CARTELLA 3

16-09-2009

CHIARA PONZO

 

Non avevo alcuna intenzione di chiedere l’aiuto dei miei genitori, avevo scelto di vivere pienamente la mia libertà e di farmi carico di tutte le responsabilità, così decisi di chiamare Lorenzo: speravo mi desse in prestito del denaro per provvedere alla piccola durante le settimane successive al parto. L’amore di mamma vinse sul mio orgoglio, perciò presi il telefono e lo chiamai. Non mi parve felice di sentire la mia voce, ne il pianto della bimba, mi disse che era impegnato e che mi avrebbe richiamata il prima possibile; quella chiamata non arrivò mai. Con il dolore nel cuore pensai che, passate le festività, avrei dovuto contattare l’assistente sociale e trovare una buona sistemazione alla mia Caterina.

Io ero cresciuta nella bambagia, coccolata e riempita d’attenzioni e cosa stavo offrendo a mia figlia? Perché farle pagare il prezzo dei miei errori e della mia immaturità? Era talmente bella che, certamente, qualcuno l’avrebbe subito presa con sé donandole ciò che la sua vera madre non era capace di darle.

Prima che gli addobbi delle strade si spegnessero mi incamminai per la città, con lei in braccio, avvolta nella copertina di lana che le avevo comprato, ed entrai in un lussuoso negozio per comprarle un abito nuovo. Sembrava una principessa, con quegli occhioni blu ed il sorriso più luminoso che avessi mai visto. Nel tragitto di ritorno un’anziana signora mi fermò per complimentarsi, diceva che avevamo gli stessi lineamenti, lo stesso sguardo, lo stesso sorriso; io feci un cenno con il capo per ringraziarla, ma quelle parole risuonavano dentro me, accusatorie.

Il giorno seguente mi recai allo studio dell’assistente sociale. In sala d’aspetto vidi tante mamme disperate, molte delle quali erano alla ricerca di un posto di lavoro che permettesse loro di mantenere i figli; tutte sembravano non volersi arrendere all’affidamento, alla soluzione che io vedevo come l’unica possibile. Una di loro urlava e piangeva implorando che le venisse data la possibilità di continuare a stare con i suoi bambini, determinata com’era a tenere la sua famiglia unita, a dare alle sue creature tutto il suo amore. Anche stavolta mi sentii a disagio, i miei intenti e le mie emozioni erano ancora una volta diverse da quelle altrui, sbagliate. 

Non riuscii a sostenere una prova così dura, così tornai a casa, prendendo ancora un po’ di tempo per me e Caterina, consapevole che più trascorreva il tempo e più sarebbe stato doloroso il distacco. La sua manina mi accarezzava il viso, quasi fosse lei la madre, quasi avesse capito che anch’io avevo bisogno di un po’ di amore, ed i miei occhi si riempivano di lacrime tutte le volte che la vedevo così vulnerabile e dipendente da me.

Dovevo tornare dall’assistente sociale, lo dovevo a lei. Di nuovo mi presentai allo studio, questa volta ebbi il coraggio di entrare e raccontare la mia storia, quella di una bambina viziata che, giocando a fare la grande, si era cacciata in un mare di guai. Non so se la vergogna maggiore fosse per il mio trascorso o per la decisione che avevo preso.