Luigi Montera
Un fotografo ambulante del ventennio
di Giovanni Sole

Luigi Montera nasce a Malito il 28 marzo 1902. Suo padre Giuseppe, detto "Ferrante", era emigrato come tanti suoi compaesani in Brasile; sua madre, Giuseppa Mancini, era rimasta in paese con i suoi numerosi figli.
Luigi frequenta per qualche anno la scuola elementare del paese e mostra molto interesse per gli studi, ma non riesce a continuarli per mancanza di mezzi. Impara il mestiere del calzolaio e sin da giovane simpatizza per le idee socialiste. Sono anni difficili, caratterizzati dal duro scontro con i fascisti che spesso sfocia in veri e propri conflitti. La sera del 24 dicembre 1924 alcuni squadristi sparano contro i socialisti ferendone gravemente uno, ma i carabinieri arrestano Luigi Montera, il segretario della Camera del Lavoro ed altri compagni. Due anni dopo, il 2 novembre 1926, Montera viene nuovamente arrestato per essersi rifiutato di rendere omaggio al gagliardetto del fascio e per aver pronunciato frasi oltraggiose nei riguardi del Duce. L'autorità giudiziaria il 26 dello stesso mese lo spedisce al confino nell'isola di Favignana dove, per vivere, impara il mestiere del fotografo e pare che ad insegnarglielo sia stato uno dei tanti confinati.
In un rapporto della Prefettura di Cosenza si legge: "Ha professato sempre con vivacità idee socialiste facendone propaganda nel proprio paese per quanto la sua scarsa istruzione e la sua limitata influenza glielo consentivano. Milita nel Partito Socialista Massimalista; esercita il mestiere di calzolaio e di fotografo. Visse sempre nel comune di Malito mantenendosi in rapporti con i fratelli dell'on. Mancini, sovversivi. Ha scarse attitudini fisiche e fu riformato dal Consiglio di Leva per deficienza organica. Di temperamento violento, tiene contegno spavaldo, e audace, ed impulsivo e capace di compiere delitti comuni e politici. Esponente del sovversivismo locale e provocatore di disordini e stato denunciato più volte per reati comuni
Il Tribunale Penale, però, accetta un suo ricorso e commuta il confino in ammonizione. Liberato, dopo avere ottenuto la licenza, acquista una macchina fotografica, un treppiedi, un grande telo su cui e dipinto un paesaggio neoclassico e comincia a fotografare. Lavora in una stanza della sua abitazione ma la sua attività si svolge prevalentemente nelle campagne e in paesi vicini come Belsito, Altilia e Grimaldi, dove viene ospitato da parenti o amici.
Il lavoro di fotografo gli consentiva di vivere dignitosamente, anche se spesso veniva pagato con qualcosa da mangiare. Non tutte le foto riuscivano bene, e spesso doveva rifarle più di una volta. Era un lavoro nuovo e i suoi clienti a volte creavano qualche problema. Un giorno andò da lui un compaesano per farsi fare delle fotografie necessarie per andare in Canada. Poiché però dopo una visita medica non ebbe il visto necessario, disse al Montera che le foto non gli servivano più e che quindi era libero di poterle vendere a chi gli pareva! Un altro amico che doveva anche lui farsi una foto per emigrare, poiché era impegnato per la raccolta dell'uva e non poteva lasciare il lavoro, gli chiese se era proprio necessario che andasse nel suo studio per fare la fotografia visto che lo conosceva benissimo! Vi erano persone che non avevano alcuna idea del mezzo fotografico né tantomeno di quello cinematografico. Alcuni anziani di Malito raccontano che un giorno, mentre il Montera stava proiettando una pellicola su Tarzan nella scuola elementare del paese, diversi spettatori, impressionati dal ruggito di un leone che stava per aggredire l'eroe, scapparono via spaventati!
Sono storielle simpatiche che fanno pensare ad una Calabria arretrata e fuori dal mondo, ma sappiamo che non e così. Il processo di modernizzazione stava investendo anche le remote campagne e con l'emigrazione, lo stato di polizia e la guerra, la fotografia si impose a tutti. Prima delle foto l'identificazione di un soggetto era basata sul nome, sul soprannome, sui dati anagrafici, sulle deformità fisiche o sui segni particolari. Il bisogno di censire e riconoscere fotograficamente la popolazione, finì per rendere obbligatoria la fotografia fino a che, con una legge del 1927, l'immagine personale allo Stato divenne obbligatoria e ne fu punito il rifiuto.
E' proprio l'anno in cui Montera inizia fare il fotografo e, a quanto pare, era uno dei pochi del suo circondano.
La maggior parte dei suoi clienti aveva parenti emigrati oltreoceano tra la fine dell'ottocento e gli inizi del novecento. Erano soprattutto donne, le quali, con i loro bambini, sì recavano al suo studio portando sottobraccio il vestito della festa o che si erano fatto prestare dalla vicina. Si racconta che lo stesso Montera usava gioielli, nastrini e scialli della madre che faceva indossare soprattutto a quelle donne povere che arrivavano vestite di nero. Nella sua abitazione si cambiavano, si pettinavano, si aggiustavano e si mettevano in posa. Luigi, dopo avere scattato la fotografia, provvedeva subito a sviluppare il negativo per vedere se era riuscito e la sua camera oscura era costituita da una grande coperta. Se il negativo per qualche motivo non andava bene ripeteva l'operazione mentre le foto venivano stampate di notte e consegnate il giorno dopo.
Montera era un socialista e per il suo lavoro semiambulante era tenuto sempre sotto stretta sorveglianza dalle autorità di polizia. Finito il periodo in cui era confinato, continuò a professare le sue idee, senza però suscitare sospetti da parte delle autorità del regime. In paese continuava a vedere i vecchi compagni di partito e, a volte, durante la festa del primo maggio, infilava all'occhiello un garofano rosso. Aveva però buoni rapporti con i responsabili locali del partito nazionale fascista e non e da escludere che possono averlo protetto in situazioni difficili. Si racconta che il segretario della sezione del fa5cìo, quando a Malito si annunciava la visita di qualche gerarca, invece di chiuderlo nella caserma, lo ospitava nella sua abitazione. Nel 1937 fu radiato dallo schedario dei sovversivi, anche se sempre tenuto sotto controllo.
Montera viene ricordato come un anticonformista. Non frequentava la chiesa ed anche in punto di morte, avvenuta il 27 luglio 1973, non volle confessarsi. A differenza di molti suoi amici non si era mai sposato e aveva storie amorose con donne del suo paese e di quelli vicini. Con una di esse ebbe una figlia, Giuseppina, che nacque nel 1942. La madre della ragazza voleva che i due si sposassero ma egli sì rifiutò. Una sera, mentre tornava a casa, fu aggredito da alcuni giovani e colpito con alcuni colpi di accetta. Trasportato con un'automobile all'ospedale, guarì dopo una lunga convalescenza. Si sposerà alcuni anni dopo, nel 1947, con Marietta Salvati, da cui ebbe un figlio, Alfredo.
Montera era un appassionato cacciatore di boccacce e di quaglie e soffrì molto quando l'autorità di polizia gli ritirò il porto d'armi. Nella locale banda del paese suonava il trombone ed era uno dei pochi a saper leggere e scrivere musica. Gli piaceva anche il cinema e quando proiettava i film muti era molto abile nel commentarli. Amava leggere e aveva facilità nella scrittura tanto che molti suoi compaesani si rivolgevano a lui per scrivere lettere ai parenti in America o per inoltrare domande agli uffici dello Stato. Era un giovane sempre allegro e insieme ad altri tre amici, formava "il quadrunvirato di baldoria che ricercava nidi in primavera e disdegnava i fati della storia".
Della produzione fotografica di Montera ci rimangono circa seicento lastre conservate insieme alla sua vecchia macchina fotografica in una logora cassetta di legno. Le sue foto sono quasi tutte in posa, oppure realizzate dentro e fuori dallo studio. Egli sistemava il telo all'interno della casa e fotografava spesso da un'altra stanza (in alcune fotografie si può notare la porta), quando fotografava fuori appendeva il telo al muro con dei chiodi o, se in aperta campagna, agli alberi (mura e alberi si vedono spesso ai margini del telo).
Tutti i soggetti ritratti sembrano non essere molto a proprio agio e del resto la macchina fotografica) soprattutto in quegli anni, provocava un certo imbarazzo. Quella strana scatola di legno o di metallo, con un occhio di vetro al centro, che aveva la capacità di riprodurre esattamente ciò che aveva di fronte, era ancora fonte di grande meraviglia. La macchina fotografica in qualche modo intimoriva, spingeva a nascondersi, a travestirsi e a spersonalizzarsi.
La mancanza di naturalezza dei soggetti non è però solo frutto dell'emotività, del pudore e della riservatezza provocata dal mezzo, ma anche di una loro libera scelta. Essi in posa interpretavano una parte che voleva comunicare ai destinatari delle fotografie una condizione diversa dalla propria. Quasi tutti poveri, cercavano di mostrarsi nella maniera migliore possibile. In posa, aspettando che il Montera aprisse l'otturatore, trattenevano il respiro, atteggiavano il volto ad un'espressione seria e, drammatizzando, cercavano di migliorare se stessi o di somigliare ad altri. La fotografia diventava per queste persone una fuga dall'identità e dalla realtà; invece di chiedere ritratti speculari volevano ritratti immaginari.
Lontani dai campi e dalle case, davanti a quella macchina e con uno sfondo neoclassico alle spalle, le persone che andavano a farsi fotografare dal Montera, diventavano in qualche modo degli attori. Con quelle fotografie volevano comunicare ai parenti lontani che le cose a Malito andavano bene. Le pose e le espressioni dei loro ritratti erano una fuga dal reale, una idealizzazione e una imitazione di destini sognati. Le loro fotografie erano un inno alla vita e una lotta contro la morte.
Montera, da parte sua, rispondeva ai desideri dei clienti. Egli non era un fotografo dilettante, un fotografo artista o un fotografo scienziato, ma un fotografo ambulante, che soprattutto quando il tempo era buono girava nelle campagne e nei paesi del Savuto alla ricerca dì clienti. Non era uno che fotografava per arte, per passione o per ricerca, ma per mangiare. Quello del fotografo era per lui un mestiere come tanti altri. Quando aveva intrapreso questa professione, ormai la tecnica della fotografia era progredita al punto da non richiedere più delle conoscenze particolari. La preparazione dei bagni di sviluppo e di fissaggio, che in passato era assai complessa, non richiedeva più conoscenze chimiche basate sull'esperienza e la sperimentazione e, da molto tempo, le apparecchiature erano prodotte da grandi industrie e si potevano acquistare a buon mercato.
Montera faceva questo mestiere per poter vivere. Più clienti aveva più fotografava, più fotografava più guadagnava, più guadagnava più mangiava, mi ha riferito un anziano del paese. Fotografava ciò che poteva vendere, ed era preoccupato più del guadagno che dell'arte, più della quantità che della qualità. Egli, però, era pur sempre un artista. Il suo mestiere non era riprodurre i volti delle persone, ma trasformarli e riportarli in immagine. Li cambiava modificando il campo visivo, usando certe inquadrature, mettendo il telone con le colonne e i fiorì alle spalle dei soggetti facendo indossare vestiti nuovi, richiedendo certe espressioni e certe pose, mettendo qualche oggetto o facendo assumere un aspetto più fiero e dìgnitoso.
Trasformava la realtà trasportando i personaggi in un mondo sospeso nel tempo e nello spazio, dove niente poteva turbare l'immagine e, in questo senso, il suo mestiere era forse più quello dì occultare che di rivelare. Artigiani e braccianti poveri, miracolosamente nello Studio diventavano benestanti, giovani e anziane contadine apparivano come per incanto delle distinte cittadine. Egli in un certo senso era un artista, un erede di certi vecchi pittori i quali, grazie al gusto e alla tecnica, impressionavano una realtà magica.
Ci sono anche altre ragioni che spiegano il carattere delle sue immagini. Durante la dittatura del ventennio la fotografia diventa uno dei mezzi più efficaci per plasmare le idee e influire sul comportamento delle grandi masse. Il fascismo aveva capito perfettamente il valore della fotografia come strumento dì persuasione e di consenso e quindi, tramite la censura puniva chi non si adeguava alle direttive del regime. I fotografi, scattando le loro foto, dovevano avere ben chiaro che la questione meridionale non esisteva, che la povertà nei paesi del sud era stata spazzata via per sempre dalla rivoluzione fascista e che i contadini vivevano finalmente felici nelle campagne, come li si vedeva insieme al Duce in alcune fotografie.
Montera doveva adeguarsi alle direttive del governo per non incorrere nella censura, ma, in ogni caso, le sue foto esprimevano anche i suoi sentimenti e le sue idee.
La fotografia era un'arte proletaria moderna in contrapposizione alla pittura, arte aristocratica del passato. La fotografia rispondeva all'esigenza delle masse anonime di essere rappresentate e che le vecchie forme espressive non erano riuscite a soddisfare. La macchina fotografica era uno strumento democratico: il ritratto, che da secoli era privilegio di poche famiglie, era ormai accessibile a tutti.
La scelta di rimuovere la povertà dalle sue foto, era un modo di restituire dignità alla povera gente. La macchina fotografica era un mezzo livellatore e, osservando le fotografie stereotipate del Montera si notano poche differenze tra un bracciante e un benestante del paese. La fotografia livellava in una realtà irreale ciò che nella vera realtà era diseguale.
E' anche per questo motivo che nelle foto di Montera non si coglie la miseria dei contadini, non si vedono bambini che camminano scalzi, i borghi fatiscenti dove gli uomini vivono con gli animali, non si denunciano le dure condizioni di lavoro nei campi e nelle botteghe. Montera non voleva descrivere la miseria umana e sociale, ma mettere in mostra la bellezza e la dignità della povera gente e per fare ciò finiva per nascondere sistematicamente il reale.
Le foto dì Montera sono dunque frutto dì diversi condizionamenti, soggettivi e oggettivi. Pensare di conoscere la realtà sociale, economica e culturale di Malito attraverso le sue fotografie, senza una seria indagine sulle stesse, porterebbe a dare della realtà un'immagine falsa e oleografica, si rischierebbe di cadere nell'estetismo fine a se stesso, di pensare ad un passato buono, magico e incontaminato.
La macchina fotografica non è uno strumento tecnico capace di riprodurre meccanicamente la realtà "sic et simpliciter". Come è stato più volte detto, la fotografia non è una registrazione obiettiva della realtà, ma una sua immagine astratta e trasformata, è un frammento di realtà ripreso da un occhio di vetro, una realtà rettangolare senza spazio e senza tempo. La macchina fotografica non è azionata da un dispositivo inanimato, ma da un uomo che, attraverso essa) esprime la propria volontà. Montera registrava ciò che stava davanti al suo obiettivo, ma ciò che registrava non era la realtà, bensì una riproduzione e una rielaborazione soggettiva dì questa sua  foto, per questi motivi, sì sottopongono a diverse prospettive interpretative e anche uno scrupoloso studio di esse non potrebbe essere mai essere considerato esaustivo. Per capire quanto di falso e di vero ci fosse in quei ritratti sarebbe importante conoscere la mentalità e i valori estetici del fotografo, i motivi che spingevano i soggetti a farsi fotografare e le aspettative dei destinatari delle fotografie.
E' difficile stabilire il valore etnografico delle foto del Montera poiché sono complesse da analizzare, ma esse non sono menzogna, attestano comunque delle verità. Se da un lato la realtà fotografica è un'illusione, dall'altra quell'illusione creata dal fotografo è una verità. Le lenti che compongono l'occhio fotografico sotto l'obiettivo e indiscutibilmente c'è una obiettività nella fotografia. Disponendo le foto del Montera su un grande tavolo sembrano tutte uguali, ma in realtà ognuna di loro fornisce una quantità di dettagli. I soggetti sembrano avere tutti la stessa posa e la stessa espressione, ma si notano delle sfumature diverse nel comportamento di ognuno in rapporto alla propria età, condizione sociale ed emotività.
La fotografia riproduce in qualche modo la realtà immediata e la fissa sulla carta. Montera mascherava nelle fotografie la realtà, ma alla fine essa usciva fuori anche a dispetto dello stesso fotografo. Guardandole attentamente si possono ricavare notizie che nessun'altra fonte storica riesce a dare. Nelle foto si vedono gli effetti della prima emigrazione e del processo di modernizzazione, i sentimenti politici e le divisioni presenti nel paese, la malinconia delle donne e dei bambini abbandonate da mariti e padri emigrati oltreoceano, il dolore e la disperazione provocati dalla guerra, gli effetti delle terribili epidemie di tifo e della spagnola, l'evento eccezionale dei riti di passaggio e della festa. Le foto ripropongono la "routines" sociale della comunità: il tempo della nascita, dell'infanzia, della giovinezza, della vecchiaia e della morte; il tempo rituale del battesimo, della comunione, della cresima, del matrimonio e del funerale. Le fotografie esprimono con precisione lo spirito e i costumi del proprio tempo, evocano il passato e trasmettono il ricordo di avvenimenti che il gruppo sociale riteneva importante da conservare.
Le foto del Montera spingono lo studioso ad un 'osservazione distaccata per sezionarle nei particolari e per svelare il mistero che si cela dietro ad ognuna. Esse però a volte riescono a distrarlo dal suo lavoro poiché lo travolgono nei sentimenti.
L'otturatore della macchina fotografica in teoria dovrebbe cancellare le emozioni dei soggetti, la macchina fotografica certifica, ratifica e autentifica, ma riesce pure a frugare nell'intimità degli uomini. E' forse questo, come è stato più volte sottolineato, il carattere inquietante e seducente della fotografia. Nella maggior parte dei ritratti del Montera si colgono sentimenti di malinconia, di paura e di smarrimento, in ogni sua foto si nota qualcosa di inquietante e di tragico. Barthes, in un suo famoso saggio sulla fotografia, scriveva giustamente che alcune foto suscitano un'ondata più grande del sentimento amoroso, e cioè la pietà. Guardando i visi malinconici e preoccupati delle madri o lo sguardo smarrito e spaventato dei loro bambini, non si riesce a non avere pietà, a non entrare nell'immagine e stare vicino a loro.
Le fotografie ci mettono in discussione come uomini poiché in qualche modo rappresentano la vita di ognuno di noi. Esse nascono, invecchiano e muoiono. Attaccate dalla luce ingialliscono, si scoloriscono, si sbiadiscono e si frantumano. La fotografia è una storia sicura, ma effimera allo stesso tempo, sottolinea il baratro esistente tra la vita e la morte. Gli uomini sono fissati su quel cartoncino bianco e nero, ma poi un giorno non molto lontano non ci saranno più.

La coperta e la camera oscura
di Gianclaudio Curia

Nella scorsa primavera fui contattato dall'Amministrazione Comunale di Grimaldi per visionare del materiale fotografico di Luigi Montera, un fotografo ambulante di Malito che lavorò negli anni del ventennio fascista.
Le lastre fotografiche, circa seicento, erano conservate dentro scatoline di cartone, alcune in ottimo stato, alcune in discrete condizioni, altre, infine, addirittura incollate tra loro per via dell'umidità. Le lastre, come si evince dalle etichette sulle confezioni, provengono dalla ditta Ferrania, antica e rinomata fabbrica italiana di materiale sensibile, attiva fino alla fine degli anni '60.
Nella cassetta di legno insieme alle lastre c'era anche una macchina fotografica di legno, completamente smontata. L'ottica non era dì grande qualità, e ciò e ben evidente dalla vignettatura che spesso appare ai bordi delle stampe che ho eseguito. In alcune foto, inoltre, si nota anche qualche problema sia riguardo alla nitidezza generale di tutto il campo inquadrato sia nella messa a fuoco dei soggetti.
Dopo una prima visione delle lastre in controluce, quasi tutte di dimensioni intorno ai 10x15 centimetri, mi sono accorto che si trattava di materiale di grande interesse.
Una prima fase del lavoro è consistita nella selezione dei negativi meglio conservati e che apparivano più interessanti ed espressivi da un punto di vista nella ricerca visiva storico-antropologico. La superficie delle lastre risultava ricoperta da uno strato di polvere reso tenace dall'umidità, che prima ho rimosso parzialmente con un pennello a setole morbide e poi eliminato con l'acqua corrente. Successivamente le lastre sono state trattate in un bagno di stabilizzazione ed infine, dopo un'ulteriore immersione in una soluzione imbibente, per rimuovere dalle superfici ogni eccesso d'acqua, sono state asciugate all'aria.
Dopo queste operazioni preliminari di pulizia, noiose ma necessarie, sono passato alla fase più interessante della stampa in camera oscura, resa possibile solo attraverso il procedimento della "stampa a contatto" perché, com'è noto, negli ingranditori moderni è impossibile inserire negativi di vetro e per giunta di grandi dimensioni. Con questo metodo di stampa l'immagine riprodotta è a fotogramma pieno, tutto ciò che è sul negativo viene così fedelmente riportato senza alcun taglio arbitrario, tagli che il Montera aveva dovuto effettuare, per togliere dalle immagini le parti indesiderate. Così sarà stato senz'altro per l'immagine della porta che spesso ora appare nelle mie riproduzioni, oppure nel caso di ritratti realizzati all'aperto per i quali lo sfondo era del tutto inessenziale ai finì della composizione della foto-tessera. I tagli eseguiti dal fotografo sono una prima evidente manipolazione di una realtà che già da tridimensionale è riprodotta bidimensionalmente, e non a colori ma in una gamma di grigi estranea alla percezione visiva.
Nella luce fioca della camera oscura le immagini, che dal foglio bianco immerso nello sviluppo man mano apparivano, provocavano in me profonde emozioni. Il diario di una comunità scorreva davanti a me, una miriade di personaggi fluiva continuamente dal negativo alla carta. L'occhio freddo e acritico della fotocamera li aveva fissati in quell'istante preciso ed ormai tanto lontano, ed io ora arbitrariamente avevo il potere di far rivivere quell'attimo vissuto tanto tempo fa.
Le fotografie sono per la gran parte ritratti singoli o di nuclei familiari, qualche foto dì gruppo e diverse immagini di defunti. Nei gruppi familiari si nota la mancanza dell'elemento maschile e la tristezza che i volti emanano, malinconia di fronte alla quale mi riusciva difficile essere insensibile. Ricordo che una sera in camera oscura, nello stampare l'immagine dei tre bimbi intorno alla tomba della loro giovane madre, ho provato sentimenti d'angoscia tali da indurmi a sospendere immediatamente il lavoro.
Dopo queste prime sedute di stampa già mi sembrava di conoscere meglio il fotografo e l'universo che gli gravitava intorno, ma un quadro più chiaro della sua personalità e del suo mondo mi si è delineato dopo i diversi colloqui avuti con il figlio, i parenti e gli amici.
I ricordi dei suoi compaesani sono stati preziosi nel tratteggiare il carattere del Montera e la sua pratica fotografica, anche Se non sempre le loro argomentazioni mi Sono sembrate convincenti. Ad esempio, per quanto riguarda le foto dei defunti, alcuni di loro sostengono come unica necessità di ritrarli, la mancanza di fotografie da poter mettere sulle lapidi. Le immagini, però, non sono mai dei primi piani, per cui la scelta di tale inquadratura potrebbe essere legata ad una forma di pietà verso il morto, o anche alla paura di essere contagiati da malattie (specie nel periodo dell'epidemia di febbre "spagnola". Gli intervistati narrano a questo proposito che, appena Montera era pronto alla ripresa, essi aprivano il coperchio della bara con estrema lentezza per evitare anche il più piccolo Spostamento d'aria.
E' probabile però che le foto fossero commissionate per altri Scopi. Il nuovo mezzo tecnico offriva loro la possibilità di conservare l'immagine di coloro che il destino, irrimediabilmente, aveva strappato agli affetti dei parenti e di tutta la comunità. Quel magico pezzo di carta forniva la prova ed affermava l'esistenza passata di una persona cara, e si trasformava in un mezzo di mediazione fra il vivo ed il defunto. Serviva a elaborare il lutto, a superare la crisi della presenza e lo sconvolgimento provocato nella comunità e a riaffermare così l'unità sociale. L'immagine quindi si trasformava in "medium" fra la collettività dei vivi e il defunto, rinsaldando la coesione sociale. Attraverso la fotografia, il defunto vive ed è reso partecipe degli avvenimenti che coinvolgevano il nucleo familiare superstite, ed allo stesso tempo i vivi ricevono forza e conforto dall'immagine del morto. Le fotografie, divenute attraverso siffatto meccanismo inconscio delle vere e proprie icone, erano spedite anche ai parenti dispersi per il mondo al fine di renderli partecipi al lutto e riaffermare quei legami di parentela che la morte e la lontananza avrebbero potuto intaccare.
Per quanto riguarda il trattamento del materiale sensibile, Montera era dotato di una notevole capacità tecnica, considerando che non disponeva di una camera oscura vera e propria. I suoi compaesani raccontano che spesso trattava le lastre immediatamente dopo le riprese infilandosi sotto una spessa coperta per non dover obbligare i soggetti a tornare successivamente se qualche cosa non fosse andata per il verso giusto.
Montera era però essenzialmente un fotografo ambulante per cui lo sviluppo delle lastre veniva compiuto anche e soprattutto fuori dalle mura domestiche, in luoghi lontani che venivano raggiunti dopo lunghe camminate a piedi, portando sempre con sé il pesante fardello di tutta l'attrezzatura fotografica. Lo sviluppo in queste condizioni precarie era carico di grandi difficoltà, se si tiene conto che, allora come oggi, il trattamento necessita di tre bagni differenti ed il tutto deve avvenire nella completa oscurità. Infine non dobbiamo ignorare che l'esposizione, vale a dire l'esatta calibrazione della quantità di luce che deve investire la pellicola, non esistendo allora strumenti per la misurazione dell'intensità luminosa, avveniva ad "occhio", così come lo sviluppo del materiale sensibile era eseguito senza alcun controllo della temperatura dì trattamento dei vari bagni.
Considerando questi limiti, le evidenti differenze di densità riscontrabili nei negativi, non sono che un peccato veniale pienamente giustificabile rispetto agli standard qualitativi raggiungibili e facilmente ottenibili al giorno d'oggi. Il Monrera dunque, pur nella gran precarietà delle condizioni ambientali in cui era costretto a operare, grazie alla sua notevole destrezze riusciva ad ottenere ottimi risultati.
Seppur abile nella tecnica per quel che riguarda la composizione delle immagini il suo estro creativo risulta invece piuttosto limitato e ripetitivo. I soggetti nella maggior parte dei casi, anche quando il ritratto è eseguito in aperta campagna, Sono ripresi davanti ad un fondale finto. I clienti desideravano essere immersi in una realtà differente rispetto alla loro quotidianità fatta di duro lavoro, sacrifici e stenti, miravano ad apparire diversi dal solito non solo nell'abbigliamento, che spesso prendevano in prestito, ma anche decontestualizzati dalla realtà circostante. Fotografo e soggetti erano, in conseguenza di ciò, coinvolti in un totale mascheramento della realtà.
Montera, suo malgrado, finì quindi con l'essere funzionale alle politiche del governo fascista che tendeva a nascondere le reali condizioni di miseria del Sud. Il suo atteggiamento di "complicità" fu sicuramente involontario, poiché le immagini dovevano gratificare il committente, e coloro che ricevevano questi ritratti, di solito emigranti che lavoravano in America Latina.
Per questi motivi le foto di gruppi familiari, eseguite sia in studio che all'aperto, dicono nulla o molto poco sulle reali condizioni di vita della comunità. Tale meccanismo non può certo dare una visione reale della società rappresentata, nè tanto meno delle coordinate volute o inconsce in cui egli agiva. Solo alcuni particolari significativi, cercati con attenzione nelle immagini, possono fornirci degli indizi sulle condizioni di vita materiale delle persone ritratte, svelandoci, ad esempio, la drammatica realtà dell'emigrazione che aveva svuotato i paesi all'inizio del secolo. A Malito, come in tanti paesi del Sud, restavano le mogli e i figli dei giovani lavoratori partiti e a loro venivano spedite le foto per rinsaldare i vincoli familiari o addirittura per far conoscere loro l'immagine del figlio appena nato.
In alcune foto si nota il pavimento costituito dalla nuda terra, che tradisce l'ingenuità della messinscena ed in parte disvela la realtà che si tentava di occultare. Anche nei Soggetti ripresi si notano delle evidenti incongruenze, come ad esempio le scarpe malridotte in contrasto con il resto dell'abbigliamento, la coppola in mano all'anziano tolta dal capo per il solo breve tempo necessario a eseguire il ritratto, l'abbigliamento del bimbo più trasandato e dimesso rispetto al resto dei familiari. In tutti manca comunque la Spontaneità, la posa è sempre rigida, il volto è contratto e quasi mai un sorriso affiora sulle labbra. Appare evidente il loro imbarazzo di fronte all'attrezzatura fotografica, e questo evidenzia che la fotografia è stata sempre eseguita perché funzionale ad uno scopo preciso e non per il puro desiderio di essere ritratti.
Sono immagini che ispirano tenerezza per l'ingenuità della posa ricercata, rigida e innaturale, e che suscitano allo stesso tempo una gran tristezza, per il dolore e la sofferenza che traspare in quei volti segnati da un'antica condizione di precarietà e rassegnazione. Solo nei momenti di festa, come appare ad esempio nelle fotografie di matrimonio, la collettività sembra in qualche modo alleggerita da questa eterna lotta per la sopravvivenza, da questa muta ed eterna rassegnazione a un destino ingrato e ineluttabile. Il matrimonio di un compaesano rappresentava una festa comune, una pausa nella difficile lotta quotidiana oltre che la possibilità dì una grande mangiata e bevuta collettiva in grande allegria, il breve tempo della festa da godere insieme prima del ritorno alla solita esistenza.
L'attività di un fotografo sconosciuto di provincia ci spinge a riflettere sulle reali potenzialità del mezzo fotografico e sulle sue infinite Possibilità. Le immagini del Montera costituiscono, pur nell'evidente mascheramento di una realtà, un vero e proprio catalogo antropologico.

Fotografie e memoria
di Attilio Rino

Da Nièpce, Daguerre e Talbot fino ai giorno nostri, la fotografia si è affermata gradualmente come linguaggio artistico, divenendo, al contempo, mezzo di uso comune per la sua particolare capacità di comunicare. La nuova stagione della fotografia ha cambiato radicalmente il concetto di memoria e il modo di ricordare il passato. La società del passato consumava credenze mentre la società moderna, grazie anche all'avvento della fotografia, consuma soprattutto immagini.
La fotografia contribuisce in modo determinante a dare VOCC al mutismo secolare della società minuta, bisognosa e analfabeta. Il nuovo medium offre la possibilità di comunicare tramite una scrittura iconica, più diretta e verosimile, e nello stesso tempo assicura il corpo quando la materia svanisce. La fotografia, come dice Oliver Vendll Holmos, è uno specchio dotato di memoria.
Agli inizi del secolo la massiccia emigrazione oltreoceano e le guerre sconvolsero e disgregarono l'unità delle famiglie calabresi. La fotografia, in questa temperie socio-culturale, si trova investita di un ruolo fondamentale. Le lastre del Montera testimoniano l'enorme produzione di immagini in questo periodo, ed illustrano la ripartizione del materiale in categorie specifiche: nuclei familiari, matrimoni, funerali, ritratti per il rilascio di documenti d'identità. Queste foto servivano per comunicare alle persone lontane gli avvenimenti importanti di una situazione familiare o della comunità; avevano lo scopo dì rinsaldare, simbolicamente, la perduta unità familiare, ed erano avvertite come strumento privilegiato nella relazione con chi era emigrato. In questo logica, la fotografia diventava uno strumento che consentiva dì ripensare, e quindi dì ridefinire, le identità a rischio, di congiungere universi disgiunti, dì surrogare presenze perdute. Ancora oggi è possibile, in giro per il mondo, osservare queste foto appese alle pareti, o gelosamente conservate nei cassetti, a perenne ricordo della stagione dell'emigrazione o, più in generale, del tempo passato, divenendo veri e propri puntelli della memoria.
È peculiare dell'immagine ritratta fotograficamente il fatto che può sopravvivere tanto all'uomo che all'evento. In questo modo questi pezzi di carta impressionati diventano supplenti della realtà, perché capaci di doppiare pezzi di mondo. Nel cimitero dì Grimaldi, ma anche in altri cimiteri, nelle cappelle di famiglia in luogo del cadavere, si possono trovare foto di persone decedute in fantastici "altrove".
Molti fotografi autodidatti improvvisarono il mestiere: erano spesso modesti artigiani, con una mentalità più aperta, che seppero cogliere il momento favorevole per aggiungere un ulteriore guadagno alle effimere economie familiari. Tutto ciò, però, non ha impedito che alcuni di questi "fotografi alchimisti" ci lasciassero opere di ottima qualità anche sul piano estetico.
I fotografi dei piccoli paesi diventarono personaggi pubblici e si videro riconosciuto uno sttus di privilegio all'interno delle classi subalterne: erano coloro in grado di tramandare, perché erano gli unici capaci di conservare, di fissare momenti e comportamenti degli uomini, raccontare persone, gesta o cose del passato, di Cui la Scrittura non si sarebbe mai occupata.
Per il loro sguardo distaccato e Inconsapevole, per la capacità di imporre ricordi reali, di immobilizzare il tempo e fissare "pezzi di mondo", il lavoro di questi fotografi è fondamentale per ricostruire la storia delle Comunità, per delineare il paesaggio e sottolineare i tratti della vita produttiva, le situazioni familiari, le modalità del guardare e dell'apparire.
Attraverso le immagini l'uomo è in grado di conservare un "mondo minore".
Il tempo travolge gli eventi, che, grazie alla fotografia, possono poi "rivivere"; l'arte del fotografo ci consente di avere memoria del passato: non più una memoria sbiadita e logorata dallo Scorrere del tempo, ma ricordi nitidi e veritieri.
Il lavoro di Catalogazione di questa raccolta è Stato lungo e faticoso, fatto di conferme e smentite. Riconoscere una persona, talvolta dopo cinquant'anni, non è impresa facile. Molte foto, ricostruiscono il fenomeno dell'emigrazione che ha svuotato i nostri paesi portando via intere famiglie, e in questa esperienza di catalogazione ho notato che da parte delle Persone che ho incontrato vi è l’inconscio tentativo di ricostruire quell'identità paesana lacerata dal tempo.
Il compito di chi intervista non è semplice: bisogna essere "bonariamente Sospettosi". Nella mia ricerca sui soggetti fotografati dal Montera, le indicazioni di Coloro che ho intervistato, non sempre sono state coincidenti. Probabilmente il desiderio di "ricordare", Spingeva i paesani ad inventare uomini e luoghi. Le testimonianze devono essere prese con grande cautela. La gente, Scrive Sole, tende a dare importanza a certe cose invece che ad altre, a spogliare i fatti dalla loro autenticità Storica per trasformarli in leggenda e in Sogno. Il ricordo delle persone non sempre tende a tramandare il passato, ma Spesso lo ricrea. La memoria popolare non sempre è ricettacolo di verità, nella memoria collettiva e individuale, molte cose vengono perdute, altre dimenticate, altre inventate.
Non dobbiamo però pensare che il tempo cancelli tutto. Nell'identificazione dei soggetti sono entrati in gioco vari elementi. Ciò che mi ha maggiormente aiutato è stato quel codice distintivo che mostra i tratti Somatici riscontrabili in noi e nei nostri antenati. A volte basta una traccia per richiamare la memoria storica. Come scrive Barthes, una fotografia è una cosa morta, ma il "punctum" ha il potere di renderla viva. Durante la ricerca, più di una volta le persone che ho contattato, sono riuscite ad individuare i soggetti alcuni giorni dopo che avevano visto la fotografia. Un'espressione, una posa , un tratto, un particolare, Cioè un "punctum", era riuscito a rimuovere l'oblio e risvegliare la memoria.
Gli intervistati hanno dimostrato verso le fotografie un'attenzione commovente. Ogni immagine diventava l'occasione per ricostruire una microstoria, fatta di racconti, aneddoti ed intrecci familiari lì tentativo di rammemorare si trasformava quasi sempre nel piacere di parlare, e, in qualche modo, di ricreare e dì restituire il passato.
Per la loro caratteristica di sopravvivere a noi, per la capacità di creare un "mondo doppio", di rinsaldare e restituire simbolicamente il passato, le fotografie diventano un rito della famiglia.


Foto:
Bambino  Uomo Socialisti Madre con bambini:  Donna Contadino Amiche Donne e ragazza Anonime Madre con Bambini Corteo nuziale Donna con Bambino Banda Musicale Donna con bambini Gruppo familiare Amici Anziani Sposi


Per gentile concessione Comune di Grimaldi
Quaderno Fotografico n.1      luglio 2001
Luigi Montera
Un fotografo ambulante del ventennio
a cura di Giovanni Sole

Comune di Grimaldi (Cs)
Museo della Civiltà contadina del Savuto