‘U mise de castagne

Il castagno, pianta ultrasecolare, fa la sua comparsa circa un milione di anni fa nel continente Asiatico, più precisamente nella penisola Indiana dove veniva usato come albero ornamentale. Col tempo, attraverso il mar Egeo si diffuse in tutto il bacino de Mediterraneo nella fascia atitudinale compresa tra i 500 e i 1200 metri sul livello del mare. La sua coltivazione, favorito da un clima temperato, ha trovato in questa zona le condizioni ideali per uno sviluppo immediato e grazie ai Romani, venne estesa in poco tempo in tutto l’impero. Il castagno per secoli ha rappresentato una fonte di ricchezza importante per l’economia delle popolazioni rurali, ricchezza spesso non sufficientemente apprezzata. Numerose le varietà coltivate nella nostra regione, alcune più adatte per produrre legno altre per la produzione da frutto. Il castagno veniva sfruttato ed utilizzato in diversi modi: il legname, oltre ad alimentare i "foculari" di casa, veniva impiegato per le travature dei tetti e degli stessi pavimenti nonché per la costruzione di mobili, madie, botti, etc., ed ancora per confezionare capienti "cannistri", "sporte", cesti e "panari" utilissimi ai nostri contadini durante i raccolti stagionali. Dalle piante giovani si ottenevano resistenti "furcelle" che venivano utilizzate per il sostegno di alberi, travi, viti e simili; le frasche raccolte in sarcine (fascine) erano destinate "alli cocipani" (i forni). Del castagno si adoperavano anche le foglie che rendevano più soffice il giaciglio degli animali ed in alcuni casi il misero letto di molte famiglie contadine. Il tannino, sostanza presente in alto contenuto nella pianta, veniva impiegato per la concia delle pelli; grazie alla sua forte attività astringente era indicato per i bambini affetti da tosse asinina e per i vecchi colpiti da tosse catarrosa: Per quanto riguarda il prezioso frutto c’è da dire che spesso volte rappresentava l’unica risorsa alimentare utilizzabile, per cui le misere condizioni economiche spinsero i contadini a sviluppare molte tecniche di conservazione capaci di assicurare sia la freschezza che la genuinità del prodotto nonché una sicura ed abbondante dispensa per i lunghi e freddi mesi invernali. Le castagne trasformate in "pistilli" (castagne indurite e sbucciate) oltre ad avere una buona richiesta sul mercato avevano largo impiego nell’alimentazione. Dalla farina si ricavava: "’u pane castagnizzu", saporito e molto nutriente che ha sfamato generazioni intere di montanari, prelibati e gustosissimi dolci e buonissime frittelle impastate con acqua e sale. Le castagne fresche si consumavano: bollite "vallani" dalle quali con l’aggiunta di altri ingredienti, si otteneva la famosa marmellata; arrostite "ruselle" oppure infornate; le castagne "’nfurnate" consumate anche bollite prendevano il nome di "vecchiarelle". Tra le tecniche di conservazione, diffusissima quella delle "castagne all’acqua": si lasciava il frutto immerso nell’acqua rinnovata ogni 24 ore per otto o nove giorni consecutivi; dopo tale periodo, le castagne venivano scolate e fatte asciugare al sole per altri tre giorni e conservate in un vaso ricoperto di stracci di lana; in questo modo si mantenevano fresche e genuine come il primo giorno di raccolta. Nella cultura popolare le castagne erano considerate il cibo dei poveri, il solo "pane e cumpane" della giornata, perciò "’u mise de castagnatura" rappresentava uno dei periodi dell’anno più importanti per la famiglia contadina e rinunciarvi avrebbe inciso in modo alquanto negativo sul già scarso reddito familiare. A fine Agosto, i castagnari (coloro i quali raccoglievano le castagne), si rivolgevano "alli patruni" per prendere "a terzu" il castagneto (una parte delle castagne raccolte andava al castagnaro e le due parti restanti spettavano al proprietario), stabilendo verbalmente l’accordo. La regola vigente era quella di sfruttare al massimo la manodopera con ricatti e pretesti di varia natura. Anni addietro a Rogliano, in occasione dei festeggiamenti dell’Immacolata Concezione, i proprietari dei castagneti pretendevano "’u terzu da Mmacuata", un’ulteriore terza parte della quantità spettante "allu castagnaru" che sarebbe servita a coprire le spese dei festeggiamenti in onore della Santa patrona.Una pretesa assurda tipica del peggior feudalesimo! Ma da che mondo e mondo il padrone ha sempre esercitato una costante sottomissione nei confronti dei sudditi pretendendo obbedienza e rispetto sino alla mortificazione. Ma come si sa "’u bisognu" era tanto ed il ribellarsi dinanzi alle assurde pretese del padrone avrebbe compromesso la già difficile contrattazione. A fine Agosto inizi di Settembre il bosco era "annettatu" (pulito) e pronto per la raccolta: infatti nell’ultima decacde di Settembre il prelibato frutto inizia a cadere. Recita un vecchio detto locale: "A Santa Liberata ‘e castagne su cascuate"; la tradizione vuole che durante i festeggiamenti in onore della Santa, le castagne cadino già in abbondanza. Per gli antichi sentieri vi era un via vai di gente che di buon ora si recava nei boschi; si raccoglieva dalla mattina a sera inoltrata, un lavoro duro e faticoso "mise ‘e vallani, mise ‘e guallare reso ancor più duro dalle prime ed inesistenti pioggie autunnali. Uomini e donne, giovani ed anziani muniti di "jiritali" (ditali di cuoio infilati nelle dita per evitare i pungenti aculei) facevano a gara nella raccolta. Le castagne venivano poi sistemate nei sacchi dal "caputerzu" (uomo di notevole esperienza, buon conoscitore del castagneto che coordinava il duro lavoro dei castagnari) e trasportate da muli nelle caselle dove avveniva la fase della "pilatura", operazione piuttosto delicata, di competenza del "capu casella" dal quale dipendeva in gran parte l’andamento della lavorazione. Le castagne venivano poggiate e sparse sul "cannizzu" ricavato con listelli di castagno inchiodati su assi e distanti quel poco che basta per impedire alle castagne di cadere e alla fiamma del fuoco di raggiungerle.Da non dimenticare la presenza "du lignaru" colui il quale si preoccupava di raccogliere la legna che sarebbe servita ad alimentare il fuoco durante la "pilatura". Il fuoco, acceso sul pavimento in terra battuta, sotto "’u cannizzu", era costantemente ravvivato; per impedire che il calore eccessivo rovinasse le castagne, esse venivano coperte con il "purpitu" (le bucce secche delle castagne messe da parte l’anno prima durante la "zocculiatura") che manteneva la fiamma molto lenta ma nello stesso tempo bruciando emanava un fumo che dava un sapore particolare. Ogni due o tre giorni le castagne venivano mescolate con la pala dal "capu casella" per evitare che si bruciassero. Il lavoro di "pilatura" durava circa venti giorni dopodichè si passava alla fase successiva, quella della "zocculiatura". Le castagne ancora calde venivano sistemate in uno "scifu" (recipiente rettangolare di legno) dove venivano pestate (avendo cura di calzare un paio di "zocculi") per lavarne la buccia ed il "lippu" (buccia che riveste interiormente la castagna).Nella cultura popolare la castagna indurita e sbucciata prende il nome di "pistillu" o "pastillu". Scrive Luigi Accattatis nel suo Vocabolario del dialetto calabrese: "…si dice pastillu perché le tiglie si pestano nelle pile o truogoli di legno per mondarle dalla buccia e dalla sansa". I "pistilli" venivano poi "quartariati" (separati) mediante la "quartara" (cesta rettangolare) per liberarli da ulteriori residui ("frisui"). Si passava poi alla fase finale, quella della scelta accurata dei "pistilli". I meno buoni si scartavano e si davano in pasto ai maiali altri molli e non cotti ("tartagliuni") si infilavano con ago e filo a formare saporitissimi "filari" che spesso i giovani nei dì di festa regalavano alle fanciulle in segno di amicizia e non solo…!Quanto descritto appartiene al passato, un passato lontano di cui oggi ci rimane un vago ricordo. Negli anni Cinquanta infatti, in pieno boom economico si assiste ad una crisi profonda del mondo rurale con conseguente spopolamento delle campagne ed un pesante decadimento della produzione castanicola. Ad aggravare ancor di più la situazione è il verificarsi di alcune manifestazioni patologiche dovute alla presenza di virus parassitari che colpiscono la pianta determinando la distruzione della maggior parte dei castagneti. Il parassita di gran lunga più pericoloso e più grave è la Phytophthora Cambivora, causa del mal dell’inchiostro, che si manifesta con l’ingiallimento ed il disseccamento delle foglie e poi dei rami. Un’altra malattia assai pericolosa e che dà gravi preoccupazioni, è il cancro della corteccia (Endothia parasitica), un fungo che attacca castagni di tutte le età e determina l’essiccamento delle parti colpite e quindi la morte della pianta. Negli ultimi anni intorno al castagno si è ricreato un certo interesse che va al di là della stessa fonte alimentare e di riserva legnosa ma in direzione di una risorsa economica da non sottovalutare e quindi da sfruttare. Da pane dei poveri, oggi la castagna può e deve rappresentare un punto di riferimento per lo sviluppo economico della nostra zona.Apprezzabilissima in questo senso l’iniziativa della Comunità Montana che ha predisposto una serie di interventi che mirano al risanamento ed a un fattivo rilancio della castanicoltura nella valle del Savuto. Questo è un primo passo importante che va seguito ed incoraggiato e che sia uno stimolo per molti castanicoltori locali per una ripresa costante della vecchia attività ed una riscoperta del nobile frutto, tanto apprezzato e richiesto dai mercati del Nord Italia e che ha rappresentato per decenni una fonte di reddito non indifferente per molte famiglie calabresi.
Fiore Sansalone