INNATA È LA LIBERTÀ
Le gerarchie vaticane e una
corte politica alla ricerca di carrierismo benedetto cercano di riproporre con
sempre maggiore insistenza l’identità tra Legge Cattolica e Legge Statale. E per
giustificare questa operazione di potere, che ha prodotto ad esempio la legge
sulla fecondazione assistita o fatto fallire il progetto sui diritti dei
conviventi (DiCo), si rifanno ad antropologie teologiche per le quali ci sarebbe
un supposto ordine divino nel mondo che fisserebbe in natura il modello eterno
di uomo, di donna, di famiglia... di società. È sulla base di tale congettura,
elaborata ed assolutizzata dai chierici, che mere prescrizioni catechistiche su
individuo, famiglia, società si pretende siano vincolanti per tutti.
Ma individui, famiglie, società non rappresentano l’estrinsecarsi di un progetto
già dato una volta per tutte. Sono, al contrario, prodotto storico di complesse
interrelazioni causali, che si connotano, strutturano e cambiano nel tempo,
producendo valori individuali e sociali. Quindi, non ci sono valori e leggi
eterne. Ma valori e leggi storiche. La cui relatività non è affatto una
debolezza. Visto che si possono rimettere in discussione, se alla verifica
empirica risultano negative. Relativismo e secolarizzazione, non sono il
“demoniaco” da cui fuggire, ma la constatazione che proprio dalla liberazione
degli assoluti si produce libertà individuale e collettiva. Se questa
prospettiva di disincanto non fosse stata costantemente repressa dai detentori
del sacro e dai loro strumentali alleati, certamente essa avrebbe impedito tante
stragi e stermini contro eretici, ebrei, donne accusate di stregoneria. Tutti i
“diversi”, insomma, che in qualche modo si dissociavano più o meno
consapevolmente dalle prescrizioni dogmatiche su cui si edificava la “cittadella
cristiana”, col suo totalitario modello identitario che si esportava in ogni
parte del globo. Era l’aberrante logica che giustificava il colonialismo con
l’ideologia di crociata. Era la logica che all’epoca della conquista del “Nuovo
Mondo” riconosceva come giusti massacri e schiavitù con le parole del teologo
scolastico J. G. de Sepulveda, che degli indigeni scriveva: “non sono uomini, ma
omuncoli... orsi o scimmie del tutto prive di ragione”.
Del resto, che il solo essere umano razionale fosse il cristiano è presunzione
che, seminata fin dalle origini del cristianesimo, è servita a proclamare la
superiorità del cattolicesimo romano. Nel IV secolo il blocco credente=sapiente
era ormai definito, tanto che l’imperatore Teodosio, col suo editto del 380,
aveva fatto dello Stato il braccio armato per la persecuzione legale dei non
cattolici. Definiti in massa “stolti eretici”. Ed è interessante rilevare come
s. Agostino, nel suo De utilitate
credendi, nel 391 puntualizzasse: “non definisco sapienti gli uomini
assennati e pieni d’ingegno, ma quelli che hanno, per quanto l’uomo possa
averla, una conoscenza indubitabilmente chiara dell’uomo e di Dio, e una vita e
dei costumi ad essa corrispondenti: tutti gli altri, qualunque siano le loro
capacità e qualunque modo di vivere abbiano, positivo o negativo, li includo tra
gli stolti ...(XI, 25)”.
Sull’identità tra fede e ragione si sarebbe giocato nei secoli tutto il ruolo
dell’apparato teologico ecclesiastico per determinare pensiero unico ed univoca
morale. L’aveva ben capito Tommaso D’Aquino, quando proprio sulla coincidenza di
fede e ragione costruiva la blindata interconnessione Dio‑Natura‑Stato. Quella
che ancora oggi i papi vorrebbero riaffermare con forza, preoccupati dal
processo di laicizzazione della società democratica, aperta al pluralismo e al
rispetto reciproco nella tutela delle libertà di ciascuno. Per questo Giovanni
Paolo II riproponeva con la sua enciclica
Fides et Ratio l’ideologia
tomista. E Benedetto XVI con le sue reiterazioni per “riscoprire la razionalità
umana aperta alla luce del Logos divino”, chiede di fatto allo Stato di
trasformarsi nel tutore dei precetti ecclesiastici. Così, ancora una volta, la
razionalità, inglobata nella fede, diventa lo specchio del
Logos divino. Il grande lago in
cui il Narciso Cristiano affoga la capacità di autonomia conoscitiva ed etica,
inibendo il pensiero analitico ‑ critico. Quel demone socratico del dubbio, che
porta a ridiscutere norme e consuetudini contrapponendovi l’autonoma e
responsabile libertà di pensare ed agire.
Una libertà che riemerge sempre nonostante le spinte repressive. Nonostante le
cappe inglobanti delle alleanze trono-altare.
Ma forse, a pensarci bene, è proprio la libertà ad essere naturale. Ed allora,
il principio statuale di fondo su cui si può costruire il nesso tra natura umana
e morale condivisa è proprio quello della reciprocità della libertà. Dove la
realizzazione della libertà di ciascuno non può trasformarsi in danno per gli
altri.
Immanuel Kant, nella “Metafisica dei costumi”, scriveva: “Il diritto innato è
uno solo: la libertà (indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui), in quanto
essa può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale, è
quest’ unico diritto originario spettante ad ogni uomo in forza della sua
umanità”. È dunque il principio della libertà il minimo denominatore comune per
creare una società dove anche la libertà di credere non divenga pretesa del
precetto religioso di alcuni di assurgere a legge per tutti. I prescrittori del
sacro probabilmente non condividono. Ma, se un domani fosse un’altra fede a
prevalere, se questa pretendesse di essere l’unica ed eterna, sarebbero disposti
ad obbedirvi?
Se la loro risposta è negativa, riflettano sul questo laico consiglio kantiano:
“Non possiamo essere costretti da altri a nulla più di ciò a cui possiamo
reciprocamente costringerli”.
Maria
Mantello*
Adista Notizie n.49 2007
* docente di Storia
e Filosofia, presidente della sezione romana dell’associazione nazionale del
libero pensiero “Giordano Bruno”