IL NATALE NELLA TRADIZIONE POPOLARE
A Roma, il 25 dicembre del 274 d. C., qualche giorno dopo il solstizio invernale, quando il "nuovo sole" sale percettibilmente all’orizzonte e ricomincia il suo lungo ciclo annuale, l’imperatore Aureliano stabilisce la festa del "Natale del sole Invitto" (sol Invictus, divinità solare di Emesa) che si festeggia in modo solenne per diversi giorni con cerimonie, giochi e banchetti. La chiesa romana, preoccupata per la partecipazione attiva dei molti cristiani a quelle feste e per la straordinaria diffusione dei culti solari, nel IV° secolo, durante il papato di Giulio I°, pensò di celebrare nello stesso giorno il Natale del Cristo (Dies Natalis Domini), festa della luce che illumina la Natività. Da allora, da più di duemila anni, la chiesa, il 25 dicembre, celebra la nascita di nostro Signore Gesù Cristo, l’avvenimento più alto e più sentito del mondo cristiano. Il Natale rivela usi e credenze popolari che, pur permeate di spirito cristiano, conservano, talvolta, tracce evidenti delle remote origini pagane. Esse trovano la loro espressione più genuina nell’animo popolare e contadino perché è proprio la società rurale che custodisce meglio e gelosamente le tradizioni. Il Natale, dunque, è quella festa che più di ogni altra tocca il nobile sentimento popolare. Fin dagli ultimi giorni di novembre si entra nel magico clima con un susseguirsi di riti, credenze e tradizioni.
Sant’Andria portau la nova
ca allu sei è de Nicola
allu ottu è de Maria
allu tridici è de Lucia
Allu vinticinque lu veru Messia.
Sui monti imbiancati dalla prima neve, sulle colline avvolte da una fitta nebbiolina, nei villaggi e nelle borgate, si respira un’atmosfera particolare, una calma lieta e gioiosa, una sottile inquietudine che accompagna l’animo semplice dei popolani fino al giorno del lieto evento. Accanto al focolare, nella sua casa di Rogliano, Maria Grande, donna di forte temperamento, dall’alto della sua esperienza, rammenta il Natale di un tempo con toni di struggente nostalgia: " ‘U Natale ‘e ‘na vota" era diverso, c’era molta fame e sofferenza ma c’era più amicizia e tutti si volevano bene. Bastava un nonnulla per essere contenti. " ‘Un se canuscia la ‘mmidia", c’era molta stima e rispetto. "Sti tempi oramai su passati" ma non li cambierei certamente con quelli di oggi. "Alli tempi ‘e oje, ‘un c’è atru ca scustumatizza, malignitudine e ‘mmidia; era megliu ‘na vota; chi sa duve jiamu a finire!". "Ccu la prima ‘e dicembre" si entra nel mese del Natale; il freddo è pungente, le fitte pioggerelline miste a nevischio si fanno più insistenti e nei boschi oramai spogli cala il lungo sonno invernale; la vecchia "lignara" di ritorno dalla campagna, stanca ed infreddolita, con gli occhi rivolti al cielo, ringrazia il Signore per la giornata che or volge al termine. Eppure, malgrado tanta tristezza, questo mese per il popolo è ricolmo di gioia. Con l’inizio della novena "da ‘Mmacuata", si entra nel vero clima natalizio e si dà inizio alla fase di preparazione alla festa. I tempi erano quelli che erano, "se cummattia ppe ‘nu pezzu ‘e pane", la famiglia raccolta davanti al focolare si trovava a fare i conti con la dura realtà e con le tristi condizioni economiche. Ma il Natale come si sa è la "festa granne" e per un padre di famiglia, sarebbe un grosso dispiacere far mancare ai propri figli i vestiti, le scarpe e le "cose fritte"; così, con ulteriori sacrifici, ogni genitore impegna presso i ricchi il suo lavoro, subendo spesso mortificazioni di ogni genere; ma ciò non ha importanza, quello che conta è vedere, almeno una volta l’anno, i propri figli contenti e "falli cumparire alla Missa de menzannotte". Recita un proverbio: "A Pasqua e a Natale sparmanu i villani" (a Pasqua e a Natale i contadini vestono a festa). Dopo la festa dell’Immacolata si stillano le botti e si assaggia il nuovo vino; si dà inizio alla raccolta delle olive per avere un pò di olio buono durante "i jurni festivi" e si macina anche il grano "ppe fare ‘u pane ‘e Natale". "Il pane di rito, detto nataliziu, o massaru (Lago), si pone nella mensa quotidiana come ricordo di dono celeste, dal dì di Natale a quello dell’Epifania; nel quale ultimo il genitore lo benedice, lo spezza e lo distribuisce alla famigliuola per consumarlo. E’ fatto a semplice forma di corona, o torno torno a spicchi, con croce della pasta istesa, rilevatane sulla crosta; la quale certamente vi sostituisce le figure di uomini e di animali, usate dagli antichi nelle placentae sigillatae dei sacrifici". Il tempo passa felice e le giornate timidamente iniziano ad allungarsi: "De Santa Lucia a Natale ‘nu passu de cane; de Natale ‘mpoi ‘nu passu de voi". Tanto attesa dai popolani, inizia la novena "du Santu Bumminu": alle prime luci dell’alba le campane chiamano a raccolta uomini e donne, vecchi e bambini che, insonnoliti, partecipano numerosi alla Messa mattutina. La chiesa, fredda e poco illuminata, in pochi minuti si anima: arrivano i più anziani con le "lumere" accese, i pastori, le massaie, i giovani, i contadini (anche loro prima di andare nei campi ascoltano la Messa). Terminata la funzione religiosa inizia "ccu la grazia du Segnure" una nuova e lunga giornata lavorativa. In questo periodo le donne di casa preparano l’occorrente per i tradizionali dolci natalizi e per il pranzo della vigilia. I più giovani vanno nei boschi a raccogliere muschio, erba, rami secchi e quant’altro serve per preparare il presepe che viene allestito in chiesa. Sono giornate liete, momenti di gioia e sana armonia familiare. Natale è la festa del focolare, dell’unione della famiglia, la festa della rinascita e della speranza. Davanti al focolare "’u zianu" racconta ai più piccoli vecchie leggende, antiche "rumanze" legate al periodo natalizio; si parla anche del più e del meno: dell’annata agricola passata e di quella futura, del bilancio familiare, di meteorologia; si fanno "numinagli", si gioca, si ride, si scherza, si prega; si va avanti per ore e di tanto in tanto il crepitio del fuoco distoglie la mente da quei misteriosi ed affascinanti racconti. Intanto " ‘u capufamiglia ‘ntizza lu focu" e riordina alcuni cereali; la massaia lavora "alli ferri" e rattoppa qualche sacco bucato; la vecchia "nanna" con in mano fuso e conocchia dispensa parole amorose per tutti e con un pizzico di tristezza racconta i bei tempi della sua giovinezza; i più giovani si danno da fare raccogliendo della legna "ppe la focara" del Santo Natale; in un angolo del focolare " ‘un nannu", intento a fare " ‘u solitariu" medita tra sé e sé: "Chissà se il prossimo Natale sarò ancora tra i vivi!" ed una lacrima gli solca il viso stanco e rugoso facendo calare un lieve velo di malinconia. Ma alla malinconia subentrano subito momenti di gioia per l’imminente festività, infatti non si pensa che al Natale e in ogni paesello, in ogni borgata, in ogni casolare, tutto è in movimento ed un’intera comunità si prepara al magico evento. La sera del 23 dicembre si perpetua la vecchia tradizione dei fritti natalizi (turdilli, scalille, crustuli). Tutta la famiglia raccolta davanti al focolare partecipa al magico rituale. Il capofamiglia tiene la padella sul fuoco e facendosi il segno della croce dà inizio "a frijere". La tradizione impone al capofamiglia di buttare nell’olio il primo pezzettino (a forma di croce) della pasta preparata e di assaggiare il primo fritto. In alcune zone della Calabria il primo fritto vine appeso ad un angolo del focolare e tenuto per tutto l’anno fino al Natale seguente, con l’augurio che anche allora si potrà friggere con la stessa allegria. Di "fritti natalizi" se ne fanno in abbondanza per adempiere agli obblighi di buon vicinato ed anche per dispensarli a parenti ed amici colpiti da lutti recenti. Dulcis in fundo, arriva la tanto attesa vigilia, giornata di digiuno in previsione dell’abbondante cena. La mattina della vigilia, di buon ora, le donne sono già al lavoro in cucina intente a preparare " ‘e cannarutie" nel rispetto della tradizione culinaria popolare; il contadino nei campi prepara il ceppo "ppe lu focu da sira Santa", i ragazzi raccolgono l’ultima legna "ppe la focara de Natale" e le giovani donzelle con "cannistri" di dolci in testa portano " ‘a stimenza" a parenti ed amici. "[...] Il medico, il maestro, il compare, il padrone, l’avvocato in quei giorni debbono essere stimati". Il Natale è anche l’occasione per consolidare gli amori e gli affetti con scambio di regali fra le famiglie dei promessi sposi. La sera della vigilia, tutti i componenti della famiglia si ritrovano davanti al focolare dove si consuma il vecchio rituale del ceppo natalizio. "Il ceppo natalizio è situato sul focolare dal padre di famiglia, che in quel momento esercita l’ufficio di sacerdote, come il pater familias dei Romani quando sacrificava ai Lari od ai Penati giacché lo benedice e ne richiama la venerazione dei figli...". Il ceppo si lascia ardere per tutta la notte fino a che non si consuma. Alle ceneri e ai tizzi si attribuisce un potere divino per cui vengono conservati per essere usati come rimedi contro le calamità naturali. "In Scigliano e circostanze al ceppo principale del genitore gli altri membri della famiglia uniscono ognuno il ceppetto proprio, come comunanza di auguri e di vita". "[...] I calabresi spesso compiono mesti questo loro rito natalizio destandosi nell’animo loro in quei momenti il pensiero pauroso che nel ritorno della festa non avesse a mancare alcuno della famiglia, massime quando il genitore sia carico di anni". Nelle case colpite da disgrazia il ceppo non si brucia per un certo periodo di tempo, fino a che non si smetterà il lutto. Il tavolo natalizio preparato con molta cura dalle donne di casa è pronto per ospitare l’abbondante cenone. Prima di sedersi e consumare il gustoso "banchetto" la tradizione vuole che i figli bacino la mano ai genitori e ai nonni; questi con un filo di commozione ringraziano rispondendo "benedittu". Una tradizione nobile e semplice che ancor oggi è presente in molte zone del Savuto. Per la cena della sera della vigilia si preparano nove pietanze " ‘e nove cose" ed è necessario mangiarle tutte o almeno assaggiarle: pasta con alici e molliche di pane, verza cotta, baccalà fritto, baccalà in umido, baccalà in "tiella" con olive nere, frittelle di broccoli e di cavolfiori, insalata di carota e di verza; ed ancora: "crucette", castagne, lupini, noci, finocchi, pitte " ‘mbrugliate", "turdilli, scalille, chinuille", tutto annaffiato con il buon vino del Savuto. Dopo aver cenato si lascia la tavola apparecchiata con una piccola porzione di ogni pietanza; la tradizione vuole che durante la notte il Bambinello entri nelle case, assaggi le portate e si riscaldi al fuoco. In attesa della Santa Messa si raccontano "rumanze": antiche storielle di fate, orchi, briganti e folletti. "‘E cummari" in quella notte Santa svelano alle giovani le formule segrete per sciogliere il malocchio. Quella della "vijilia" è veramente una notte magica ed unica; gli animali parlano, le fontane versano olio anziché acqua, le piante fioriscono, danno i frutti e gli oggetti si mutano in oro e perle. La leggenda vuole che per nessuna ragione il curioso debba udire il linguaggio degli animali e la curiosità di vedere i fiori, la frutta, l’olio sgorgare dalle fonti, sarebbe fatale e comporterebbe la morte all’istante. "A Grimaldi l’acqua attinta alla mezzanotte del 24 dicembre è ritenuta efficacissima nell’allontanare qualsiasi male e nell’apportare ricchezza, salute e felicità. E’ chiamata l’acqua muta, perché le donne che vanno ad attingerla, in quell’ora di mistero, nello incontrarsi devono curare di non riconoscersi; al quale fine si coprono largamente la persona d’un panno nero ed incedono in profondo silenzio. Ove mai per caso avvenga che si riconoscano, tornano immediatamente indietro senza provvedersi dell’acqua e fondendo a terra quella che avessero attinta, credendone svanita la virtù con lo svanire del mistero". Al suono delle campane la gente si riversa in chiesa per ascoltare " ‘a Missa granne". Nelle piazze e davanti le chiese si accendono le "focare", e da lontano si ode il suono delle zampogne che annunziano la nascita del Redentore... "e gli augurj e le felicitazioni, scambiati tra tutto il popolo, danno termine alla festa annunziatrice di pace, di gaudio, e spesso disconosciuta da non pochi, che hanno camuffato le dottrine di quel Martire, che sul Calvario, sotto il peso della Croce, ripeteva: In terra pax hominibua, bonae voluntatis". Questo era il Natale di un tempo! Un Natale semplice e genuino, un Natale di pace e solidarietà, degli affetti e della famiglia, della fratellanza e dell’amore per il prossimo; un Natale di valori e della religiosità, costruito anno per anno con pazienza e dissacrato inesorabilmente dalla fredda modernità consumistica. Un Natale lontano a cui oggi è difficile ritornare!
Fiore Sansalone
Da La voce del Savuto dic.1999