4 novembre
Sono nato nella primavera del 1945, poche settimane prima della Liberazione,
sempre celebrata in
famiglia come la vittoria, pur con diverso peso, delle forze di resistenza
nazionale e delle truppe
alleate contro la violenza fascista e nazista. Sono stato educato al rifiuto
radicale, ma non assoluto,
della forza militare: la recente esperienza della guerra mondiale era
considerata come la tragica
inevitabile possibilità di sconfiggere il nazismo. Sono stato educato alla pace
come valore da
perseguire con ogni mezzo, soprattutto attraverso la cooperazione e le intese
internazionali,
bilaterali, europee e mondiali, senza che questo impedisse di considerare il mio
paese come patria,
casa comune da avere cara e da difendere, anche se la parola patria non trovava
spazio nel
linguaggio di famiglia perché rimandava al conclamato concetto fascista di
superiorità nazionalista
da imporre con le armi. Non mi è mai stato concesso di giocare con armi
giocattolo, né con soldatini
perché l’idea della guerra non doveva in nessun modo essere accostata a quella
del gioco o
comunque di esperienze piacevoli per un bambino.
Ogni anno però venivo accompagnato alla parata militare del 2 giugno, allora
organizzata anche a
Milano in corso Sempione; il 4 novembre, festa delle forze armate, da applaudire
nel ruolo
costituzionale di presidio della democrazia e della libertà, visitavo le
caserme, come allora era
possibile; a ogni festa nazionale, fino a quando è stata un’usanza praticata,
sul balcone di casa si
esponeva la bandiera. Quando ho cominciato a studiare e a farmi idee mie, ho
condiviso,
rinforzando il pacifismo antimilitarista con l’esortazione evangelica alla pace,
alla fratellanza,
all’accoglienza e alla giustificazione reciproca. Ho intanto capito che cosa le
singole date
significano e a che cosa rimandano nell’immaginario collettivo: da insegnante di
storia mi sono
progressivamente accorto di come tutte, via via, scoloriscano per i giovani e
poi anche per i meno
giovani. Così, per esempio, è stato con l’11 febbraio –la cosiddetta
conciliazione fra la santa Sede e
lo Stato italiano-, celebrata ricorrenza negli anni della mia scuola elementare
e progressivamente
abbandonata, senza altro rimpianto che la vacanza perduta. Così forse è sempre
stato per i grandi
accadimenti che hanno fondato le nazioni e, appunto, tocca all’insegnamento
della storia far
conoscere il passato e rammentare i debiti alle nuove generazioni.
Il 4 novembre celebra la vittoria dell’Italia, alleata con Francia, Inghilterra,
Stati Uniti e molti altri
paesi minori, nella grande guerra contro gli imperi centrali di Austria e
Germania, a loro volta con
molti alleati. Vuoi per quello che la guerra è costata; vuoi per le infinite
esperienze di cameratismo,
di solidarietà, di sofferenze condivise che gli anni di guerra hanno conosciuto;
vuoi per l’esaltazione
che ne è stata fatta negli anni del fascismo, la guerra, la grande guerra, è
stata mitizzata nella
fantasia popolare come evento epico e glorioso, reso sacro dal sangue dei
caduti, cantato da canzoni
di diffusa popolarità. Seicentomila morti, oltre ai feriti, che per tutta la
vita ne hanno subito le
conseguenze - non c’è paese che non ne sia stato toccato, come attestano i
monumenti ai caduti
presenti ovunque -, meritano di non essere scordati: è fuori dubbio che la
grande maggioranza di
quei giovani ha combattuto con la generosa convinzione di rispondere alla
chiamata della patria, pur
riconoscendo che il mito della vittoria italiana era molto funzionale alla
propaganda bellicistica
fascista. Tramontati gli anni della mitizzazione, è doveroso ripensare a quegli
avvenimenti con
consapevolezza storica per considerare la grande guerra come conseguenza della
politica dei
decenni precedenti, alla quale il giovane regno d’Italia era estraneo per
debolezza più che per
convinzione ed è stata voluta da un sovrano ambizioso e combattuta con gravi
errori tattici e
strategici. La vittoria, peraltro polemicamente definita “mutilata”, ha
attribuito all’Italia territori
sicuramente italiani, ma che verosimilmente potevano essere annessi con costi
assai più lievi e nel
complesso ha ridisegnato i confini europei non proprio nel dichiarato rispetto
delle nazionalità:
errori che, attraversati dalla lucidità hitleriana, hanno condotto nel corso di
soli vent’anni alla più
grave conflagrazione della storia. E non si può ignorare che la letteratura per
un verso e il cinema
per un altro hanno ampiamente contribuito alla smitizzazione e alla denuncia fin
dagli anni
immediatamente successivi. Naturalmente tutto questo non vanifica il valore del
sacrificio di chi ha
combattuto, né riduce la doverosa riconoscenza della nazione per chi comunque è
stato esempio di
coraggio e di abnegazione. Personalmente, continuo a commuovermi nei grandi
ossari presenti nelle
nostre Alpi, come alle cerimonie sull’altare della patria. Il
riconoscimento delle responsabilità
politiche, morali, militari di chi quella guerra ha voluto, anche con “idiozia,
fanatismo, tradimento”,
come scrive Liberazione, nulla nega al ricordo dei morti, alla riconoscenza,
all’affetto che il paese
gli deve, ma alla celebrazione apologetica certamente sì.
Purtroppo in questo infelice momento di
lacerazione per il nostro paese ogni ricorrenza diventa occasione di
contrapposizioni: sarebbe però
stato degno di una nazione moderna che non rigetta le memorie, ma attraverso la
storia vuol farsi
migliore, che la sepoltura, proprio qualche giorno fa, dell’ultimo
ultracentenario superstite di quei
giovani combattenti togliesse per sempre la dimensione della festa a questa
celebrazione. Non mi fa
una bella impressione che ne venga rinverdita trionfalisticamente la memoria da
forze politiche i cui
valori dichiarati non sono certo un ordine internazionale di collaborazione, il
rispetto della vita, la
reciproca tolleranza: mentre proprio questi sono i valori testimoniati
dall’immenso sacrificio di
quell’“inutile strage”.
Ugo Basso in “Notam” n.
317 (Lettera agli Amici del Gruppo del Gallo di Milano) del 3 novembre 2008