Paradossi

Luca Granieri

Dicembre 2002


"Ci si può domandare se l'assurdo abbia ancora una qualche funzione essenziale o illuminante in ben altre e più "severe" speculazioni, quali quelle della scienza, della filosofia, dell'ordinamento sociale, o addirittura della tecnica. Ma certo che ce l'ha! Si tratta niente meno che della perenne sorgente delle nostre ideazioni. Non esitiamo ad affermare che "un pizzico di assurdo" c'è sempre...
Mi pare poi che sia opportuno riflettere su un fatto abbastanza paradossale.
La vita - sì la vita stessa - rapresenta per ciascuno di noi l'avventura più "assurda" che ci potesse capitare. Eppure quelli che lo avvertono meglio - e qui sta il paradosso - sono proprio coloro che si dedicano con più impegno a indagare razionalmente la condizione della nostra esistenza e a tentare di dare una sistemazione sensata, logica, sicura, a ciò che ne sappiamo e ne pensiamo."

Giuliano Toraldo di Francia (da -Ex absurdo- 1997)


La parola paradosso viene dal greco "paràdoxon", composto da parà (contro) e da dòxa (opinione).
Dunque si tratta di una proposizione, un risultato, che per il suo contenuto o per il modo in cui è espressa, appare contraria all'opinione corrente e alle previsioni, e risulta perciò sorprendente, incredibile.
Nei secoli si sono succeduti diversi atteggiamenti nei confronti dei paradossi. Nel periodo greco erano visti perlopiù come curiosità linguistiche o errori di ragionamento, dai quali fuggire con orrore. Durante il medioevo furono invece parzialmente rivalutati come dilemmi insolubili. Infine, tra ottocento e novecento, valorizzati come indizi di problemi delle credenze comunemente accettate.
La presenza di paradossi dunque, oltre all'imbarazzo iniziale, mette senz'altro in forte evidenza che ci sono dei problemi da risolvere e delle teorie da rivedere, e spesso questo si traduce proprio in una fecondità di nuove idee che vanno oltre l'opinione che prima era di dominio comune.
Forse il più antico dei paradossi, ma senz'altro il più noto, è quello detto del mentitore.
Consideriamo una frase del tipo: "Io sto mentendo."
Ora, se dico la verità allora mento, ma se mento allora dico la verità.
E' chiaro che siamo difronte ad una contraddizione. Certo non sempre ci si trova ad una effettiva contraddizione come nel caso del mentitore. Così è il paradosso degli apostoli (Pietro è un apostolo, gli apostoli sono dodici, allora Pietro è dodici), che chiaramente dipende dall'uso un pò "allegro" del verbo essere.
Tuttavia quando c'è una contraddizione effettiva cominciano i guai. Infatti, una delle prime cose che si imparano in un corso di logica è che se in una teoria c'è anche una sola contraddizione, allora si può dimostrare qualsiasi cosa. In tal caso la teoria si dice incoerente o contraddittoria, e risulta pertanto priva di interesse, poichè in essa è vero tutto e il contrario di tutto.
Questo si può vedere per esempio nel modo seguente. Supponiamo, visto che siamo in periodo natalizio, di voler dimostrare che esiste Babbo Natale. Consideriamo allora la seguenti proposizioni:

1) esiste Babbo Natale
2) entrambe le frasi della tabella sono false

Ragioniamo sulla seconda frase della tabella. La frase 2) è vera oppure falsa. Ora, se è vera, allora deve essere falsa, e questo non può essere. Pertanto deve essere falsa. Ma questo vuol dire che almeno una delle due frasi deve essere vera, e poichè stiamo assumendo che la frase 2) è falsa, allora deve essere vera la frase 1). Dunque Babbo Natale esiste!
Che dire? In effetti si ha una sensazione simile a quella che suscita un bravo prestigiatore, del tipo: "il trucco c'è ma non si vede." Se di trucco si può parlare, è chiaro che deve riguardare la frase 2). E' anche evidente la notevole somiglianza con il paradosso del mentitore. In effetti si tratta di due frasi che praticamente affermano la falsità di sè stesse.
Bertrand Russell farà notare che il paradosso del mentitore e le sue varianti scaturiscono proprio dalla possibilità di costruire frasi che si autoattribuiscono la falsità. Dunque, essendoci questa possibilità, il linguaggio naturale è contraddittorio, e quindi si può dimostrare qualsiasi cosa (anche se non è proprio cosi' soddisfacente).
Ma che dire della matematica che, per antonomasia, è la scienza in cui si dimostrano le cose?
Nel 1902 Russell scoprì che anche la matematica non era immune dalla malattia della contraddizzione, costruendo un paradosso all'interno della teoria degli insiemi, che poi sarà detta "ingenua", sviluppata da Cantor e Frege, e che doveva servire da fondamento per tutta la matematica.
Il ragionamento di Russell può essere reso nel modo seguente.
In genere un insieme non è elemento di sè stesso. Ad esempio, l'insieme delle forchette non è una forchetta. Definiamo normali tali insiemi. D'altronde, l'insieme delle cose pensabili è una cosa pensabile, e quindi è elemento di sè stesso. Diciamo dunque speciali gli insiemi che hanno la proprieta' di appartenere a se' stessi. Il paradosso si ottiene se si considera l'insieme V di tutti gli insiemi normali e ci si domanda: V è normale o speciale?
Ora, se è normale , per definizione, non deve appartenere a sè stesso, e quindi non può essere normale. D'altra parte, se è speciale, allora deve appartenere a sè stesso, e quindi deve essere normale. Dunque in ogni caso abbiamo una contraddizione.
Ma come tollerare una contraddizione proprio nel cuore della matematica? Il paradosso di Russell divenne il simbolo della crisi dei fondamenti della matematica all'inizio del novecento, ed ha portato alla formulazione del sitema assiomatico della teoria degli insiemi, nel quale non è possibile riprodurre i paradossi noti, tuttora in voga. Tuttavia, la questione della coerenza,ovvero che non si può dimostrare una formula insieme alla sua negazione, delle teorie poste a fondamento della matematica è tuttora aperta, e per ora costituisce un atto di fede.
Una versione più simpatica del paradosso è data da una caserma il cui comandante ordina al barbiere di radere tutti coloro che non lo fanno da soli. Il problema sorge quando arriva il turno dello stesso barbiere. Poichè se si fa la barba, allora non se la deve fare, ma se non se la fa, allora se la deve fare , il povero barbiere resta tutta la vita a chiedersi cosa fare, mentre la sua barba cresce a dismisura.
Naturalmente, in questo caso, si può sempre aggirare l'ostacolo dicendo semplicemente che una tale caserma non può esistere.
Dunque i paradossi fanno sentire la loro forza anche in matematica, che in genere e' considerata la piu' certa e salda delle scienze, mettendone a nudo limiti e difficolta', ma anche ricchezze. Infatti, e' ancor piu' sorprendente, e direi quasi paradossale, che anche l'assenza di paradossi possa produrre effetti copiosi. Per capire questo dobbiamo considerare l'opera di Kurt Godel che nel 1931, dopo aver meditato su uno dei famosi problemi che Hilbert aveva posto all'inizio del secolo, enunciò un teorema davvero dirompente, e che è tuttora uno dei più considerati dalla letteraratura non specialistica (anche se spesso a sproposito).
L'idea fondamentale è quella di considerare una proposizione che questa volta si autoattribuisce la non dimostrabilità. Questo non porta ad una contraddizione ma a un risultato davvero profondo.
Supponiamo di avere un sistema matematico corretto , ovvero nel quale ogni formula dimostrabile è vera. Consideriamo una proposizione P che dica di non essere dimostrabile di sè stessa. Ora, P non può essere dimostrabile, poichè altrimenti il sistema dimostrerebbe una falsità, e quindi non sarebbe corretto. Allora, non essendo dimosrabile, P è vera. Pertanto abbiamo trovato una proposizione vera che però non è dimostrabile. Naturalmente, un sistema corretto è a maggior ragione coerente. D'altronde, in quest'ultimo caso, basta osservare che se P è dimostrabile, allora è dimostrabile anche la proposizione: "P è dimostrabile" , che è proprio la negazione di P, e questo contraddice la coerenza. Il lavoro di Godel è consistito per l'appunto nel mostrare che, in un sistema matematico abbastanza ricco, si può effettivamente costruire una formula che realizzi il ragionamento appena fatto. Dunque, in ogni sistema matematico coerente e abbastanza ricco, esistono proposizioni vere che non possono essere dimostrate. Tali sistemi si dicono incompleti. Tanto per averne una idea, possiamo dire che "abbastanza ricco" si riferisce a sistemi che abbiano almeno la complessità dell'aritmetica, per la quale d'altronde il teorema fu dapprima dimostrato.
Così si dava risposta negativa al problema di Hilbert che chiedeva se l'aritmetica fosse completa, ovvero se ogni proposizione si potesse dimostrare o refutare a partire dagli assiomi di Peano. Di più, il teorema di Godel ci dice non solo che l'aritmetica è incompleta, ma anche che non si può completare aggiungendo un nuovo assioma alla volta, poichè in tal caso si può ripetere pari pari la costruzione di prima al nuovo sistema. Allora si dice che l'aritmetica è essenzialmente incompleta.
Se vogliamo, questo ci dice che la scienza non e' onnipotente ma ha i suoi limiti. Vale a dire che non si puo' dedurre tutto da pochi principi generali. Tuttavia ci tengo a dire che questo puo' essere considerato come una ricchezza piu' che una limitazione. Se non altro ci dice che il lavoro per gli scienziati non verra' certo a mancare, e non e' poco di questi tempi, sempre che i fondi per la ricerca non spariscano del tutto.
Chiusa questa breve parentesi,riprendiamo per un attimo l'argomento precedente. Dunque abbiamo che se il sistema è coerente , allora P non è dimostrabile. Allora, a magior ragione, non è dimostrabile neppure la coerenza. Il fatto che un sistema coerente non possa dimostrare la propria coerenza viene spesso chiamato secondo teorema di Godel.
Forse un'immagine letteraria può servire a chiarire la situazione. Consideriamo ad esempio i Promessi sposi che, dopo che Renzo e Lucia sono finalmente sposi, riferendosi ai loro figli, recita: "ne vennero poi col tempo non so quant'altri, dell'uno e dell'altro sesso." Ma quanti figli hanno avuto Renzo e Lucia?
Se l'opera letteraria descrive solo una realtà fantastica, non ha tanto senso chiederselo. Ma se invece l'opera descrive una realtà di fatto, allora ci sarà un fatto vero (il numero di figli) che però non si può dedurre dall'opera. Similmente, se si crede che la matematica descriva una realtà di fatto(posizione che è detta platonica), ci saranno delle formule vere che non sono teoremi.
Per gli idealisti poi, che in Platone affondano le radici, e per i quali la realtà è solo illusione, i paradossi sarebbero proprio la prova che la realtà non è altro che un sogno. Lo scrittore Luis Borges, che sul paradosso ha costruito molta della sua letteratura, prendeva proprio la presenza dei paradossi come la conferma del carattere illusorio della realtà. Essa è come un sogno molto ben congegnato che quasi lo potremmo credere, se non fosse per i paradossi, che ci riportano al tranquillo sonno della vita.
Dunque, in tal caso, più che dei problemi da affrontare, i paradossi sarebbero degli errori provvidenziali.
Comunque sia, la fecondità dei paradossi è indubbia, e non riguarda soltanto la logica e la matematica, ma abbraccia tutte le scienze, costituendo un forte motore al cammino della ragione, e spesso costringendola anche ad abbandonare teorie a cui si era affezzionata.
A titolo di esempio, consideriamo la visione cosmologica più diffusa nell'800, secondo la quale l'universo era statico e pieno di stelle distribuite uniformemente nello spazio e nel tempo. Questo modello fu sottoposto a diverse critiche, e nel 1828 Olbers fece notare che, in tal caso, non sarebbe potuta esistere la notte (paradosso di Olbers).
Infatti, Olbers non fece altro che dividere lo spazio in una serie di cortecce sferiche di spessore costante con centro sulla Terra. Le stelle presenti in ogni corteccia sono proporzionali al volume della stessa, quindi al quadrato della distanza dalla Terra. Ma la luminosità apparente di una stella è inversamente proporzionale al quadrato della distanza dalla Terra. Pertanto ogni cortecia contribuisce con lo stesso flusso luminoso. Un semplice calcolo (che tiene conto dell'eventuale allineamento delle stelle), mostra allora che la notte dovrebbe avere una luminosità paragonabile a quella del Sole, cioè non potrebbe esistere.
Dunque c'è qualcosa che non va nella cosmologia dell'800. Si esce dal paradosso per svariate ragioni: 1) le stelle non sono eterne ma nascono e muoiono, 2) su grandi scale contano più le galassie che le singole stelle, 3) lo spazio non è necessariamente euclideo, 4) l'universo non è statico ma in espansione. Ecco così spalancate le porte alla fisica del secolo successivo.
Dunque lo stimolo costante dei paradossi produce una catena di revisioni che spesso sfociano in una comprensione più profonda delle cose e dei limiti della nostra conoscenza. Questo è davvero un principio generale che vale per tutte le scienze, dove paradossi e incongruenze diventano ad un certo punto intollerabili, innescando quelle rivoluzioni che segnano il loro cammino evolutivo.


Letture utili


- Giuliano Toraldo di Francia, Ex absurdo, Feltrinelli, 1997

- Piergiorgio Odifreddi, C'era una volta un paradosso, Grandi tascabili Einaudi, 2002

- G. Lolli, Il riso di Talete Bollati Boringhieri, 1998

- N. Falletta, Il libro dei paradossi Longanesi, 2002

segnalo alcune raccolte di articoli e saggi legati all'orgomento in questione

- Corrado Mangione (a cura di) , Logica , Le Scienze quaderni, N.60, 1991
- Giambruno Guerriero, Kurt Godel, Le Scienze, i grandi della scienza N.19, 2001

Alcuni saggi di Piergiorgio Odifreddi su questo e altri argomenti si possono trovare momentaneamente sulla rete all'indirizzo: www.vialattea.net

Per chi fosse piu' interessato agli aspetti logici e matematici segnalo le dispense del prof. A. Maida, scomparso di recente, le cui lezioni ricordo con affetto.

- A. Maida, Logica e fondamenti della matematica si possono consultare e/o scaricare dalla rete all'indirizzo: www.matematicamente.it /maida/Maidaindice/htm