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ACTUOSA PARTICIPATIO:

DAL “FARE” NELL’AZIONE LITURGICA AD UNA QUESTIONE TEOLOGICA

 

Actuosa participatio è un'espressione che immediatamente rimanda ad un contesto liturgico e sembra essere il "ritornello responsoriale" di una certa pastorale del post-concilio Vaticano II. Nella prassi liturgica post-conciliare, si ha l'impressione che, in forza del giusto "calare la Liturgia nella vita" e del renderla accessibile al popolo, si è giunti - disattendendo le preziose linee tracciate dall'enciclica Mediator Dei-, a far coincidere la partecipazione attiva con quella esterna, illudendosi che "tecniche di animazione" risolvano lo storico problema della partecipazione del popolo all'azione liturgica.

Ma la capacità dell'uomo di partecipare alla vita divina, e quindi la modalità con la quale avviene questa partecipazione, si pone innanzitutto come un problema squisitamente teologico e non pastorale in quanto tocca la questione centrale dell'evento cristiano nella sua valenza salvifica, ed esso affonda le sue radici nell'impianto filosofico assunto come principio ermeneutico in forza del quale si interpretano i dati della Rivelazione.

            All'interno della storia il contatto tra l'umano e il divino è avvenuto nella persona di Cristo che ha rivelato e realizzato nel Mistero Pasquale il disegno salvifico del Padre. La Chiesa continua nello spazio e nel tempo ciò che Cristo ha fatto una volta per sempre: così, attraverso la liturgia, continua oggi ad attuarsi, nella certezza di segni sensibili che realizzano ciò che significano, la partecipazione dell'uomo alla vita divina. L'azione liturgica è quindi il luogo dove in modo esplicito si realizza nella storia il contatto salvifico tra Dio e l'uomo ed, è proprio il contesto liturgico che vede nascere all'inizio del XX secolo l'espressione actuosa, che definisce una precisa modalità partecipativa dei fedeli al culto della Chiesa

La liturgia codifica storicamente nel segno il vivere e il credere della Chiesa Il ritrovare allora in un contesto liturgico l'espressione actuosa participatio significa che questa presuppone un lungo cammino di comprensione ecclesiale.

 

1.      UN PO’ DI STORIA CIRCA ACTUOSA PARTICIPATIO

 

In modo sintetico, partendo dal nominalismo, orizzonte culturale nel quale germina il pensiero luterano, cercheremo di cogliere il "filo rosso" nel quale si è mossa la comprensione ecclesiale della participatio.

 

1.1. Dal Nominalismo, attraverso Lutero, al Concilio di Trento

 

Il secolo XIV pare essere la fucina di tutti i germi dai quali nascerà il mondo moderno. Il panorama offerto dalla storia a prima vista sembra disorientare: nel conflitto tra platonismo e aristotelismo gli occamisti forgiano la via moderna, Boccaccio e Petrarca annunciano Erasmo e Vives, Wyclif e Hus preparano Lutero e la chiesa è dilaniata dal grande scisma d'occidente.

La realtà storico-culturale che precede Lutero spicca immediatamente per la "questione ecclesiologica" dove è messa in crisi l'identità della Chiesa. Dalla ierocrazia papale della bolla Unam Sanctam di Bonifacio VIII si innesca una reazione che passa per Marsilio da Padova, Guglielmo d'Ockham, John Wyclif, Jan Hus per poi giungere a trovare unità e coerenza teologica in Lutero. Un certo tipo di lettura sarebbe tentato di localizzare la causa di questa crisi in una semplice azione reattiva mossa da questioni politiche. Esiste invece un livello, che è quello filosofico-teologico, dove si gioca ciò che appare all'esterno, livello spesso difficile da cogliere perché oscurato da clamorose manifestazioni storiche, intrecci politici, bolle di scomunica… Occorre riflettere sul fatto che le prese di posizione a livello ecclesiologico, se da un lato possono considerarsi "ovvie" in un clima socio-politico ierocratico, dall'altro sottendono una precisa scelta filosofica che conduce ad una  puntuale collocazione teologica.

Quando si parla, nel XIII secolo, di sintesi tra filosofia e teologia, la filosofia alla quale si fa riferimento è precisamente quella aristotelica che rappresenta insieme la grande novità e il grande scandalo del tardo medioevo. Infatti il modello di ragione che gli autori della seconda metà del 1200 hanno presente quando elaborano le loro teorie, è quello "forte" proprio di Aristotele secondo il quale è possibile rendere conto esaustivamente della complessità del reale sulla base di procedimenti euristici di tipo deduttivo. La rottura della sintesi tra filosofia e teologia propria del XIV secolo - rottura che conduce immediatamente alla separazione tra ragione e fede - ha come origine proprio il rifiuto dell'aristotelismo nel tentativo di elaborare una nuova visione del mondo e una diversa concezione della ragione che non fosse più quella "aristotelica" L'inizio di questo processo, nei suoi autori principali, Scoto e Ockham, è di natura teologica nel tentativo di salvaguardare le esigenze del sacro contro l'invadenza della ragione, e ciò che si critica all'aristotelismo è la tendenza a dar forma ad un'immagine di Dio che deriva dalla filosofia e non dalla scrittura, ed ad adattare ad essa, in un secondo momento, i dati della rivelazione. Proprio di qui deriva l'insistenza sull'assoluta libertà della volontà divina che non può essere sottomessa all'intelletto, e sul potere di Dio e la totale contingenza delle leggi della natura. Ockham, andando oltre Scoto che si era limitato a modificare sensibilmente il paradigma aristotelico senza però mettere in discussione il modello di ragione, giunge a sostituire tale modello con uno radicalmente differente, più "debole" e dunque inoffensivo per le verità della fede, asserendo l'impossibilità di fornire un'immagine univoca e onnicomprensiva del reale e di arrivare a snodare la natura dell'anima di Dio. In sostanza l'antimetafisicismo dei nominalisti non è altro che l'accentuazione in campo filosofico dell'idea che in un mondo non ordinato non si può dar vita ad un modello completo di razionalità, ma ci si deve accontentare di elaborare regole di ragionevolezza, norme dalla validità limitata che rendono ragione solo di porzioni ben definite del reale. Assistiamo così alla rottura dell'equilibrio conquistato dalla grande Scolastica e cioè nella perdita dell'intrinseca unità dell'esistere dell'uomo.

Questa precisa collocazione filosofica ha immediatamente dei riflessi a livello teologico distruggendo il modello antropologico cristiano con il conseguente confinare l'uomo ad una totale e costitutiva passività. Sgretolato l'uomo nella sua ontologia e posta la sua sussistenza esclusivamente all'esterno di lui, subito e conseguentemente emergono in campo teologico le nozioni di "chiesa spirituale" e di "predestinazione" nozioni che minano in radice l'essere stesso della Chiesa come Corpo Mistico visibile (proprio di qui trae origine la "moralizzazione" dell'autorità gerarchica nella Chiesa. Abbandonato ogni si riferimento ontologico ad intra nell'uomo si genere la confusione tra "morale" ed "ontologico" cadendo nella tentazione di definire l'essere della Chiesa in relazione alla sua storica santità, come l'abilitazione al governo in relazione alla personale santità sgretolando in radice l'elemento costitutivo dello stesso essere Chiesa e avviandosi verso istanze democratico-populiste).

Nel muoversi storico-culturale di questo tempo assistiamo anche al sorgere dell'istanza dell'umanesimo che segna un vero distacco dalla cultura medioevale. Con questa nuova realtà culturale, l'uomo - che scopre se stesso e il suo mondo e si avverte come contrassegnato da spirito di libertà e da autonomia razionale - intende essere padrone della sua storia. Sostanzialmente, lungi dall'essere determinato dalla Chiesa o dalla società, l'uomo del rinascimento appare un principio attivo della storia, un valore in grado di determinare tutto ciò che lo circonda. L'umanesimo cristiano tenta una sintesi tra l'ispirazione evangelica, secondo la quale l'uomo vive della salvezza che ha da Dio, e la tesi umanistica che punta la sua attenzione sull'uomo e sui suoi valori. A questa sintesi si dedicarono uomini come Lorenzo Valla, Giovanni Reuchlin, Tommaso Moro, ma la punta di diamante di questo movimento fu però Erasmo da Rotterdam. In Erasmo lo sforzo di vivere secondo ragione, in opposizione ad ogni forma di barbarie che abbruttisce e distrugge l'uomo, si sposerà ad una religiosità universale che afferma vuoi che ogni verità viene da Dio vuoi che la rivelazione cristiana ne è il culmine. Da questa impostazione viene una valorizzazione dei compiti "civili" della religione che deve promuovere e valorizzare l'autonomia della ragione e la dignità della persona libera: nasce così una religiosità attenta alla volontà ed all'azione morale dell'uomo, guidate dalla presenza interiore di Dio, e nasce una lettura dell'esperienza cristiana ed ecclesiale che, ripiegata sull'inclinazione religiosa dell'uomo stesso, si fa disinteressata o addirittura critica verso gli aspetti istituzionale e autoritativi della chiesa stessa. Questo sentire prende il nome di devotio moderna la quale, come un torrente sotterraneo alle vicende luterane e al Concilio di Trento, sgorgherà ispirante e movente il rinnovamento spirituale della cultura barocca.

In questo periodo storico si conosce anche il permanere di una forte tradizione agostiniana. Più che il pensiero di Agostino, però, si tratta di una sintesi medioevale tra tomismo e agostinismo che assume come criterio il pensiero di Egidio Romano e che, attraverso Gregorio da Rimini, si mescolerà al nominalismo mantenendo e radicalizzando una linea di pessimismo: l'uomo, dominato dalla concupiscenza, appare segnato da una morbida qualitas, da una positiva inclinazione al male che non potrà mai essere del tutto rimossa in questa vita. E' a partire da queste idee, che si ispirano insieme alla tradizione agostiniana e platonica di una creatura inevitabilmente imperfetta, che anche Seripando vedrà la giustificazione presente nel credente come imperfetta, come una giustizia di opere bisognosa di essere completata. Il suo accento cadrà su una lettura esistenziale della grazia come partecipazione alla giustizia di Cristo in forza di un dono che le è dato: la vita di grazia del cristiano appare così tanto reale quanto insufficiente. Risiede proprio qui l'origine della tesi della doppia giustizia la quale affermerà che solo il definitivo incontro con Dio può veramente giustificare, operando così un pratico svilimento della grazia inerente che risente, probabilmente, delle tesi nominaliste circa l'insignificanza della grazia creata.

Lutero, intelligente erede del nominalismo ed agostinismo, costruisce un coerente e completo sistema teologico dove la salvezza è solo e soltanto totale actio Dei et passio hominis. L'uomo, ontologicamente marcio e corrotto, è radicalmente incapace di culto a Dio (infatti per Lutero non esiste, come per i cattolici, culto oggettivo. Il culto serve solo a collegare il soggetto al sacrificio di Cristo, offerto una volta per tutte, e che non si ripete più e , in qualche modo, il fedele deve cercare di unirsi il più possibile a questa realtà del passato. Sostanzialmente per Lutero il culto non è altro che un insegnamento organizzato). Non esiste quindi azione cultica mancando totalmente al riformatore una teologia capace di collocare positivamente nella storia il rapporto uomo-Dio. Risulta allora evidente il non poter parlare in Lutero di un reale participatio alla vita divina dove l'uomo è attivamente coinvolto. L'infinito iato tra creatura e Creatore è solo colmato da Dio e quindi,  tutte le realtà apparentemente positive della riforma liturgica luterana volte ad una esterna partecipazione del popolo (lingua viva, canto…), non hanno alcun valore dal punto di vista teologico-liturgico, ma si pongono solo meramente su un piano tecnico-pratico-didattico.

Il concilio di Trento si trova di fronte ad un problema primariamente di natura teologica più che disciplinare, problema che compromette l'essere stesso della Chiesa. E' necessaria la positiva ricomprensione del rapporto uomo-Dio da cui dipende la retta collocazione di tutta l'economia salvifica. Il concilio assolve questo delicato compito ricollegandosi alla precedente visione della grande Scolastica medioevale e, tramite essa, al patrimonio di fede della Tradizione della Chiesa. Contro la visione protestante della grazia extra nos, il concilio afferma una unità reale fra giustizia di Cristo e giustizia inerente riconducendo in fondo la seconda alla prima e cogliendo, al tempo stesso, questa come fondante una antropologia soprannaturale. Ciò che è decisivo in questa prospettiva è l'ispirazione di fondo che riconduce all'unità la creazione e la redenzione: su questo sfondo, il primato di Dio non è affermato separando la grazia divina dalla natura peccatrice - con il rischio del manicheismo - ma insistendo sul primato di Dio nella realtà storica di un uomo creato per la comunione con Dio e a questa efficacemente condotto, al di là della sua realtà di peccato. La giustizia inerente è l'espressione di una visione religiosa che coglie l'unità storico-salvifica di creazione e redenzione e che proclama il primato di Dio nell'ordine della grazia senza contrapporlo all'ordine della creazione. In questa visione l'ovvia tensione fra peccato e grazia non è mai spinta fino a parlare di una iustitia aliena perché l'uomo salvato dall'amore di Dio è l'uomo voluto e creato da questo stesso amore a sua immagine. In questo senso il Concilio di Trento rifiuta la posizione protestante come estranea alla tradizione cristiana ed erronea: il dono divino di grazia va compreso sullo sfondo di una solidarietà di Dio con noi che, nei suoi fondamenti, non viene meno nemmeno nei confronti dell'uomo peccatore.

Il concilio di Trento ribadisce dunque il plesso della lex credendi consegnata dalla Traditio. Riaffermando la completezza della cristologia conquistata nei grandi concili ecumenici del primo millennio, sostiene il concorrere da parte dell'uomo, in modo reale con la sua volontà, alla giustificazione che si pone come un vero mutamento ontologico avente come causa agente la grazia di Dio. La partecipazione alla vita divina non si pone quindi come opus Dei et passio nostra, secondo l'accezione luterana, ma esige una participatio che si può definire actuosa proprio in relazione ad una riaffermata struttura ontologica che si esprime attraverso un preciso modello antropologico. E la veridicità di tutto questo la troviamo nella preoccupazione circa il culto: volontà del Concilio non è una passiva assistenza alla celebrazione liturgica da parte dei fedeli ma esattamente l'opposto (la decisione del Concilio di mantenere l'uso della lingua latina nella Liturgia è da intendere primariamente come difesa del dogma. Infatti l'introduzione della lingua viva nella Liturgia, per Lutero non era un fatto solo di natura squisitamente pastorale, ma dogmatica e cioè che l'efficacia del rito sacro sta innanzitutto nell'intelligenza, da parte dai fedeli, delle parole che lo costituiscono). Ciò evidenzia che, se anche al Concilio - per evidenti cause contingenti - non si parla esplicitamente di sacerdozio comune dei fedeli, questo è supposto e confermato da un impianto teologico globale che permette ed assicura l'esercizio del sacerdozio ad ogni fedele in modo radicalmente diverso da quanto accadde nella vicenda luterana.

 

1.2. Le controversie circa la grazia

 

La teologia dei secoli XVI-XVII viene qualificata dagli studiosi, in analogia con lo stile artistico e letterario del barocco, come "teologia barocca" o "scolastica barocca". L'inizio di questa fase viene fatto coincidere in ambito cattolico con Francisco de Vitoria - considerato il fondatore della scuola di Salalmanca, centro propulsore e culturale da cui parte la rinascita teologica - e in campo protestante con Filippo Melantone, padre dell'ortodossia teologica protestante.

            Ciò che distingue la "scolastica barocca" dalle precedenti epoche  ed aspetti della Scolastica è l'assunzione dell'istanza critica principale dell'umanesimo e cioè il ritorno alle fonti e una riflessione più approfondita sul concetto di tradizione, riflessione "imposta" dagli attacchi protestanti. Schematicamente si può affermare che se i postulati degli umanisti interessano la forma esterna della "teologia barocca", le affermazioni dei riformatori riguardano invece l'essenza della sua metodologia in quanto di fronte alla pretesa luterana della sola scriptura, i teologi cattolici non potranno fare a meno di documentare le loro tesi con il ricorso alle autorità del passato giungendo alla determinazione della legittimità di una tesi quando si può dimostrare il suo accordo con la Scrittura e con l'autorità del Padri. La metodologia adottata dalla "teologia barocca"  la rende sensibile e critica al progresso, e sempre pronta alla oculata recezione delle tesi più moderne purché possano essere difese con autorità.

            Nella scuola di Salamanca si possono distinguere due epoche: la prima è caratterizzata da una maggiore indipendenza rispetto ad Aristotele e san Tommaso e dalla costante preoccupazione di un ritorno alle fonti della teologia; nella seconda dominano invece un tomismo e aristotelismo più rigidi e una maggiore adesione al Caietano che si concretizza nel coltivare la metafisica e la psicologia, nell'approfondimento dei concetti di predestinazione, provvidenza, causalità, conoscenza divina, intelletto e volontà. Proprio il secondo periodo della scuola di Salamanca fornisce il terreno fertile per l'esplosione della questione del rapporto natura-grazia.

Dall'insegnamento del Concilio di Trento emerge che la grazia ha un valore salvifico assai più ricco e profondo della luterana giustificazione forense: la grazia è una realtà soprannaturale che tocca l'uomo intimamente trasformandolo interiormente, rendendolo giusto davanti a Dio e dunque partecipe della vita divina. La grazia è dono ma anche realtà con cui l'uomo può e deve collaborare per crescere globalmente fino alla statura di Cristo. I decreti del concilio tridentino mettevano bene in luce il potere positivo della grazia e i suoi frutti ma non chiarivano adeguatamente né i rapporti della natura umana con la grazia, né le relazioni della libertà con la grazia. Far luce su questi punti divenne uno degli obbiettivi primari della teologia post-tridentina e il sottofondo di tutte le controversie che nacquero in seno all'approfondimento delle questioni circa la grazia fu sempre la salvaguardia del pensiero di Agostino: il cercare di mantenerlo integro e contemporaneamente il distaccarsi da esso.

            Il molinismio e la controversa de auxiliis prendono avvio con una pubblica discussione tenuta a Valladolid nel 1582 sulla libertà di Cristo e si radicalizza quasi subito come scontro a proposito del modo di intendere i rapporti tra grazia e libertà. Il problema, certamente legittimo, si radica nel diverso modo di intendere la libertà: per i teologi di Valladolid la libertà è scolasticamente intesa come possibilità di scelta e perciò sta a fianco della grazia come indipendente da essa mentre per quelli di Salamanca è da intendersi agostinianamente come capacità di bene e perciò sta in stretta dipendenza dalla presenza o dall'assenza della grazia. Questa diversa ispirazione confluirà nei contrapposti sistemi teologici di Bañez e di Molina-Lessio.

            Autore significativo è Baio, teologo di Lovanio il cui pensiero appare animato da un ostruzionismo metafisico ispirato ad un positivismo che lo mantiene aperto alla sola storia quale unica espressione dei gesti di Dio: la sua reazione alla scolastica risulta fuorviante quando costruisce in positivo le sue tesi intorno alla "natura integra", attorno cioè alla giustizia del primo uomo che egli - fraintendendo la tradizionale visione del soprannaturale, e perciò anche dell'uomo - pensa commisurata anche nel fine alle esigenze create, o quando parla dell'atto morale e meritorio, dell'opera buona quasi ad esclusione della dignità soprannaturale della persona, così da sembrar costruire una teologia dell'agire soprannaturalizzato indipendente dalla grazia che rinnova la persona. Analogamente Giansenio partirà da Agostino per ripensare i rapporti fra grazia e libertà nell'Adamo innocente ed in noi peccatori: mentre Baio legge il rapporto nel quadro della natura integra e della capacità di meritare, Giansenio sottolinea a tal punto la forza della grazia che anima la libertà innocente di Adamo da vedere lo stato di giustizia originale come lo stato di una natura sana e forte in cui l'uomo, in conseguenza del dono con cui Dio è fedele alla sua sapienza e alla sua bontà, poteva effettivamente compiere il bene. Il peccato originale e la redenzione portavano il vescovo di Ypres a sottolineare la distanza fra il merito caratterizzante Adamo e la grazia caratterizzante noi peccatori: su questo sfondo egli parlerà della grazia come grazia efficace ed invincibile che Dio dà liberamente agli eletti per il regno, così come parlerà della corruzione della capacità morale della persona nell'attuale condizione dominata dalla concupiscenza. Legata alla sua visione della grazia efficace, Giansenio presenterà infine la morte di Cristo come avvenuta solo per gli eletti: non una goccia della sua redenzione può andare perduta.

            La condanna di Baio e Giansenio permette di cogliere la permanenza di una concezione cattolica dove la salvezza è l'agire di Dio che sostiene e stimola la nostra volontà di bene: se è vero che non vi è nulla di bene che non venga da Dio, si dovrà però anche evitare di esaltare Adamo e di abbassare l'uomo presente fino a porre quasi una separazione tra Dio e l'uomo. L'uomo non si gloria che in Dio, ma la gloria di Dio è l'uomo vivente.

            L'emergere della corrente di pensiero del suarezianesimo va collocata in un'epoca entusiasta dell'uomo, delle sue scoperte, delle sua possibilità. In un sincero dialogo con questa esperienza, questi teologi perseguono una esaltazione delle dignità della persona umana come base per un incontro dell'uomo con il mondo e per una sua più agevole cristianizzazione. Lo sfondo dottrinale per questo dialogo è costituito dalla distinzione tra theologia naturalis o trattazione razionale e theologia supernaturalis o teologia propriamente detta: questa distinzione intendeva recuperare un preciso corpo di dottrine cristiane, affrontabili anche filosoficamente, su cui aprire un dialogo con il mondo moderno. L'antropologia verrà così considerata all'interno della dottrina della creazione e letta in termini aristotelico-tomisti come il problema dell'anima, delle sue facoltà e della sua composizione con il corpo. Sul piano propriamente teologico la tematica della salvezza donata da Dio vedrà una accentuazione della grazia creata che, unita ad una creativa lettura del tridentino, ne farà l'unica causa formale della giustificazione. Verrà a galla una ontologia della grazia creata che configura una entitatività statica ed avulsa dalla vita, in forza della quale Dio si rende presente all'uomo. L'esaltazione dell'uomo e dei suoi sforzi riduce l'esperienza cristiana quasi ad un moralismo al quale, da fuori, si aggiunge un dato soprannaturale della viva presenza di Dio. In questo clima di pensiero si arriverà a perdere la tipicità stessa dell'antropologia cristiana con il tema della natura pura, propria del Caietano e di Suarez come un vero e proprio ordine storico, una vera interpretazione della realtà. Poiché ogni sostanza naturale ha un fine connaturale a cui tendere e dei mezzi proporzionati per raggiungerlo, ecco che la persona umana è presentata come ordinata alla beatitudine strettamente naturale, rispetto alla quale ogni fine più alto non può che essere aggiuntivo. Nasce così una visione dell'ordine soprannaturale come accessorio e secondario rispetto ad una natura umana considerata come autosufficiente. Contropartita di questa tesi sarà la visione della gratuità del soprannaturale in senso puramente negativo. Se, inizialmente, il doppio fine poteva apparire lo strumento concettuale necessario per salvaguardare la chiesa da una totale identificazione con il mondo e per indicare uno spazio di autonomia dello stato, esso finì per originare a distanza, una neutralità dell'esperienza cristiana rispetto alla storia. Attorno ad esso nascerà l'equivoco antropologico di un uomo amputato nella sua relazione con l'assoluto e nella sua finalità trascendente. Emerge un homo physicus, un uomo che vive secondo ragione, che si rapporta alle cose e alle persone nella linea dell'homo faber e dell'animal politicum. E' un uomo ormai distante dalla descrizione biblica e patristica dell'immagine di Dio; ormai la tipicità cristiana della persona è andata persa: l'uomo potrà al massimo conoscere negativamente che la sua felicità non sta in questo o in quell'altro bene creato ma non saprà positivamente decidersi per la visione beatifica.

            Esaminando intelligentemente il cammino percorso possiamo affermare che se in radice la riforma protestante opta per una non partecipazione motu proprio dell'uomo alla vita divina posizionandosi su un modello antropologico decisamente mutilante, il cattolicesimo accentua l'attenzione sulla creaturalità come fonte di un rapporto e di una positività umana che non può andare persa. Il fatto che tutto un filone teologico accentui le prospettive di una natura pura e autosufficiente e stravolga il discorso della grazia con la centralità della grazia creata, non impedisce di cogliere che, mentre il protestantesimo elude il problema attestandosi attorno alla originalità del fatto cristiano difeso da ogni riduzione metafisica, il cattolicesimo intende affermare la consistenza della libertà dell'uomo insieme al primato di Dio. Per questa linea la riforma finirà per destoricizzare la storia salvifica richiudendola nell'incontro, proprio della fede fiduciale, fra la parola di misericordia e la realtà peccaminosa dell'uomo; il cattolicesimo ha invece il problema di chiarire la consistenza storica della libertà mantenendola all'interno della vita di grazia.

            Sembra allora emergere, dai dati della storia, che la participatio alla vita divina si può definire actuosa in forza di un fatto ontologico fermamente conquistato ed insieme difeso dal cattolicesimo. E ciò che ha permesso il non cedere ad una riduzione antropologica dell'uomo (che significava più profondamente una riduzione metafisica) è stato il plesso della Traditio che non poteva essere perso. Infatti già il concilio di  Costantinopoli III poneva tutte le coordinate per una retta collocazione del problema. L'affermazione delle due volontà in Gesù, quella divina e quella umana, oltre a ribadire una consistenza propria della natura umana (e in questo senso è un approfondimento e chiarimento della definizione di Calcedonia), dice che l'assunzione dell'umanità da parte del Figlio di Dio non significa né annientamento, né passività (propria della concezione luterana), ma compartecipazione attiva e libera.

 

1.3. La vita di culto

 

Dal punto di vista liturgico, il tramonto del medioevo, presenta numerose contraddizioni, luci ed ombre che però vanno giustamente collocate non cadendo nel rischio di leggere il tutto con le categorie teologico - liturgiche attuali.

            La liturgia del periodo romano classico e quella franco-germanica dei monasteri e delle cattedrali era troppo ricca per poter divenire un patrimonio comune. Il clero e la curia romana dei secoli XII e XIII ebbero il pregio di adattarla e renderla praticabile anche a comunità parrocchiali e il risultato fu un Breviario e un Pontificale. I frati di san Francesco d'Assisi, desiderosi di celebrare la messa e l'ufficio secondo l'ordine della santa romana chiesa, nella persona di Aimone di Faversham, ministro generale dell'ordine (1240-44), rielaborarono ulteriormente il tutto rendendolo più praticabile e diffondendolo in tutto l'occidente. I Francescani compirono così  un primo passo importante verso l'uniformità centralizzata della liturgia occidentale che ha la sua fonte in un patrimonio romano.

            Il pontificale venne ancora modificato dal lavoro di Guglielmo Durando divenuto vescovo di Mende nel 1285 e la liturgia contenuta in questo libro mostra con chiarezza quali sono le linee direttive e la mentalità di fondo in forza delle quali si formò la società cristiana medioevale: comunità di fedeli ordinata gerarchicamente, capace di garantire la salvezza di tutti i suoi membri in quanto ordinati intorno al vescovo che ha il potere di istituire il clero e di santificare i laici e perfino di consacrare lo stesso imperatore, i re e i cavalieri e tutto in tempi e luoghi sacri. In poche parole ci troviamo davanti alla liturgia pubblica celebrata dalla cristianità intera nelle cattedrali, nei monasteri e nelle chiesa parrocchiali dei secoli XII e XVI.

            Il popolo di Dio partecipa al culto anche se spesso concentra il suo interesse su elementi secondari; la comunione eucaristica diventa più rara e la distanza tra il sacerdote e i fedeli aumenta Si moltiplica la celebrazione di messe e soprattutto nella sempre più diffusa forma privata. Nel calendario vengono assunte nuove feste: quella della SS. Trinità e del Corpus Domini. Si constata un certo individualismo e privatizzazione della preghiera e prova ne è il formato piccolo dei libri dell'ufficio: la preghiera delle ore diventa sempre più faccenda del singolo orante dove il peso della lunga preghiera si fa sempre più grande, ma viene alleggerito dall'introduzione di letture di carattere leggendario e dalla preferenza accordata ai più brevi uffici dei santi a scapito di quelli lunghi della liturgia del vero e proprio anno ecclesiastico (de tempore). Tutto ciò si sviluppa lentamente assumendo proporzioni notevoli solo verso la fine del medioevo. Si percepiscono anche fermenti di rinnovamento tra cui Quiñonez, Cusano, Quirini, Giustiniani, che però rimasero episodi frammentari fino a Lutero che con le sue riforme radicali costrinse la chiesa a mettere mano ad una riforma reale.

Il concilio di Trento non si è trovato nella possibilità di effettuare la riforma liturgica. Si limitò a fornire le coordinate dei criteri e demandò nell'ultima sessione - la XXV - la concreta realizzazione al papa.  Sulla linea dell'impegno consegnato dal concilio nel 1568 viene edito il Breviarium Romanum[1], nel 1570 il Missale Romanum[2], nel 1596 il Pontificale Romanum[3], nel 1600 il Caerimoniale Episcoporum[4] e nel 1614 il Rituale Romanum[5], inoltre, nel 1588 viene istituita da Sisto V la Congregatio sacrorum Rituum[6]. Nella preoccupazione della difesa del dogma, vennero tolte dai precedenti libri liturgici le sovrastrutture che si erano accumulate particolarmente negli ultimi cinque secoli: scomparvero i tropi, le sequenze (eccettuate cinque) molte delle orazioni recitate privatamente dal sacerdote, alcune feste originate da narrazioni apocrife e fu accentuato il valore dei tempi forti (avvento e quaresima) e della domenica eliminando molte feste di santi che riempivano ogni giorno dell'anno. Alla riforma liturgica sopravvissero i riti con almeno 200 anni di vita, ossia quelli esistenti prima dell'apparire di quei germi ereticali che si ritenevano poi sfociati nel protestantesimo. Nel timore di abusi, fu preoccupazione della riforma liturgica stabilire tutto quello che doveva essere fatto dal vescovo, dal sacerdote e dai ministri inferiori e, in questa linea, la nascente Sacra Congregazione dei Riti diede un grande impulso alla scienza delle rubriche.

            Rette intenzioni e buona volontà guidarono la riforma liturgica ma  con i mezzi disponibili a quel tempo il tutto non ha fatto altro che "purgare" e restaurare il rito romano (franco-germanico) medioevale, più o meno secondo la forma di Gregorio VII. In ogni caso l'opera riformatrice voluta dal Concilio e realizzata concretamente dai papi è degna di lode in quanto ha salvato la liturgia dalla crisi del cinquecento, ma contemporaneamente risulta essere un'opera limitata nel senso che mentre ha fissato la liturgia per superare la situazione caotica di quel tempo, l'ha allontanata dalla vita reale, l'ha resa quasi una forma "congelata", costringendo la pietà dei fedeli ad allontanarsene per rivolgersi a forme di pietà popolare e devozionale, e dando così origine alla cultura religiosa del barocco.

            La riforma dei libri liturgici attuata da Pio V e dai suoi successori ha prodotto una vita liturgica fiorente. La liturgia riformata si celebrava ovunque in modo obbediente e coscienzioso con l'uniformità creata dalla riforma tridentina. In sostanza il fattore religioso determina ancora tutto ed è caratterizzato da un soggettivismo sensualistico, da un collettivismo soggettivo e da una consapevolezza entusiastica dell'unità della Chiesa cattolica. Nei settori della Chiesa direttamente dipendenti dall'autorità Episcopale ci si trova davanti all'autentica vita liturgica del periodo Barocco. Il culto è  festa, e la cultura barocca è primariamente cultura di festa, manifestazione di tutte le possibilità di un'arte lieta al servizio di un più alto ideale. La celebrazione delle feste registra uno sviluppo innegabile che si manifesta prevalentemente sotto la forma di un arricchimento nel campo della musica destinata alla Liturgia ed inoltre, dalla specificità dell'architettura religiosa e della decorazione artistica dell'interno delle chiese.

            Nel Barocco si registra anche la fioritura del canto popolare come strumento attraverso il quale il popolo partecipa esternamente al culto. Il luogo dove si manifesta la forza creatrice e partecipativa della liturgia barocca è la festa del Corpus Domini caratterizzata dalla processione fatta con il massimo splendore, da rappresentazioni drammatiche, da sfarzo di costumi con accompagnamento di bandiere, soldati, mortaretti…., e un altro centro di devozione caratteristico della pietà è Maria la Madre di Dio: il fenomeno si manifesta con molti pellegrinaggi, titoli diversi, feste nuove e talvolta in forme connesse con la devozione verso il SS: Sacramento.

            Un fatto importante da considerare è che sostanzialmente  il popolo di Dio partecipa alla vita ecclesiale in modo estremamente attivo attraverso i sacramentali, che sono il segno tangibile attestante una reale, viva e sentita partecipazione. Si può affermare che tutta la "vita liturgica" dei fedeli era concentrata nel "prima" e nel "dopo" celebrativo, e che sicuramente non vi era quella "intelligenza" dell'azione liturgica propria a noi e frutto delle conquiste del posteriore Movimento Liturgico. L'abbondante produzione di documenti da parte dei Pontefici circa la realtà dei sacramentali[7], conferma ed insieme attesta un sentire ecclesiale a livello di lex vivendi che ha come suo patrimonio inalienabile l'actuosa participatio e lo manifesta con le forme che le sono possibili in quel preciso momento storico.

            Circa l'azione liturgica propriamente detta vi è da valutare che il Concilio di Trento non ha assolutamente precluso una partecipazione attiva esterna del popolo, participatio che esigeva anche una intelligenza del celebrare (d'altronde il Concilio non poteva affermare una nozione di liturgia diversa proprio in forza del modello antropologico chiaramente ribadito contro l'accezione protestante). Nonostante le innegabili deficienze riscontrabili si può intravedere un filo rosso che porta, con uomini come Muratori, verso una sempre maggiore intelligenza della azione liturgica nella radicata consapevolezza che l'equilibrio ecclesiale è garantito nella sua globalità solo dalla Liturgia. Infatti tutti i sacramentali e le espressioni di pietà popolare - che dicono capacità reale dell'uomo di dare culto a Dio - tendono verso l'azione liturgica come massimo luogo di culto, e da essa sono purificate e rettificate nella ortodossia della lex credendi che la Liturgia contiene ed afferma inequivocabilmente nella celebrazione.

            La vita liturgica della Chiesa post-tridentina, considerata nella sua totalità, rivela un preciso modello antropologico positivo che suppone, e di fatto realizza, una partecipazione "attiva" alla vita divina, modello che affonda le sue radici nella Tradizione e dunque mai abbandonato nonostante tutte le discussioni teologiche del tempo. Anzi, sarà proprio la lex vivendi del popolo di Dio che "premendo" sulla lex orandi la costringerà ad una sempre maggiore "intelligenza" e tutto ciò sarà la fonte, attraverso il Movimento Liturgico, del rinnovamento della lex credendi.

 

2. UN PO’ DI TEOLOGIA CIRCA ACTUOSA PARTICIPATIO

 

            I dati emersi dalla storia ci permettono di tentare una riflessione teologica sull’actuosa participatio, riflessione che necessariamente si porrà come orientativa di una prassi liturgica.

 

2.1. Actuosa connotazione Cattolica della participatio

 

Le dispute post-tridentine circa la grazia elaborarono il modello teologico della creazione ed elevazione volendo sottolineare in quest'ultima la doppia gratuità di Dio. Questa impostazione, formalmente molto chiara, non avvia però ad una reale soluzione circa la participatio alla vita divina in ambito cattolico, in quanto non dice nulla di ciò che più importa nel rapporto fra creazione ed elezione, e cioè dell'assoluto riferimento cristologico del creato e tace quindi, implicitamente, sul il vero statuto antropologico cristiano. Nell'esplicito tentativo del recupero in sede sistematica della prospettiva biblica cristocentrica, la teologia contemporanea, per designare il preciso modello antropologico cristiano, usa l'espressione "esistenziale cristico". Esistenziale per sottolineare gli aspetti di ulteriorità nei confronti del puro creaturale e di doppia gratuità che la tradizione teologica ha giustamente ritenuto irrinunciabili, e cristico per porre direttamente l'accento sul cuore della situazione e cioè sul legame con Gesù. Si parla di cristico e non di cristiano per mantenere distinti il piano del nativo implicito ed incompleto da quello nel nativo esplicito e completo: infatti, se l'essere "cristico" è di ogni uomo, quello "cristiano" qualifica solo chi si appropria esplicitamente del cristico.

In questo contesto la predestinazione è la destinazione al Cristo che vincola nativamente con lui ogni uomo: è completamente gratuita nel senso che rappresenta una realtà inaudita superante ogni possibile attesa e ogni comprensione dell'uomo in quanto è accesso in Cristo alla vita che in modo proprio ed esclusivo appartiene a Dio e che soltanto per libera decisione può essere donata da Dio; costituisce la vocazione ad una comunione con Dio specificatamente trinitaria, superiore ad ogni esigenza meramente creaturale; è universale nel senso che riguarda tutto e tutti senza eccezioni od esclusioni di sorta e stabilisce in tutto e in tutti il vincolo con Cristo Gesù; è infallibilmente efficace nel senso che la destinazione ed il vincolo cristico che essa determina non potranno mai essere deposti, neppure nel caso limite della dannazione, che consiste precisamente nella positiva contraddizione di questo orientamento ontologico nativo. Qualunque siano i limiti e le carenze dei singoli, il progetto di Dio si sviluppa e si totalizza infallibilmente in ciascuno grazie alla forza di Dio e l'unica barriera capace di arrestarlo consiste nel rifiuto della libertà umana di accettare le sue promesse e percorrere le sue vie.

Nell'ottica di questa prospettiva il soprannaturale si definisce non rispetto alla natura ma in relazione a Gesù Cristo. Per quanto la percezione della doppia gratuità dell'ordine storico effettivo sia importante, non può però essere posta al centro della comprensione cristiana dell'uomo in quanto questo centro si trova nel rapporto con Cristo. Conseguentemente l'antropologia cristiana deve divenire una teologia dell'essere cristico: è Cristo che precede e legittima l'uomo e non l'inverso. Il riferimento a Gesù,  per quanto sia distinto dall'essere creaturale, tanto da conferire all'uomo una doppia gratuità, non si aggiunge ad esso ma dà ragione della sua presenza, ossia ne fa un elemento interno all'essere cristico globale. Perciò mentre il soprannaturale è definito come un elemento affiancato ad un altro, l'essere cristico viene inteso, al contrario, come un tutto che include due dati, uno dei quali è l'essere creaturale mentre l'altro è l'esistenziale cristico. La realtà designata dalla tradizione teologica mediante il termine "soprannaturale" è quindi l'essere cristico che risulta dall'unità di due elementi ad esso subordinati: l'esistenziale cristico, rispondente all'intento di Dio sull'uomo e sul mondo, e l'essere creaturale grazie al quale uomo e mondo sono reali. Nella determinazione dei rapporti tra essere cristico e creaturale (tra - nel linguaggio della teologia post-tridentina - natura e grazia) appare chiaro che l'essere cristico va inteso come il tutto, e l'essere creaturale come una sua imprescindibile componente. Conseguentemente essere cristico e creaturale formano una inscindibile unità dove la soppressione del cristico causa l'immediata caduta del creaturale. Vanno dunque escluse tanto una concezione estrinsecista del soprannaturale quanto un'idea autonoma della natura: sul piano ontologico e dell'essere concreto dell'uomo non si verificano dualismi ma soltanto distinzioni.  Essere cristico e creaturale sono però realmente distinti: il primo costituisce il tutto dell'uomo mentre il secondo è un suo dato interno. Conseguentemente l'essere creaturale gode, dentro quello cristico, di una sua specifica consistenza, per cui è giusto e necessario distinguere negli individui concreti i doni di natura da quelli di grazia (l'essere cristico riceve da ciò che lo fa tale, ossia l'esistenziale cristico, una tale potenza da potersi espandere sconfinatamente anche là dove l'essere creaturale risultasse per alcuni versi limitato o carente). L'essere creaturale però - pur non potendo esserci, nell'attuale ordine storico salvifico, se non all'interno di quello cristico - esiste realmente e si distingue al punto da generare l'esigenza storica della propria integrazione nel cristico. In questa prospettiva il peccato consiste nella pretesa di disgiungere l'essere creaturale dall'interno del cristico, cioè nel tentativo di storicizzare la natura pura idolatrata ed attuata in opposizione al progetto concreto di Dio pretendendo quindi l'autenticazione dell'uomo a prescindere da Dio e dalla sua volontà. L'essere cristico non coincide con quello creaturale ma lo include come un proprio elemento essenziale e dunque lo deborda. Conseguentemente vivere in modo autentico la propria umanità è continuamente l'andare oltre la propria comprensione del reale entrando esistenzialmente nell'appello di Dio rivolto ad Abramo: "esci dalla tua terra" (Gn 12,1).

In forza del recupero dell'impostazione cristocentrica, il modello antropologico emerso  si pone come l'esplicitazione di quanto il Concilio di Trento aveva affermato di fronte alla Riforma protestante e cioè che la giustificazione non è qualcosa di estrinseco ma una trasformazione radicale dell'uomo, un mutamento ontologico che pone il rapporto con Dio in un ordine radicalmente diverso da quello delle categorie morali o giuridiche, e che in questa trasformazione l'uomo non è uno strumento passivo, inerte, ma coopera attivamente alla giustificazione. Anche al travaglio della teologia post-tidentina - che partendo dai dati del concilio, ha come sottofondo la definizione dell'identità ontologica dell'uomo davanti a Dio - il modello antropologico localizzato vuole essere una risposta. La condanna di Baio e Giansenio permette di cogliere la permanenza di un dato dove la salvezza si identifica con l'agire di Dio che sostiene e stimola la nostra volontà di bene, volontà che esiste come fatto reale; la dichiarata ortodossia del molinismo equivale ad accettare la libertà umana come un valore in sé non strumentalizzabile nemmeno per affermare il primato di Dio: in sostanza dire che l'uomo ha una libertà anche dopo il peccato originale - dato che sottende una precisa antropologia - non è automaticamente pelagianesimo; infine, il fatto che venga accentuata la prospettiva di una natura pura e autosufficiente e si disorienti il discorso circa la grazia con la centralità della grazia creata, fa emergere che, una volta di più, si intende affermare la consistenza della libertà dell'uomo insieme al primato di Dio, rimanendo però con il problema di chiarire la consistenza storica della libertà mantenendola all'interno della vita di grazia.

Il  definito modello antropologico, ribadendo il plesso della cristologia conquistata nei grandi Concili Ecumenici del primo millennio, conduce alla comprensione della participatio alla vita divina come essenzialmente un dato interno all'uomo e costitutivo, assicurato da una positività nativa, germinale che rappresenta la connessione, l'interfaccia strutturale all'incontro esistenziale con Dio.  Ed è precisamente questa realtà costitutiva dell'uomo - che si identifica con l'esistenziale cristico, come oggi diciamo - che permette di definire la participatio alla vita divina come actuosa segnando indiscutibilmente il nucleo dello specifico cristiano-cattolico rispetto al protestantesimo, specifico tenuto presente e tacitamente - e non senza fatica -  affermato sia dalla vita concreta del popolo di Dio sia dal Concilio di Trento e dalle dispute teologiche post-tridentine, come sopra mostrato.

La definita actuosa participatio alla vita divina permette la reale esistenza del sacerdozio comune dei fedeli come capacità costitutiva dell'uomo di rendere culto a Dio e dunque fonda la possibilità della Liturgia in quanto azione essenzialmente cultica. Il sacerdozio comune dei fedeli si pone come l'abilitazione al culto che è unire la propria esistenza al sacrificio di Cristo. Tale abilitazione può esistere in forza dell'esistenziale cristico in relazione al quale il carattere battesimale e confirmatorio sono il completamente storico e sostanziale. Esiste quindi in ogni uomo che si affaccia alla ribalta della storia, indipendentemente dall'evangelizzazione e dal Battesimo, una capacità incoata di unire la propria esistenza al sacrificio di Cristo compiendo atti di culto. Questo fonda ciò che la tradizione ecclesiale chiama "Battesimo di sangue"  e giustifica il fatto che un concepito possa ricevere il sacramento del Battesimo facendo azione di culto.

Intorno alla participatio alla vita divina, e circa la sua modalità - e dunque intorno ad un definito statuto antropologico -, si gioca quindi una precisa lex credendi - cioè una nozione cristologica (e trinitaria) con un conseguente modello ecclesiologico - che si codifica esplicitamente in una lex orandi. Si può affermare che l'actuosa participatio è la radice del problema ecumenico in quanto in forza di questa dipende una precisa nozione di Chiesa. Infatti le eresie che seguirono il Concilio di Trento, tra cui spicca il Giansenismo, toccarono precisamente il problema della participatio alla vita divina ritornando sostanzialmente, anche se non esplicitamente, sul modello teologico luterano.

 

2.2. Actuosa participatio e Liturgia: ontologia e libertà

 

Il fine della Liturgia è il culto che in Cristo, nello Spirito Santo, la Chiesa rende al Padre. Nell'azione liturgica, attraverso la partecipazione al mistero celebrato, avviene  quindi la santificazione dell'uomo che rende culto a Dio. La partecipazione al Mistero celebrato, la santificazione e il culto sono dunque le tre sfaccettature dell'essere dell'azione liturgica, sfaccettature così strettamente connesse l'una all'altra che l'eliminazione di una significa far cessare di esistere la stessa azione liturgica. Ora, ci può essere Liturgia (considerata nella sua forma ampia e cioè nel prima, durante e dopo celebrativo) perché l'uomo costitutivamente è in grado di rendere culto a Dio in forma incoata  - ma sempre di culto si tratta - indipendentemente dall'evangelizzazione e dalla recezione del Battesimo. Questo si fonda sul fatto che la participatio alla vita divina possa dirsi actuosa e dunque, il riconoscimento di un preciso status ontologico dell'uomo giustifica l'esistenza della stessa Liturgia: se l'uomo è ontologicamente inabile al culto, non c'è Liturgia in quanto non ci sarà neanche reale partecipazione al Mistero celebrato e quindi neanche vera santificazione.

            Il completamento protologico e la manifestazione dell'essere costitutivo dell'uomo avviene nell'azione liturgica attraverso i sacramenti che conferiscono carattere, e il tutto è orientato verso L'Eucaristia, massima espressione di culto, da cui prendono vigore e consistenza ogni altra espressione di culto. Tutta la vita cristiana è dunque protesa verso l'Eucaristia, esemplare celebratio fidei in quanto massima euloghia, dove Mistero, Azione e vita si "con - fondono". Nell'Eucaristia infatti si attua la massima conformazione a Cristo attraverso una mistica fisica unione dove il nostro storico sacrificio diviene quello di Cristo e il culto che diamo al Padre nello Spirito Santo viene assimilato al culto di Cristo. Esistenzialmente parlando, l'Eucaristia e dunque il fine al quale ogni uomo tende in virtù della sua costitutività, l'esistenziale cristico, e, necessariamente, la partecipazione a questa realtà avrà un "livello" ed una "specificità" in relazione al proprio storico stato ontologico.

Parliamo di "livello" in quanto anche un non battezzato può partecipare all'Eucaristia unendo la propria esistenza al sacrificio di Cristo in modo incoato ed imperfetto (mancandogli l'abilitazione completa conferita dai sacramenti del Battesimo e della Confermazione). In questo caso la Celebrazione Eucaristica si porrà come un "prima celebrativo" che condurrà il catecumeno al Battesimo. Ma anche tra coloro che sono esplicitamente abilitati alla partecipazione all'Eucaristia si determinano diversi livelli in forza della specifica ministerialità esercitata all'interno della celebrazione e anche dagli eventuali "impedimenti" alla comunione sacramentale. Tutti possono partecipare alla celebrazione (anche i non battezzati) in forza di un dato costitutivo che permette di offrire, con il sacerdote che presiede, il sacrificio (la differenza tra battezzati e non battezzati si porrà in relazione alla capacità "in atto" e viceversa incoata, non perfetta).

Come bene afferma Pio XII nell'enciclica Mediator Dei, la partecipazione esterna (che potrebbe consistere anche nel semplice esserci) congiuntamente a quella interna (cioè la capacità, congiunta all'intenzione, di associare la propria esistenza a quella di Cristo) costituisce, liturgicamente parlando, la "partecipazione attiva" che diviene "perfetta" quando è concomitante alla partecipazione sacramentale. In sostanza tutti, indipendentemente dai sacramenti ricevuti e dagli impedimenti, possono partecipare in modo attivo alla Celebrazione Eucaristica che si porrà così come il locus nel quale ricevere la grazia necessaria per giungere alla partecipazione perfetta.

Parliamo di "specificità" in quanto lo stato ontologico determina il modo tipico partecipativo. Infatti il sacerdozio eterno, unico e perenne di Cristo è compartecipato ministerialmente in modo preminente ai presbiteri, in modo tipico ai cresimati, in modo sorgivo ai battezzati e in modo implicito ed incoato ad ogni concepito. Esiste quindi, all'interno della partecipazione attiva e perfetta, una specifica partecipazione costituita dall'esercizio del proprio sacerdozio, partecipazione della quale si ha diritto e dovere.

Liturgicamente parlando, la partecipazione attiva  è costituita dalla partecipazione esterna congiunta con quella interna e il tutto è orientato  alla partecipazione perfetta e completa che si attua con la comunione sacramentale. La partecipazione esterna, che si situa quindi all'interno di quella attiva e perfetta, si pone come il segno storico che manifesta, all'interno dell'azione liturgica e con tutti i riverberi nel prima e dopo celebrativo, l'esercizio ministeriale del proprio sacerdozio.

            Occorre precisare che la partecipazione esterna non si pone come condizione necessaria (eccettuato nella sua forma minima che consiste nella "muta" presenza) per definire una partecipazione più o meno attiva o addirittura più o meno perfetta. Questo perché la partecipazione attiva si pone come un fatto ontologico e la partecipazione perfetta e completa si pone come opus Dei che si dona gratuitamente. Queste precisazioni non intendono sottovalutare la partecipazione esterna ma semplicemente collocarla rettamente nel rispetto di tutti coloro che, per una serie di impedimenti, non possono ordinariamente o puntualmente esercitare tutto ciò che compete all'esterna partecipazione. Ora, alla partecipazione esterna, si ha diritto e dovere in forza del proprio sacerdozio. Il diritto indica una realtà che appartiene e che non può essere negata, il dovere manifesta l'accezione morale del diritto per cui l'esercizio concreto della partecipazione esterna dovrebbe porsi - all'interno delle reali possibilità del soggetto - come il segno visibile della partecipazione interna. In sostanza, in quanto diritto, la partecipazione esterna dovrebbe condurre a quella interna e perfetta, in quanto dovere, avrebbe il compito di essere di questa il segno storico.

Esistenzialmente parlando l'actuosa participatio si pone come un fatto ontologico che per manifestarsi nell'azione liturgica necessità di due atti autodeteminativi: la partecipazione esterna ed interna, e cioè la volontà di esserci congiunta a quella di interagire vitalmente con il Mistero celebrato. Ontologia e liberà entrano dunque nella celebrazione liturgica in feconda sinergia ponendoci, una volta di più, di fronte alla esemplarità ecclesiale della lex orandi che conduce l'uomo ad un presenza che lo coinvolge nella sua più completa verità.

 

2.3. La forza motrice della lex vivendi e l'esemplarità della lex orandi

 per una sana lex credendi

 

L'espressione "lex vivendi" abbraccia tutto ciò che si pone come il "prima" e "dopo" celebrativo, cioè, tutto quel plesso di realtà che direttamente o indirettamente conducono all'azione liturgica e da essa provengono. La lex vivendi definisce quindi un preciso spettro di indagine illuminato dalla celebrazione liturgica, locus eminente al quale l'azione ecclesiale tende e in forza del quale acquista valore e consistenza.

La lex vivendi del tempo storico studiato è gravida di enormi energie ed è curioso constatare che i problemi della teologia poco incidono sul globale vivere del popolo di Dio[8], anzi, nella lex vivendi ci sono già tutti i germi del rinnovamento del pensare teologico: la Chiesa come comunione di ministerialità, l'esercizio del sacerdozio comune dei fedeli, la tensione per una sempre maggiore appropriazione della azione liturgica come luogo di santificazione, il fecondo dialogo tra fede e cultura. Il Movimento Liturgico avrà la sua iniziale forza motrice proprio da questo tessuto ecclesiale.

Mutuando le categorie dalla Mediator Dei,  il punto di incontro tra lex vivendi e lex orandi si pone nel contenuto della partecipazione esterna che congiunta con quella interna realizza l'attiva. La partecipazione esterna è quindi quella dimensione della lex orandi che "filtra" ciò che della cultura di un popolo diviene patrimonio dell'azione liturgica e può quindi godere dell'appellativo di "sacro" conducendo con la sua bellezza e nobiltà alla partecipazione interna, e realizzando così quella attiva (ed eventualmente quella perfetta).

I criteri usati dalla lex orandi per recepire, attraverso il contenuto della partecipazione esterna, i dati della lex vivendi sono il sensus Ecclesiae (che dice cattolicita), la Tradizione (che porta con sé  le dimensioni della santità ed apostolicità) e la fedeltà alla storia (che esprime il reale dialogo con la cultura). Ora, ciò che entra nella lex orandi deve esprimere segnicamente queste realtà. Infatti il contenuto della partecipazione esterna sarà in grado di essere patrimonio ecclesiale solo se informato di quella ecclesialità che con il suo respiro cattolico lo obbliga ad essere vera arte (ciò significa la necessità di competenze specifiche e professionali), della Tradizione quale locus dove impastarsi di “sacro” (è solo nella armonica collocazione all'interno della Tradizione che l'arte è atta a godere dell'appellativo di "sacra") e di quel continuo e retto rinnovamento che gli permette di essere manifestazione del dialogo tra fede e cultura. Solo la fedeltà a queste tre dimensioni permetterà alla partecipazione esterna di condurre a quella interna, realizzando così l'actuosa participatio del popolo di Dio alla Liturgia, participatio che, una volta di più, si attuerà per una “connaturalità ontologica”.

Il contenuto della partecipazione esterna del tempo storico indagato non è rimasto tutto nella celebrazione liturgica. Questo perché sensus Ecclesiae, Tradizione e fedeltà alla storia, sono realtà che agiscono dinamicamente mosse dal sensus fidelium del popolo di Dio. Così la lex orandi lentamente "sgretola" riducendo in polvere ciò che non è conforme con l'ampiezza e la profondità del Mistero celebrato. In poche parole, la lex orandi rigetta con il tempo ciò che non conduce alla partecipazione interna e dunque non realizza quella attiva, mette fuori sostanzialmente ciò che non è ontologicamente "connaturale" all'uomo.

La lex orandi ha quindi una sua esemplarità in quanto recepisce la lex vivendi e manifesta, anche attraverso questa, la lex credendi. Esistono dunque dei profondi e fecondi rapporti  tra le tre leges.

La legge della fede viene infatti ratificata dalla legge della preghiera, ma esiste anche il contrario: la lex orandi, che ha la forza che le proviene dal fatto di essere espressione di tutto lo sforzo della vita della Chiesa (lex vivendi), a sua volta crea la legge della fede. Il principio allora non si ferma a lex credendi - lex orandi e viceversa, ma, necessariamente, sconfina a lex credendi - lex orandi - lex vivendi, in esatto parallelo con la realtà liturgico-sacramentaria che è il Mysterium Salutis (lex credendi), in atto nella Celebrazione (lex orandi), per la vita della Chiesa (lex vivendi).

            Prendendo atto della situazione ecclesiale del tempo storico studiato, e osservando il successivo cammino della Chiesa, è possibile individuare il modo con il quale le leges entrano in dinamico rapporto tra loro compenetrandosi. Ci pare di poter sostenere che la lex vivendi è il "motore" che muove le altre due leges. Infatti la vitalità creatrice del popolo di Dio, l'esigenza vissuta di una partecipazione concreta alla vita ecclesiale entra, attraverso la partecipazione esterna, nella lex orandi e "spinge" su questa quasi obbligandola a farsi presente in modo vivo e vitale. La lex credendi è contenuta e manifestata nella lex orandi e diviene patrimonio ecclesiale solo quando arriva ad essere fede celebrata. Lo studio e l'impegno concreto circa la  lex orandi tocca quindi, ed inevitabilmente, la lex credendi obbligata ad approfondire le istanze ed esigenze concrete di una Liturgia che vuole sempre più farsi cibo per il popolo. Comprendiamo quindi che, di fatto, ciò che muove la lex credendi, è - attraverso la lex orandi - la lex vivendi. Conseguentemente, vitalità della lex vivendi vorrà dire, in futuro, profondità e progresso della lex credendi e, viceversa, povertà della lex vivendi, significherà "sterilità" della lex credendi.

            In tutto questo si deve però riconoscere un primato alla lex orandi. Infatti l'azione liturgica rimane il locus esclusivo ed ordinario al quale il popolo di Dio attinge nella sua quotidianità. E' vero che la lex vivendi è il "motore" che muove le altre leges, ma rimane altrettanto vero che la purificazione ed il retto orientamento di questa legge avviene grazie alla lex orandi. Per cui di fronte ad un popolo povero culturalmente e quindi moralmente, ciò che lentamente sanerà la lex vivendi sarà appunto l'ordinaria lex orandi (in questo caso, la lex orandi sarà in grado si incidere sulla "povera" lex vivendi perché si avvarrà del patrimonio accumulato e depositato nello scorrere della storia in quel vivo deposito che si chiama Tradizione, patrimonio che appartiene alla cattolicità della Chiesa. La prima inculturazione di quella povera lex vivendi si chiamerà allora "promozione culturale" che avverrà nell'entrare in contatto ed assimilare il patrimonio ecclesiale e dunque il diventare un po' ebrei, un po' greci, un po' latini… Insomma assumere il meglio di tutte quelle culture nel quale il cristianesimo è fiorito. Questo è essenzialmente il vero processo di inculturazione che è sempre ed innanzitutto promozione culturale).

La Liturgia (Mistero - celebrazione - vita) è fede vissuta perché celebrata, celebrata perché creduta, creduta perché compresa, e, nello stesso tempo, l'azione liturgica è la Parola di Dio celebrata. Alla "fonte" liturgica non si può attribuire una forma o una forza probante di tipo statico, bensì vitale-ecclesiale. Ed è proprio partendo da questo dato che si può cogliere l'apporto più originale del metodo utilizzato il quale, per tutta l'investigazione, ha fatto considerare, partendo da un'accezione liturgica, sinotticamente il credere, pregare e vivere della Chiesa dimostrando una volta di più che l'avvio per una comprensione esaustiva di un fatto ecclesiale si ha solo nella valutazione interattiva delle tre leges. Infatti la fede creduta non può non essere celebrata e vissuta, e solo la considerazione simultanea di queste tre sfaccettature dell'essere della Chiesa abilita ad una adequatio non riduttiva dell'ampiezza e profondità della Chiesa stessa.

 

 

 

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[1]  Pio V Quod a nobis in BR 4.3, 22-24.

[2]  Pio V Quo primum tempore in BR 4.3, 116-117.

[3]  Clemente VIII Ex quo in Ecclesia Dei in BR 5.2, 92-93.

[4]  Clemente VIII Cum novissime in BR 5.2, 301.

[5]  Paolo V Apostolicae sedi in BR 5.4, 151-152.

[6]  Sisto V Immense aeteni Dei in BR 4/4 395-401.

[7]  I documenti si trovano nel Magnum Bullarium Romanum 32 voll. (Romae, 1745-1762). Quelli che trattano questioni liturgiche dal pontificato di papa Pio V(1566-1572) a quello di Benedetto XVI (1740-1758) sono stati raccolti nell’appendice della tesi dottorale di Palombella M. Actuosa Participatio. Indagine circa la sua comprensione ecclesiale. Apporto al chiarimento dell’interazione tra lex credendi, lex orandi e lex vivendi nei secoli XVI-XVIII (Roma, 2000).

[8]  Fa eccezione il Giansenismo dove le controversie teologiche divengono patrimonio ecclesiale perché arrivano ad incidere sull'arte e sulla Liturgia.