L'UCCISIONE DEL MAIALE NELLA TRADIZIONE PAESANA |
Iniziamo questo nostro percorso storico con un argomento assai sentito che, un tempo, conteneva molti elementi di valutazione sociale. Primo fra tutti, la necessità di ovviare ad un problema di alimentazione reso altrimenti difficile dalla situazione contingente: l’uccisione del maiale. Una vera e propria cerimonia accompagnava questo rito che avveniva, una volta l’anno, in quasi tutte le famiglie calabresi, propiziato dalla speranza che, avendo avuto cura nella crescita di questo animale, si potesse utilizzarne proficuamente ogni sua parte nel corso di tutto l’anno. L’allevamento del maiale era considerato una delle poche risorse alimentari indispensabili della gente dei centri presilani. In tutti i paeselli della valle del Savuto, da sempre, sono esistite piccole e modeste costruzioni atte ad ospitare e a far crescere i maialetti per uso domestico. Esse erano disposte in periferia lungo i pendii collinari. ‘E zimme (porcili) venivano costruite con legnami di scarto e con pezzi di lamiera rottamata. Le esalazioni sgradevoli di questi porcili molte volte richiamavano sciami di insetti che arrivavano sino alle abitazioni civili, minacciando inequivocabilmente la salute pubblica. In Calabria, fino a qualche tempo addietro, non c’era nucleo familiare, abbiente o meno, che non allevasse una famigliola di maiali le cui carni, espressamente gustose al palato di tutti, servivano sia come companatico, sia come fabbisogno energetico. Solitamente, il giovane porcello da ingrassare (passaturu) veniva acquistato dal mese di gennaio fino ai mesi di marzo e aprile; morfologicamente questo doveva essere lungo e magro del peso di 18-20 chili, di pelo bianco e nero. La fiera dei maialetti novelli si svolgeva nelle piazze; i porcari provenivano dai paesi della Sila, il commercio affluiva specialmente in prossimità della festa di Sant’Antonio Abate (17 gennaio), protettore dei porcellini, sempre presenti ai piedi della statua. L’origine del patrocinato del Santo sugli animali, deriva dall’antica comunità dei monaci detti di Sant’Antonio; essi curavano molte patologie dermatologiche tra le quali “l’Herpes Zoster” comunemente detto “Fuoco di Sant’Antonio” e usavano ungere il malato con del grasso di maiale. I monaci gestivano questa piccola azienda facendo affidamento sulla “Caritas pubblicae” usando il grasso come medicamento per i malati, ma il resto riempiva la cucina del convento. Nasce da qui il famoso detto in vernacolo roglianese: “Dudici monaci... tridici porci”. Una delle fiere più importanti nella zona del Savuto era la fiera “ ’e Savutellu” che ancora oggi si tiene il giorno di Pasquetta (la zona, che si trova nel territorio comprendente i comuni di Altilia, Martirano e Grimaldi, è raggiungibile dallo svincolo autostradale di Grimaldi). Era questo un appuntamento molto atteso dalle famiglie contadine, infatti l’acquisto del giovane porcello rappresentava un momento particolare dal quale dipendeva in parte l’economia familiare. L’esperto zianu, osservava accuratamente le bestie che dovevano rispondere a determinati requisiti(altezza delle gambe posteriori e lunghezza del corpo) per poi soppesarli uno ad uno per stabilirne il loro valore; subito dopo si passava alla parte più difficile, la contrattazione e, dopo una lunga ed accesa discussione, veniva effettuato l’acquisto. Il giovane porcello, legato con una corda attorno al collo e alla groppa, veniva accompagnato in trionfo fino alla nuova dimora; era un corteo gioioso al quale partecipavano anche i ragazzini poiché era un giorno in cui potevano osare quasi tutto, per propiziare, con rituali quasi primitivi, la buona riuscita e soprattutto l’ingrassamento che doveva assicurare il benessere economico della famiglia. Ovviamente gli animaletti dovevano acclimatarsi nel luogo circoscritto, piccolo ed infelice: nel “Kathojio” o “zimma”. Dopo qualche settimana, se il maiale era maschio veniva sottoposto a castrazione. La sera prima del crudele rito, il capo famiglia avvisava lu grastaturu, persona esperta non necessariamente veterinario che, dopo l’accordo per la prestazione(che andava da un minimo di cinque lire ad un massimo di dieci lire), decideva per l’indomani l’ora dell’intervento “chirurgico”. L’operazione veniva eseguita senza “anestesia” con un coltellaccio, ed attraverso una incisione semplice a croce, venivano estratti i testicoli della povera bestia. Subito dopo il castrino soleva ungere la ferita con olio e aceto. L’animale rimaneva così prostrato dal dolore tanto da rifiutare il cibo per diversi giorni. I testicoli dell’animale la sera stessa venivano cucinati e mangiati con salsa piccante. Il fine di questo crudelissimo rito era quello di far crescere il porcello senza stimoli sessuali per farlo divenire sano e grasso. Dopo la crudele operazione iniziava il lungo periodo di allevamento. L’alimento quotidiano proveniva dalla lavatura dei piatti “’a vrudata” con aggiunta di caniglia (crusca). A seconda del periodo, a questo tipo di alimento si alternavano nel corso della giornata fave, patate bollite, erba selvatica, castagne, ceci, ghiande e frutta di vario genere(fichi, mele, pere, etc). Dopo lunghi mesi di sacrifici e di lavoro da parte della famiglia contadina, il maiale, ben ingrassato, era pronto per il tanto atteso sacrificio. L’animale, il giorno prima della mattanza, veniva lasciato digiuno per favorire lo svuotamento delle budella in quanto dovevano essere pulite per preparare gli insaccati. Molto laboriosa era la fase preparatoria di questo evento che richiedeva una dotazione di accessori non indifferente: ’u gammellu, ’u majillune, ‘a quadara, ’a quartara, ‘u ntrincaturu, i salaturi, coltelli di vario genere e grosse funi. I matadores, amici e parenti del capofamiglia, nei giorni buoni, cioè il sabato o la domenica e mai di venerdì (poiché era considerato di cattivo auspicio), uccidevano la povera bestia. L’esecuzione dell’animale avveniva in un contesto assai pittoresco, ognuno aveva un compito ben preciso, chi scannava, chi depilava le cuoia con dell’acqua bollente, chi girava il sangue che doveva sgorgare a mo’ di fontanella dalla carotide del maiale affinché non si coagulasse per poter fare il sanguinaccio (il sangue dell’animale veniva cotto a fuoco lento per tutta una giornata con l’aggiunta di noci, mandorle, uva passa, vino cotto e scorze di arancia). Il povero animale, privo di vita dopo avergli mozzato la testa veniva diviso in due parti uguali (menzine); queste il giorno dopo venivano sezionate diligentemente per la preparazione di prosciutti, capicolli, sopressate, pancetta e salsicce; la testa veniva utilizzata soprattutto per la preparazione della gelatina (suzu). La bontà di codeste carni è conosciuta in tutto il nostro paese e anche all’estero. Da sottolineare un altro aspetto di questa cerimonia ossia il banchetto che si svolgeva in coincidenza con il giorno dell’uccisione e al quale venivano invitati amici e parenti come a voler dare testimonianza di una solidarietà tipica della gente umile. Le brave massaie preparavano l’abbondante pranzo con piatti tipici a base di carne suina: suffrittu, vrasciole, costolette alla brace, cavoli ripieni con polpette di carne, maccarruni fatti in casa, ed ancora contorni di funghi, cipolline in agrodolce, melanzane e come dessert i famosi turdilli natalizi tutto questo inglobato in un’allegra cornice di musica nostrana, di balli, tarantelle, canzoni improvvisate davanti al focolare. Erano veramente altri tempi, lo spettro dell’infarto e del colesterolo non era ancora all’orizzonte. Tuttavia la festa non si limitava al giorno fatidico ma proseguiva poi con le cosiddette “frittule”: altro appuntamento attesissimo dove ci si ritrovava davanti ad un grosso pentolone per gustare quelli che erano i resti del maiale, dopo le operazioni di insaccamento e le varie lavorazioni destinate alla provvista, il tutto accompagnato da un buon bicchiere di vino anch’esso accuratamente custodito per l’occasione. Una tradizione gastronomica locale che partiva dal presupposto logico: sana alimentazione, cibi genuini e tradizionali. Oggi, nel Sud e in particolare nel Savuto, questa pratica continua anche se con finalità in parte diverse. Venuta meno l’esigenza del dover far fronte alla fame in quanto tale, è rimasta integra la voglia della genuinità e della freschezza. Abbiamo tentato così di analizzare gli aspetti più appariscenti di questa tradizione popolare che ha un valore molto più grande di quello che non possa apparire a prima vista, poiché è possibile rintracciare spesso, una documentazione interessante su forme di antica civiltà e anche su usi e costumi che col cibo hanno stretti rapporti: l’atmosfera di un tempo, non priva di sottili suggestioni, che avesse il sapore di cose semplici e quotidiane; la famiglia riunita sotto il chiarore di una lampada, la massaia china sul focolare, la nonna che racconta le fiabe. Il piacere di rifornire la dispensa con i prodotti del maiale mantiene intatto il suo richiamo che si ricollega al senso della casa intesa come rifugio, come situazione di difesa verso le possibili ostilità esterne, come primitivo e innato senso della socialità e della solidarietà. Una ricchezza innegabile di una comunità come quella del Savuto che ha le carte in regola per decollare ed affermarsi in virtù di questi elementi caratteristici di saggezza e laboriosità oltre che di costume gastronomico.
Fiore Sansalone - Da La voce del Savuto - Febbraio 2000