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Massimo Lattanzi

Il canto gregoriano non è canto:
appunti per un paradosso

 

Il canto gregoriano non è gregoriano: che l’attribuzione delle melodie a Gregorio Magno sia storicamente infondata è un dato da tempo accertato ed universalmente riconosciuto. Non altrettanto evidente è che il canto gregoriano non è nemmeno, principalmente e per sua natura, canto. Il paradosso va inteso nel senso che poco o nulla a che fare ha il gregoriano con il fenomeno musicale quale oggi noi lo intendiamo. L’esigenza profonda che determina la sua creazione è innanzitutto la proclamazione solenne, durante l’azione liturgica, del testo sacro. Si tratta di una proclamazione solenne, appunto, densa di sottolineature, frutto della meditazione del testo stesso attraverso la sua incessante ruminatio e nella venerazione di ogni parola: verbum Domini.

Dunque, tra le arti, si ricorrerà all’oratoria e, prima ancora, alla retorica, non tanto alla musica, per individuare con certezza l’essenza del gregoriano. Se di canto, poi, si vuole comunque parlare, è bene avere presenti i riferimenti classici – sottolineati già da Paolo Ferretti nella sua Estetica gregoriana1– a quel canto obscurior che Cicerone osservava nel gioco degli accenti grammaticali, o all’imago del canto musicale vero e proprio individuata da Varrone nella pronuntiatio del testo; o ancora ricordare l’affermazione di Dionigi di Alicarnasso secondo cui gli oratori potevano coprire, parlando, addirittura l’intervallo di quinta nei momenti di maggior calore. In sintesi, canto come amplificazione sonora di un testo, non semplicemente “detto”, ma “proclamato”.

Non a caso, fin dalla prima restaurazione gregoriana, la terminologia per la classificazione e l’analisi delle strutture del canto gregoriano – le formule – venne ripresa dalla filologia: si riconosceva, così, che le modificazioni subite dalle parole presentano analogie sostanziali con le modifiche cui è soggetta la formula gregoriana. Le categorie e gli strumenti di analisi del testo, in genere, danno ragione del canto gregoriano e di ciò che ne determina l’essenza più di qualsiasi analisi musicale.

In questa luce vogliamo considerare una cosiddetta formula di intonazione: essa può adattarsi a testi differenti perché non costituisce la veste musicale di un determinato testo, essendo piuttosto la prima significativa elevazione della voce nella proclamazione solenne di un testo2.

Prendiamo allora, come esempio, la nota formula iniziale di un timbro delle antifone di primo modo. Decine di antifone iniziano con questa formula*

Si tratta evidentemente della medesima formula che, come è noto, può assumere la forma spondaica o la forma dattilica: quando l’ultima parola della formula è un parossitono (es. la: méus), l’accento porta il pes quadrato fa-la, se invece è un proparossitono (es. 1b: Dómino) l’accento è sul fa, mentre la sillaba post tonica porta il pes sol-la. A parte queste considerazioni, già tuttavia legate alla parola, bisogna considerare un fatto: in determinate antifone la comparsa della melodia che caratterizza questa formula, viene ritardata ovvero non coincide con l’inizio dell’antifona, ma compare dopo l’incipit:

Era possibile un’intonazione di questo tipo, ipotetica, conformemente al modello riportato nel’es.1:

L’intonazione del tipo appena ipotizzato sarebbe stata la più ovvia se il compositore avesse avuto presente un principio musicale generico, cioè se l’inizio dell’antifona avesse dovuto coincidere comunque con la costruzione di un arco melodico. La scelta del compositore gregoriano qui è diversa: quella che si definisce formula di intonazione viene fatta precedere da un breve recitativo su re e compare soltanto sulla parola desideratus. Se un puro criterio musicale avesse guidato il compositore, lo ripetiamo, nulla vietava di iniziare nel modo ipotizzato all’es. 3. Ma la vera natura di quella formula non è di intonazione musicale: si tratta invece, come si diceva, di quello che nella proclamazione del testo costituirebbe la prima elevazione significativa della voce, un’elevazione che non può avvenire se non su un termine che la richieda e la giustifichi quale, in questo caso, desideratus. Come avverrebbe nella proclamazione parlata del testo, anche la proclamazione cantata inizia a voce sommessa, si eleva, appunto, sulla parola desideratus per tendersi sull’aggettivo cunctis e deporsi infine su gentibus: “Ecco verrà colui che è desiderato da tutte le genti”. Bisogna aggiungere che l’inizio dell’antifona nel modo ipotizzato all’es. 3 avrebbe potuto essere giustificato qualora si fosse voluto mettere in evidenza il termine veniet (ad esempio come accade nel testo di un communio dell’Avvento: “Ecce Dominus veniet”, GT 26,5); tuttavia in questa antifona dell’Avvento la composizione vuole sottolineare più che la venuta in sé – veniet – l’universalità dell’attesa del Redentore: desideratus cunctis gentibus. L’adozione di tecniche oratorie in canto dà modo al compositore di porre in luce di un medesimo testo ora un aspetto ora l’altro: la ripetizione di un testo o di testi analoghi in diversi canti consente così la vera ruminatio, parola per parola, del testo stesso.

Un altro esempio di quanto abbiamo appena osservato è in questa antifona:

Il testo, sostanzialmente evangelico, si presenta assai articolato: certamente assume un’intensità particolare per la spiritualità monastica, se è vero che l’ideale del deserto e la pratica del digiuno rappresentano uno dei tratti più tipici del monachesimo e segnatamente del monachesimo medievale. I monaci sono radicali seguaci di Gesù che “lo Spirito sospinse nel deserto” dove fu “tentato da Satana” (Mc 1,12-13)3.

Anche in questo caso l’antifona non inizia nel modo consueto (ess. 1a, 1b). Come nell’esempio 2, l’avvio è un recitativo che per il canto è l’equivalente, in questo caso, di una pronuncia sommessa, ma densa di tensione; questa tensione è verso l’espressione “a Spiritu” cui la recitazione si indirizza, interrotta solo da una breve esitazione per sottolineare il termine “desertum”. Il melisma su “Spiritu” è, per dimensioni e peso melodico, insolito in un’antifona sillabica e vale ad enfatizzare l’azione dello Spirito nella chiamata di Cristo e nella vocazione dei suoi seguaci nel deserto. Dopo questa preparazione anomala, ma ben giustificata, come si è visto, dall’adeguata pronuntiatio del testo, la voce si innalza in modo simile alla nota formula di intonazione (ut tentaretur). Ma è solo in corrispondenza dell’azione del digiuno (et cum ieiunasset) che si ha la formula stessa e con essa la prima vera elevazione del tono oratorio. Questa volta il gesto retorico che abbiamo voluto individuare in quella cosiddetta formula di intonazione è il mezzo che il compositore usa per dare il massimo rilievo al digiuno di Cristo. E’ una vera esortazione al digiuno che viene attuata con questa sottolineatura, il cui motivo si comprende, ancora una volta, soprattutto considerando il tempo liturgico proprio di questa antifona. Si tratta di una antifona della prima domenica di Quaresima e il digiuno fu sempre considerato come la pratica caratteristica del tempo quaresimale tanto che tutte le formule liturgiche proprie di questo tempo ne fanno menzione per encomiarlo e raccomandarlo (Righetti)4. Ecco il motivo per cui solo a questo punto il compositore vuole che il testo riceva, nel canto, l’enfasi riservata solitamente all’inizio dell’antifona.

Un ultimo esempio concluderà la breve indagine all’interno di questo timbro modale, cercando di mostrare ancora che se il più delle volte l’antifona inizia con una determinata formula, non è per un principio musicale astratto, ossia perché la composizione musicale deve iniziare con quell’incipit; è invece perché nella mag­gioranza dei casi, il testo dell’antifona richiede subito quell’elevazione oratoria, come l’abbiamo definita, che pertanto ricorre all’inizio delle antifone stesse. Tuttavia, proprio perché non si tratta di un incipit musicale obbligato, ma della prima sottolineatura del testo, ossia della conduzione al primo accento logico, il compositore non vi assoggetta indiscriminatamente qualsiasi testo, cioè non fa ricorso a quel modulo se il testo iniziale dell’antifona non richiede quella sottolineatura.

Anche qui, dunque, l’inizio è insolito: solo conoscendo il valore della consueta formula iniziale si può valutare adeguatamente il modo in cui è stato composto il vocativo “Deus, Deus meus”.

Non è possibile, qui, in rapporto al testo, un inizio del tipo:

Ne sarebbe derivato un tono fortemente accentuativo, proprio appunto dell’elevazione oratoria che ormai è nota, un tono cioè che esula da questa fiduciosa invocazione a Dio, posta quasi separatamente da tutto quanto segue: il doppio episema che Hartker pone su meus chiude questo vocativo e lo isola dal testo seguente. La discesa melodica fa-mi-re (Deus meus) potrebbe costituire una chiusa completa e di fatto costituisce la finale dell’antifona e, in genere, di questo timbro antifonico.

A questo punto, in corrispondenza di ad te de sembra prendere avvio la nota formula, ma, in modo del tutto inatteso, la formula sfocia - su luce - in un innalzamento melodico insolito (cfr H. 138, 11; 142,9). Anche i neumi confermano che a questo punto avviene qualcosa di irregolare: il pes quadrato porta altius in corrispondenza della prima nota ad avvertire che non si tratta della consueta formula in cui il pes quadrato in Hartker porta spesso altius (o sursum) sulla seconda nota per indicare l’intervallo di terza fa-la. Dunque:

Il rilievo che deriva all’espressione “ad te de luce” (“per te fin dall’aurora”) da questo innalzamento melodico della consueta formula è evidente. La melodia degrada poi in un ampio melisma che articola la parola vigilo e con essa tutta la frase principale; anche questo melisma, tuttavia, non è “musica”, ma distensione dell’apice oratorio appena toccato e simbolo sonoro di intensa meditazione: Dio, Dio mio fin dall’aurora per te veglio.

Due coppie di esempi, tratte dai canti della Messa, mostreranno la stessa tecnica che abbiamo riconosciuto nell’uso della formula antifonale esaminata fin qui:

Questi due esempi provengono dalla stessa Messa della prima domenica di Avvento: si tratta rispettivamente dell’introito e del graduale. La formula con cui attacca l’introito Ad te levavi è la stessa che troviamo nel graduale su qui te expectant (la melodia è stata corretta). Il motivo è chiaro: il compositore mira, nel graduale, a dare due differenti sottolineature, l’una al soggetto della frase principale (Universi), l’altra al verbo della frase relativa (expectant). La parola Universi porta il peso di un melisma che solo un canto di meditazione quale è il graduale può presentare: è qui pienamente sottolineata, si direbbe, la cattolicità dell’Avvento. La formula di intonazione che si è appena udita nell’introito, serve invece a riprendere con scioltezza la proclamazione del testo conducendo la voce al primo accento logico, expectant, dopo la vera pausa di meditazione creata sulla parola Universi.

La seconda coppia di esempi è tratta da due brani che si susseguono nella liturgia del Tempo di Natale: l’introito della Messa del giorno di Natale e il communio della Messa di santo Stefano. La nota formula di intonazione, assai ricorrente nel repertorio, specie nel Tetrardus, viene usata nel communio, ancora una volta, soltanto alquanto dopo l’incipit vero e proprio per sottolineare, qui, l’accento che deve ricevere il maggior rilievo all’interno del testo del communio stesso; sono le parole di Stefano che, mentre subisce il martirio, invoca con le stesse parole di Cristo sulla croce il perdono del peccato dei suoi carnefici (Accipe spiritum meum et ne statuas illis hoc peccatum quia nesciunt quid faciunt, At 7, 60; cfr Lc 23, 34). L’invocazione può dunque ben essere espressa attraverso quella formula più spesso riservata al grande accento iniziale. Ma non è un caso - pur trattandosi, come si è detto, di una formula ricorrente nel repertorio - che Puer natus e Domine Iesu ricevano una formula pressochè identica. Nell’ universo simbolico dei richiami formulari gregoriani il compositore pare sfruttare la vicinanza liturgica delle due feste per far risuonare, nelle parole di Stefano, l’invocazione al Puer natus. Con l’attenzione meticolosa del miniaturista medievale il compositore colora allo stesso modo le due espressioni in modo che anche per noi, che non possediamo più quei canti grazie alla sola memoria, come fu per i cantori dell’epoca, è impossibile cantando il communio di santo Stefano non sentire un’eco, a questo punto, della Messa di Natale celebrata il giorno precedente.

Se fino ad ora abbiamo considerato un aspetto strutturale, lasciando volutamente in ombra le grafie neumatiche, un’altra nota formula darà modo di proseguire la riflessione con riferimento diretto ai neumi stessi.

Si tratta di un contesto tipico per passaggi sillabici fluidi, scorrevoli: lo stesso tipo formulare può trovarsi distribuito su tre sillabe (es. 10a, clivis seguita da due neumi monosonici) o su quattro sillabe (es. 10b,quattro neumi monosonici). Il senso di questa scorrevolezza è dare rilevo ad un accento, anche logico, conducendo rapidamente la voce a sottolineare l’accento stesso. Un esempio per tutti:

I sangallesi non sempre aggiungono celeriter; Laon costantemente usa il punctum per le due sillabe che seguono la clivis e che precedono immediatamente l’accento. E’ lecito chiedersi, nel caso che un manoscritto sangallese del valore del Cantatorium o di Einsiedeln tralasci il celeriter, se l’assenza sia intenzionale, così come all’opposto si potrebbe dubitare che Laon con l’uso costante dei punti incorra in una sistematizzazione5; ma osserviamo questo caso:

Perché due uncini in corrispondenza di “misericordiam”? Il tipo formulare, si direbbe, è chiaro: non si tratta forse del consueto passaggio sillabico scorrevole? Ma anche Einsiedeln tralascia il celeriter.

Questo esempio suggerisce ancora una spiegazione che non ha nulla a che fare con la melodia dello schema formulare: il rivestimento sonoro del testo, anche se tratto dal tesoro formulare, rifugge da ogni schema per modellarsi solo sulle esigenze del testo stesso quali vengono rivelate dalle più antiche testimonianze manoscritte. La prima esigenza è di materiale comprensibilità: una parola composta come misericordia (se ne ricordi anche la pseudo etimologia da miser e cor) richiede una accurata pronuncia delle sillabe atone poste fra l’accento secondario e l’accento principale. Un’altra esigenza più profonda viene, però, sottolineata attraverso il rilievo conferito a questa parola. L’introito da cui è tratto l’esempio è proprio della festa della Presentazione di Gesù al Tempio, antichissima commemorazione liturgica dell’episodio evangelico secondo il quale, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, Maria si presentò al Tempio al venerabile vegliardo Simeone che riconobbe nel bambino il Messia (Lc 2,22-35). La scelta del versetto del salmo 47: “Abbiamo ricevuto o Dio la tua misericordia in mezzo al tuo Tempio”, come testo dell’introito, per aprire dunque questa celebrazione, ha riferimento diretto all’episodio che la liturgia commemora. I Padri ci rendono sicuri di questa affermazione quando commentano esplicitamente: “La misericordia è il Cristo”6. La bella immagine che si trova a questo punto in molti manoscritti, ad esempio del manoscritto Angelica 123:

non è una rappresentazione devozionale generica di questa festa, un”’immaginetta”, ma è la traduzione visiva, figurativa, della comprensione cristologica che si aveva di questo versetto, comprensione che ne determinò questo uso liturgico. Solo così si capisce perché nella festa in cui si commemora Simeone che riceve nel Tempio Gesù, l’introito canti con il salmo 47: “Abbiamo ricevuto, o Dio, la tua misericordia in mezzo al tuo Tempio”. Anche il compositore gregoriano aveva questa idea, in linea con la meditazione patristica: tutta la composizione di questa frase vuole sottolineare l’espressione misericordiam tuam. Dal punto di vita della neumatica anche il torculus di articolazione verbale sul vocativo Deus è assai eloquente, nella sua funzione riconosciuta7 di creare l’apertura espressiva per il termine seguente. Il contesto liturgico è in questo caso davvero illuminante e rivelatore degli echi che il testo sacro possedeva per chi ha posto mano a queste composizioni e per chi le ha notate con tali finezze preziose.

E in altri due casi ancora la parola misericordia riceve le stesse attenzioni:

Il contesto formulare è il medesimo. In Laon osserviamo nuovamente il rifiuto di una connessione meccanica tra la melodia e il ritmo, da una parte, e il testo dall’altra: su “misericordia” sono scritti due uncini, non due punti. Sono due versetti dell’alleluia del Tempo Pasquale: il primo, anzi, è proprio il versetto dell’alleluia della Veglia Pasquale, la ripresa di questo canto dopo il Tempo di Quaresima. Il testo è il medesimo in entrambi i casi, ossia l’inizio del salmo 117, salmo pasquale per eccellenza; nei suoi primi quattro versetti la parola “misericordia” risuona quattro volte, come un ritornello:

“Confitemini Domino, quoniam bonus, quoniam in saeculum misericordia eius.

Dicat nunc Israel quoniam bonus, quoniam in saeculum misericordia eius.

Dicat nunc domus Aaron, quoniam in saeculum misericordia eius.

Dicant nunc qui timent Dominum, quoniam in saeculum misericordia eius”.

La composizione della frase intera mostra anche qui, in entrambi i casi, l’intento chiaro di conferire alla parola “misericordia” un ruolo centrale attraverso il ben noto mezzo, proprio della tecnica compositiva gregoriana, di articolare il fraseggio sulla parola immediatamente precedente il termine-chiave. Come già nell’introito Suscepimus, un indugiare carico di tensione viene qui ottenuto in entrambi i casi sulla parola precedente (“saeculum”) con un neuma di cadenza (nel secondo alleluia con uno dei neumi cadenzali per eccellenza, lo scandicus subbipunctis resupinus seguito da clivis non corsiva). Meglio sarebbe parlare di una falsa cadenza - se ancora si vuole proprio ricorrere ad un termine musicale - perchè qui in nessun modo si può parlare di conclusione, ma di tranquilla apertura oratoria all’accento logico: “quoniam in saeculum misericordia eius”.

Un manoscritto sangallese non dei migliori - il 376 della Biblioteca Capitolare di San Gallo - contiene tuttavia a questo punto un particolare prezioso (nel caso del versetto dell’alleluia della Veglia Pasquale):

Il tenete conferma che la tendenza, a questo punto, sarebbe quella di un contesto proclitico: ma, in linea con la migliore tradizione manoscritta, il codice 376 vuole evitare che su questa parola tanto densa si scorra inavvertitamente. Il rifiuto di Laon di scrivere, come ci si aspetterebbe in questi casi, due punti, la voluta assenza del celeriter e, addirittura, il tenete appena osservato, sono un segno della attenzione minuziosa, o meglio della venerazione, che si portava al testo sacro, del quale nemmeno una sillaba si poteva trascurare.

A questo punto, bisogna aggiungere che anche la proclamazione solenne del testo si rivela una spiegazione non sempre adeguata dei motivi profondi che muovono l’amanuense: proprio perchè essa si esaurisce nell’esecuzione, ovvero in tecniche compositive che hanno come fine la pronuntiatio del testo nel canto. Se l’intento del compositore o del neumista, che della composizione vuole offrire l’immagine fedele, fosse solo di fornire indicazioni per l’esecuzione del canto, queste indicazioni infinitesimali, sarebbero sproporzionate allo scopo.

Dalla proclamazione si deve allora risalire a ciò che conduce alla proclamazione stessa, determinandola, pur senza confondersi con questa: l’esegesi. Il canto gregoria­no e la sua stesura attraverso la neumatica appaiono, così, quasi il parallelo delle glosse medievali ai testi sacri: come quelle annotazioni a margine spesso si concentrano su di un termine solo, nella fede che non di parola umana si tratta, così le grafie neumatiche esprimono un’arte che vuole illuminare ogni parte del testo sacro con adeguata luce. Non diversamente ancora dai Padri, che scrivono pagine sopra un solo versetto di un salmo, l’amanuense spesso sovraccarica una sola parola o addirittura poche sillabe di segni: neumi, lettere, indicazioni aggiuntive si affollano, nei codici migliori, in pochi millimetri di pergamena, non certo per orientare un’interpretazione musicale - l’atto dell’esecuzione di quelle sillabe svanisce in una frazione di secondo - ma quasi ad ammonire che quella è una sillaba di una parola sacra, di particolare pregnanza.

La conoscenza della patristica, della liturgia, dei paralleli dell’arte figurativa - anche questa, infatti, nasce dal testo sacro e per esso - in sintesi del mondo di cultura e di fede proprio dell’epoca nella quale, presumibilmente, i canti vennero concepiti, sviluppati e notati, stanno dando e daranno sempre maggior spessore agli studi: essi talvolta rischiano infatti di confondere il mezzo con il fine, considerando, appunto, del canto gregoriano, l’aspetto sonoro, interpretativo, ossia in una parola l’aspetto musicale come decisivo e definitivo. Non si osserva una cattedrale come si osserva una villa, anche se entrambe sono un prodotto della tecnica architettonica; non si esegue, non si ascolta nè si studia il canto gregoriano come una pagina di musica. Nelle cattedrali l’architettura si fa teologia, nel canto gregoriano i suoni sono proclamazione ed esegesi del testo sacro.

NOTE

1 P. FERRETTI, Estetica gregoriana, Roma 1934. pp. 13-14. ^

2 E’ necessario, attraverso l’analisi del repertorio, conoscere le possibilità che astrattamente sono a disposizione del compositore, nel tesoro formulare, per poter così apprezzare scelte differenti o la scelta di una soluzione formulare che si discosta dall’uso più consueto. A questo proposito assai utile:
X. KAINZBAUER, Der tractus Tetrardus, Eine centologische Untersuchung, ”Beiträge zur Gregorianik” VII (1991/11).
^

3 I. GOBRY, Storia del monachesimo, Roma 1991,1, p. 28ss. ^

4 M. RIGHETTI, Storia liturgica, Milano 1950, p. 111. L’antifona in esame è seguita immediatamente nel codice di Hartker da un’altra antifona in tutto simile per testo e melodia: “Iesus autem, cum ieiunasset quadraginta diebus et quadraginta noctibus, postea esuriit” (H 146,8). Questa seconda antifona è la forma breve, per così dire, della prima: di essa conserva e riprende, ribadendolo, il nucleo centrale relativo al digiuno. ^

5 G. JOPPICH, Die rhetorische Komponente in der Notation des Codex 121 von Einsiedeln, in Codex 121 Einsiedeln, Kommentar zum Faksimile, herausgegeben von Odo Lang Weinheim 1991, pp. 146-158. ^

6 I Padri commentano il Salterio della Tradizione, a cura di dom J. C. NESMY, Torino 1983, pp. 214-127. ^

7 G. JOPPICH, Der torculus specialis alt Interpunktionsneume,”Beiträge zur Gregorianik” II (1986/2) pp. 74-113. ^

* Nel presente articolo vengono usate le seguenti sigle:
A - Cod. Roma, Bibl.
Angelica 123, sec. XI primo terzo, Graduale tropatum (Pal. Mus. 1/18).
AM -Antiphonale monasticum, Tournai 1934.
GT - Graduale Triplex, Solesmes 1979.
C - Cod. St. Gallen, Stiftsbibl. 359, sec. X in.; Cantatorium (Pal. Mus. II/2e) Monumenta Paleografica Gregoriana III, Mtinsterschwarzach 1987.
E - Cod. Einsiedeln, Stiftsbibl. 121, sec. X seconda metà, Graduale (Pal. Mus. I/4).
H - Cod. St. Gallen, Stiftsbibl. 390-391, a. 986-1011, Antiphonale Officii, scritto dal monaco Hartker (Pal. Mus. 11/1 e Mon. Pal. Greg. IV, 1988)
L - Cod. Laon, Bibl. Municipale 239, circa a. 930, Graduale (Pal. Mus. I/10). SG Cod. St. Gallen, Stiftsbibl. 376, sec. XI, Graduale.
SG - Cod. St. Gallen, Stiftsbibl. 376, sec. XI, Graduale.
^

 

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