alle loro livree medievali.
Ma qui sorge una serie di domande che esigono una risposta evangelica e una
responsabilità conforme al sensus ecclesiae da parte di tutti: vescovi,
presbiteri, fedeli cattolici. Non è che questi gruppi si nascondano dietro i
veli della ritualità post-tridentina per non accogliere altre realtà assunte
oggi dalla chiesa, soprattutto attraverso il concilio? II messale di Pio V non
rischia di essere il portavoce di rivendicazioni di una situazione ecclesiale e
sociale che oggi non esiste più? La messa di Pio V non è per molti una messa
identitaria, preferenziale e dunque preferita rispetto a quella celebrata dagli
altri fratelli, come se la liturgia di Paolo VI fosse mancante di elementi
essenziali alla fede? C'è oggi troppa ricerca di segni identitari, troppo gusto
per le cose "all'antica", soprattutto in certi intellettuali che si dicono non
cattolici e non credenti e misconoscono il mistero liturgico. E ancora, perché
alcuni giovani che non sono nati nell'epoca post-tridentina e non hanno mai
praticato come loro messa "nativa" quella pre-conciliare, vogliono un messale
sconosciuto? Cercano forse un messale lontano dal cuore ma praticato dalle
labbra? E se la celebrazione della messa risponde alle sensibilità, ai gusti
personali, allora nella chiesa non regna più l'ordo oggettivo, ma ci si
abbandona a scelte soggettive dettate da emozioni del momento. Non c'è forse il
rischio, in questo soggettivismo, di incoraggiare ciò che Benedetto XVI denuncia
come obbedienza alla "dittatura del relativismo"?
E perché coloro che chiedono il rito di Pio V si sentono i "salvatori della
chiesa romana"? Salvatori rispetto a cosa? A un concilio ecumenico presieduto
dal vescovo di Roma? Perché assicurano: “Vinceremo... tutta la chiesa tornerà
all'antica liturgia!”? Questo non è un cammino di riconciliazione e di
comunione, ma di rivincita, di condanna dell'altro, di rifiuto di riconoscere le
colpe rispettive... Sì, c'è il timore che si risvegli nella chiesa una serie di
rapporti di forza in cui c'è chi perde e chi guadagna. Ma questo risponde più a
un'ottica mondana che a un'ottica evangelica!
Ogni cattolico - anche chi come me può testimoniare con gioia per averlo a lungo
praticato che il messale di Pio V lo ha fatto crescere nella fede,
nell'intel-ligenza eucaristica e nella vita spirituale e lo sente come un
monumento liturgico, un'architettura rituale capace di far vivere la comunione
diacronica di tutta la chiesa - deve interrogarsi per non lasciare spazio a
forme di idolatria e, con il cardinale Ratzinger, “ammettere che la celebrazione
dell'antica liturgia si era troppo smarrita nello spazio dell'in-dividualismo e
del privato e che la comunione tra presbiteri e fedeli era insufficiente”. Sì,
nessun idealismo né sul messale né sulla sua pratica e non sia un messale a far
guerra all'altro messale, perché così si sfascia la chiesa.
Mons. Fellay (il successore di Lefebvre alla guida della Fraternità San Pio X)
ha dichiarato che “la liberalizzazione del messale di Pio V provocherà una
guerra nella chiesa con una deflagrazione pari a quella della bomba atomica”.
Sono parole gravi, ma che ci fanno restare vigilanti! Benedetto XVI scrive nella
lettera che d'ora innanzi non ci sono due riti ma "un uso duplice dell'unico e
medesimo rito" e tuttavia non si possono tacere le differenze: tra un "uso" e
l'altro ci saranno letture bibliche sempre diverse, si vivranno i tempi
liturgici in modo diverso, con feste del Signore e dei santi in date diverse;
con il messale di Pio V si sarà autorizzati a pregare in modo non conforme
all'inse-gnamento ecumenico del Vaticano II, così si pregherà per “eretici e
scismatici perché il Signore li strappi da tutti i loro errori”, mentre per gli
ebrei si userà l'espres-sione “popolo accecato”. Cosa significherà questo nei
rapporti ecumenici con le chiese e con gli ebrei?
Sì, verificheremo cosa accadrà nella chiesa e come crescerà o sarà contraddetta
la comunione. Sarà determinante l'azione dei vescovi, ai quali "spetta
salvaguardare l'unità concorde, vissuta nelle celebrazioni della diocesi" (Sacr.
Car. 39). La stragrande maggioranza dei vescovi e intere conferenze episcopali
nazionali e regionali, anche italiane, hanno manifestato la loro opposizione a
questo provvedimento, ma ora nel-l'obbedienza e per amore della chiesa dovranno
discernere come compaginare la comunione che è sempre innanzitutto comunione
liturgica. I vescovi non smettano di chiedere a quanti vogliono praticare la
messa di Pio V un'accettazione del concilio e della sua riforma liturgica come
legittima e conforme alla verità e alla tradizione cattolica: le espressioni
possono essere diverse, ma uno è il vescovo e il presbiterio attorno a lui.
L'unità non può essere realizzata a qualsiasi prezzo, né a prescindere
dall'autorità del vescovo in comunione con il papa. II viaggio della barca della
chiesa non è ancora giunto al suo termine e nessun porto può diventare una meta,
ma solo un luogo di sosta e di transito: anche il messale di Pio V, anche quello
di Paolo VI... C'è ancora un altro domani anche per la forma della liturgia.
Enzo Bianchi , priore Comunità di Bose la Repubblica, 8 luglio 2007