CENNI DI MUSICA AQUILEIESE

 

Navata centrale della Basilica di Aquileia (XI sec.)1 - ALCUNI CENNI STORICI AMBIENTALI

L'origine e il nome di " Aquileia " ha suscitato non poche polemiche. Tito Livio scrive: " Lo stesso anno (181 a. C.) fu dedotta nel territorio dei Galli la colonia latina di Aquileia. I tremila fanti che la costituirono ebbero cinquanta iugeri di terreno ciascuno, i centurioni cento e i cavalieri centoquaranta. Alla deduzione provvidero i tre incaricati P. Scipione Nasica, C. Flaminio e L. Manlio Acidino " (Annali, libro XL, c. 34). Una epigrafe del museo aquileiese conferma la notizia: " Lucius Manlius L. F. Acidinus Triumvir Aquileiae coloniae deducundae " (G. Brusin, Aquileia, Udine 1929, p. 1 sg.; P. Paschini, Storia del Friuli, Udine 1953, vol. I, p. 19 ss.).

Ma recenti studi affermano un'origine preromana di questa città che tanto, poi attirò lo sguardo di Roma per essere una base militare sia per l'espansione imperiale, sia come punto focale di attività commerciale tra occidente ed oriente (G. C. Menis, Aquileia, Udine 1965, p. 9 ss.).

Questa "seconda Roma" divenne presto un centro fiorente talmente importante da essere anche denominata " la città d'oro ", la città " più distinta, più grande e più potente in Europa, dopo Roma, una città insomma che brillò con i suoi magnifici edifici pubblici e privati ". Già al tempo di Augusto contava oltre 130 mila abitanti, e, più tardi, raggiunse anche il mezzo milione. Praticamente tutto il Norico e tutto 1'Illirico facevano capo a questa città, divenendo attrazione, in pari tempo, militare, civile, culturale e anche stazione turistica a tal punto che lo stesso Marziale sperava potervi passare serenamente la vecchiaia.

Circa la dibattutissima questione sull'origine e il fondatore del cristianesimo ad Aquileia e del relativo patriarcato, rinvio i lettori agli studi del Paschini, di Biasutti, di Menis, di Gamber ecc .... Non è infatti mia intenzione prolungare una questione la quale, alla luce dei documenti, è piuttosto labile o, addirittura, completamente infondata, come la tradizione o meno marciana.

Mi limito a dire una sola cosa, come studioso di codici musicali nessun codice aquileiese (e il sottoscritto ne ha visti oltre 275: credo tutti quelli che oggi sono reperibili) sino a tutto il secolo XIII riporta mai il proprium per S. Marco, né per l'Officio divino né per la Messa. E quei codici che, al 25 aprile, menzionano la festa di S. Marco spendono pochissime parole di semplice rinvio alla Messa di S. Giorgio "Protexisti" (composta nel VII secolo in occasione della dedicazione della Chiesa di S. Giorgio in Velabro a Roma, e più tardi estesa anche per S. Marco e per il Comune dei Martiri; cfr. R. Hesbert, Missale Sextuplex, CXI, e p. 939). Questo fatto è veramente sintomatico. Infatti la liturgia aquileiese, quanto mai abbondante per tutti i suoi santi (con propri, inni, sequenze, tropi ecc.), è mai possibile che non avrebbe scritto e dedicato almeno altrettanto al suo fondatore, se veramente S. Marco fosse stato ritenuto tale nell'epoca classica della formazione del repertorio liturgico-musicale? Con ciò - come vedremo - non intendo affatto negare una certa orientalità e dipendenze orientali liturgico-musicali. Ma questa è un'altra questione, ben distinta dalla prima, e che può spiegarsi in altre maniere, senza ammettere - per fas et nefas - S. Marco fondatore del cristianesimo equileiese.

San Pietro consacra Sant'Ermacora vescovo di Aquileia con San Marco. (affresco nella Basilica del XII sec.).Del resto un S. Girolamo, un Rufino, un Cromazio, un Venanzio Fortunato e tanti altri dotti del III, IV e V secolo, che parlano delle glorie di Aquileia, è mai possibile abbiano omessa proprio la gloria principale, quella della fondazione apostolica, operata da un discepolo di S. Pietro, se veramente fosse avvenuta?

E come spiegare il linguaggio, usato dal Papa Pelagio I (556-561 contro il patriarca equileiese (che proprio allora si era attribuito il titolo di "patriarca"), qualora la sede fosse stata di fondazione apostolica?

Dunque lasciamo a Paolo Diacono di Cividale (+ 799) e a tutti i susseguenti assertori la leggenda su S. Marco, e veniamo a questioni storiche fondate e sicure.

Nel 314, all'indomani della pace costantiniana, abbiamo il Concilio d'Arles col raduno dell'episcopato occidentale. Aquileia è presente col suo vescovo Teodoro, il quale rappresenta i vescovi della Dalmazia. È un primo punto sicuro del prestigio episcopale aquileiese.

Nel 342 viene eletto vescovo Fortunaziano il quale godeva la fiducia del Papa Liberio, ed ebbe a che fare nella questione degli Ariani a proposito della condanna di S. Atanasio, convincendo lo stesso Liberio ad una conciliazione con l'imperatore Costanzo. Fortunaziano scrisse - secondo S. Girolamo - un commento popolare agli Evangeli.

Gli successe Valeriano, amico di Papa Damaso, di S. Girolamo e di Rufino. Fu sotto di lui che ebbe luogo il celebre Concilio d'Aquileia del 381 contro gli Ariani. Notiamo che fu radunato ad Aquileia perché allora era la città maggiormente preparata "liturgicamente, musicalmente e militarmente". Tre condizioni assai importanti sia per la questione ariana in se stessa - da debellare -, sia per la posizione di supremazia che Aquileia godeva anche sopra Milano.

Valeriano morì il 26 novembre, probabilmente del 388, dopo aver contribuito a debellare l'arianesimo. Nonostante le varie vicende politiche piuttosto preoccupanti e dolorose tra Massimo e Valentiniano II con le rispettive occupazioni della città, riuscì non soltanto alla formazione di un valido e dotto clero, ma anche a consacrare una nuova basilica in Aquileia stessa (vedi Martirologio Geronimiano al 3 sett.).

La Basilica di Aquileia nel IX sec. (ricostruzione).Una vita monastico-liturgica assai considerevole, sotto questo vescovo, viene incentrata sull'opera di S. Girolamo, di Eliodoro, Rufino, Nepoziano e tutta l'équipe maschile e femminile che circondava questi santi, a tal punto da far dire allo stesso S. Girolamo: "Aquileienses clerici uti chorus beatorum habentur" (Cronicon del 373). Dunque una vita intensamente monastica, liturgica e musicale. Del resto basti considerare quanto afferma egli stesso per il clero romano contemporaneo "Romani vero (clerici) uti canes bajulant". La musica, il canto ad Aquileia era pertanto già classico a quei tempi, e, per lo meno, superiore alla schola romana e milanese (quest'ultima era appena in formazione allora).

Degno successore di Valeriano fu Cromazio "venerando papa... dottissimo fra i vescovi", come lo chiama S. Gerolamo, il quale gli inviò dalla Palestina i suoi commenti su Hababuc, Osea, Amos, Zaccaria, Malachia, i Proverbi, l'Ecclesiaste e il Cantico dei Cantici, oltre la traduzione dall'ebraico dei Paralipomeni. In compenso Cromazio invia a Girolamo "aiuti di danaro" per sostentare i miei scrivani e librai". Non meno impegnato fu anche Rufino con Cromazio il quale gli fece tradurre dal greco la Storia Ecclesiastica di Eusebio e ventisei omelie di Origene.

Ma tre punti soprattutto ci interessano di Cromazio. Anzitutto la sua opera di convinzione operata su S. Girolamo per la redazione del Martyrologiurn Hieronimianum (anche se la critica non sia del tutto concorde e dubiti seriamente); in secondo luogo le sue numerose omelie oggi rivalutate dal P. J. Lemarié (Revue Bénédictine dal 1963 in poi), nelle quali abbiamo delle frasi molto interessanti sia per comprendere la profonda dottrina teologica di Cromazio e sia per le relazioni con le altre chiese (Milano e Roma). È appunto Cromazio che ci dice " Etiam Romae cantus nostros dedimus ". Questo fatto ci fa pensare all'influsso aquileiese sul canto gregoriano forse motivato dallo stesso S. Girolamo. Questi - come abbiam visto - conosceva infatti assai bene l'uno e l'altro canto, ed è probabile che abbia influito sul Papa Damaso perché chiedesse ad Aquileia delle melodie.

Un terzo punto molto importante è il Cursus dell'Ufficio divino, riferitoci da un anonimo del secolo VII. Quest'anonimo riferisce tre specie di Cursus: uno (il primo) è così descritto: " Est alius Cursus Orientalis a Sancto Cromatio et Eliodoro, et beato Paulino seu et Athanasio episcopo editus, que (sic!) in Gallorum consuetudinem non habetur, que sanctus Macharius decantavit hoc est per duodenas, hoc est, unaquaque hora ". Quindi segue un secondo Cursus di S. Agostino e S. Ambrogio, e poi un terzo quello di S. Benedetto (Dict. Arch. Chr., vol. I, col. 2683 ss.). Questo fatto per .noi è assai importante per due motivi soprattutto: anzitutto per l'opera liturgica operata dal Cromazio, e, in secondo luogo per la dipendenza orientale. Spieghiamoci alquanto.

Abbiamo accennato alle relazioni avute da Cromazio con Girolamo e Rufino, e come egli si sia fatto tradurre in latino non solo libri della S. Scrittura ma anche la Storia Ecclesiastica di Eusebio. Ora, contemporaneamente a questi grandi, viveva anche S. Giovanni Cassiano, il celebre scrittore delle Istituzioni e Collazioni monastiche. Costui ci racconta e descrive i vari usi monastici e la distribuzione dei salmi dell'Ufficio divino presso le comunità monastiche primitive della Tebaide, dell'Egitto e della Palestina. Nel libro II delle sue Istituzioni ci parla precisamente come un Angelo abbia posto fine alla discussione sulla distribuzione dei salmi: " Adunque in tutto l'Egitto ed in tutta la Tebaide si recitano dodici salmi sia nelle ore vespertine, come nelle notturne solennità, seguiti da due lezioni, una dell'Antico ed una del Nuovo Testamento. Questo modo di salmeggiare è assai antico, e perciò si conserva da tanti secoli sino ad oggi in quasi tutti i monasteri di quelle province. Dicono che non per umana invenzione sia stato stabilito dai seniori, ma dato dal cielo ai Padri mediante l'insegnamento di un Angelo (capo 4). È vero che all'inizio del cristianesimo erano pochi coloro che si chiamavàno monaci, però erano buonissimi. Questi avevano appreso le norme del vivere santamente dall'Evangelista Marco, di beata memoria, primo vescovo di Alessandria, e conservavano tutte quelle magnifiche tradizioni della Chiesa primitiva dei fedeli, come leggiamo negli Atti degli Apostoli... E fecero cose ancora mirabili più di queste, delle quali chi non ne avesse avuto comunicazione dagli stessi abitanti del luogo, può leggerle nella Storia Ecclesiastica (di Eusebio) (capo 5) ".

Ecco ora il nostro ragionamento: Cassiano vive tra il 360 e il 435, conobbe S. Ambrogio, S. Girolamo, S. Agostino, S. Leone Magno, S. Paolino di Nola, Prudenzio, S. Basilio, S. Giovanni Crisostomo, S. Cirillo Alessandrino, S. Atanasio e S. Macario (t 390 circa). È certo che il Cursus di cui parliamo era esattamente quello detto di " S. Macario " usato in Tebaide ed in Egitto, poi diffuso un po' ovunque tra i monaci e, in parte, ripreso da S. Benedetto nella sua Regola. È certo anche che Cassiano viaggiò moltissimo in occidente ed in oriente, e pervenne non rare volte nell'Illirico e nella Dalmazia, attraversò la zona aquileiese e si portò nella Gallia ove, a Lerino, fondò i suoi monasteri. Quanto riferisce Cassiano è certo, e le edizioni critiche, anche ultimissime (vedi M. Petschenig, in CSEL, vol. 13 e 17) lo confermano. La conclusione nostra - dopo un accurato esame delle melodie, come vedremo - è questa: la liturgia dell'Ufficio divino da Cromazio sino a S. Paolino era quella monastica orientale sia quanto alla distribuzione dei testi sia quanto alla cantilena musicale; essa fu trasportata ad Aquileia dal mondo monastico con a capo S. Atanasio, S. Girolamo, Rufino e Cassiano; più precisamente: era la liturgia monastica della Tebaide e dell'Egitto, ove la tradizione antica riteneva S. Marco Evangelista come fondatore della vita monastica. Ora una domanda (" inquirendo magis quam affirmando "): la tradizione marciana aquileiese sarà forse nata da questo fatto liturgico-monastico-musicale? Non esiste una risposta.

Abbiamo accennato alla questione marciana una seconda volta: Come è noto, ne parlano già Paolo Diacono (verso il 783-786) e Paolino d'Aquileia (787-802). Le ultime istanze furono scritte da Mons. Guglielmo Biasutti e D. G. Carlo Menis, entrambi discutendo la lettera XII attribuita a S. Ambrogio, nella quale troviamo la frase seguente: " Nam etsi Alexandrinae ecclesiae semper dispositionem ordinemque tenuerimus, et juxta morem consuetudinemque maiorum eius communionem indissolubili societate ad haec tempora servemus... ".

(Ricordiamo appena che questa lettera è l'ultima delle quattro scritte ad Aquileia in occasione del Concilio ivi tenutosi nel settembre del 381; lettera edita anch'essa, insieme agli Atti del Concilio, tra le epistole ambrosiane).

Ora, comunque si voglia tradurre ed interpretare il testo ed il contesto della lettera in causa, crediamo - dopo quanto detto - si possa aprire una nuova discussione sulla maggiore o minore dipendenza aquileiese da Alessandria per quanto riguarda l'organizzazione e il contenuto liturgico-musicale.

Altro momento storico che interessa il nostro argomento è costituito dalle relazioni e interdipendenze tra Milano ed Aquileia. A parte il fatto, ben noto, che Milano nasce al mondo liturgico-musicale quando già Aquileia è in piena classicità (come abbiamo già accennato), sta di fatto che i confini del patriarcato aquileiese si estesero sino a due passi da Milano, sino cioè a Monza. Inoltre, mentre già nel V-VI secolo i rispettivi vescovi si consacrano vicendevolmente (come è attestato dallo stesso Papa Pelagio I, come un uso antico), più tardi (tra il IX e il XII secolo) i vescovi milanesi saranno scelti tra il clero aquileiese.

Questi fatti ci dicono una interdipendenza anche liturgico-musicale tra le due sedi, o meglio ci dicono la preminenza aquileiese su quella milanese. Del resto (ed è stato da me già scritto nel mio IV volume del Trattato Generale di Canto Gregoriano, cap. IV), chi può oggi affermare quale sia il vero repertorio musicale ambrosiano? Sappiamo che la ricostruzione iniziò verso 1'808 con l'arcivescovo Odelsperto, dopo secoli di distruzione ed abbandono. Tale ricostruzione fu fatta non tanto sui manoscritti ambrosiani (del resto rimasti pochissimi) bensì fondendo insieme repertorio aquileiese, gregoriano, aquitano ecc.

Da tali fatti possiamo dire e concludere sulla preminenza del repertorio liturgico-musicale aquileiese sull'ambrosiano.

Ma non soltanto sull'ambrosiano. Mi permetto di aggiungere che tale preminenza aquileiese è anche sul repertorio romano. Infatti, come abbiamo già accennato, Aquileia fornì anche Roma di canti e melodie. Ora se pensiamo allo scisma dei Tre Capitoli che si protrasse per circa due secoli (praticamente dall'elezione di Papa Pelagio, 16 aprile 556, sino al Patriarca Sereno, 711), e se pensiamo che proprio in questi due secoli abbiamo lo sviluppo classico sia del repertorio romano sia di quello aquileiese, dobbiamo concludere che fu Aquileia ad influire sul repertorio romano e non viceversa, e che il repertorio aquileiese ebbe una vitalità propria, non dipendente da altri repertori occidentali, bensì da repertori orientali occidéntalizzati ovvero aquileiesizzati.

Un cenno a parte merita S. Paolino, morto a Cividale I'll gennaio 802, intimo di Carlo Magno, di Alcuino e di tutti i grandi della corte carolingica: Teologo profondo e poeta eccellente. Walafrido Strabone dice di lui: " Traditur Paulinum Forjuliensem Patriarcam, saepius, et maxime in privatis missis circa immolationem sacramentorum hymnos vel ab aliis vel a se compositos celebrasse. Ego vero crediderim tantum tantaeque scientiae virum hoc nec sine auctoritate nec sine rationis ponderatione fecisse " (De Rebus eccl., c. XXV).

Occorrerebbe una edizione critica delle opere di Paolino prima di dare un giudizio. Però è certo che egli compose inni " circa immolationem sacramentorum ". Cosa si debba intendere con tale frase non è facile dirlo. Infatti si potrebbe parlare di canti da eseguirsi durante la celebrazione eucaristica, ovvero - come hanno insinuato altri - di formule particolari per il Canone della Messa? Non è facile decidere. Però sappiamo che Paolino introdusse un Hanc igitur particolare nel Canone della Messa, più lungo dell'attuale.

A proposito poi del Canone della Messa ricordiamo che gli studiosi sono assai propensi nell'asserire che l'attuale Canone Romano sarebbe stato introdotto nella liturgia romana attraverso Aquileia. Le cose starebbero così: il Canone primitivo sarebbe venuto dall'Oriente, e precisamente da due fonti: una alessandrina ed una siriaca. Queste due fonti sarebbero state fuse e rimanipolate ad Aquileia e poi, tramite Ravenna, sarebbero pervenute ed accettate anche da Roma (vedi A. Baumstark, Liturgia romana e liturgia dell'Esarcato...; G. Morin, in Revue Bénédictine, 1904, p. 375 ss.).

Se queste idee rispondessero alla verità, noi avremmo altri argomenti per provare la dipendenza liturgico-musicale aquileiese dall'oriente. Sinora nessuno ha provato il contrario.

E, giacché siamo in materia, ci è caro aggiungere un'altra riflessione, forse sfuggita a più di qualche studioso friulano sulla materia, cioè le Antifone per la " Fractio panis ". Questa cerimonia, come si sa, è stata mantenuta in tutte le liturgie sia perché riproduce un gesto familiare di Gesù, sia per necessità pratica della Comunione, e fu sempre ritenuta importante a tal punto da chiamare il Sacrificio Eucaristico anche e semplicemente " Fractio panis ".

Orbene una cosa è certa: prima dell'unificazione liturgica, operata da Carlomagno, nella liturgia aquileiese avevamo i canti per la " Fractio panis ". Sappiamo che i più antichi esempi per la frazione del pane sono orientali, nelle liturgie di S. Giacomo e di S. Marco (nel libro Octoechos di Severo - 512, 518 - leggiamo parecchi brani per i " confractoria " orientali). Questi brani si trovano tutti in manoscritti musicali (diastematici e in campo aperto) dell'Alta Italia, certamente aquileiesi. Infatti non esistono canti per la frazione del pane né a Roma né a Milano, in quanto che la " Fractio panis " nel romano e nell'ambrosiano veniva fatta prima della Orazione Domenicale; ma neppure dopo S. Gregorio Magno (+ 604), in quanto che sono del tutto sconosciuti; solo in epoca incerta compaiono a Milano, probabilmente all'epoca di Papa Sergio (+ 701) il quale introdusse il canto dell'Agnus Dei al posto dell'orientale (Sergio era orientale) confractorium.

Tramite Aquileia questi canti furono introdotti anche nella liturgia gallicana e in quella mozarabica.

I manoscritti che riportano questi bellissimi canti sono sette, sparpagliati in varie città dell'Italia, ma, comunque, reperibili e accessibili per tutti. Ecco alcuni titoli: Angeli circumdederunt... Stant Angeli ad latus altaris... Corpus Christi accepimus... Corpus tuum frangitur... Hoc Corpus quod pro vobis tradetur (questo canto è in vigore ancora oggi come canto alla Comunione nella I Domenica di passione)... Multitudo Angelorum... Venite populi... Emitte Spiritum Sanctum tuum... Hic est Agnus qui de coelo descendit... Una riflessione: se confrontiamo i canti della frazione del pane in uso ad Aquileia con i canti dei libri orientali, noi abbiamo non solo testi uguali (si capisce: in oriente in greco, ed in occidente in latino), ma anche melodie uguali, semplici e arcaiche, orientali al massimo. Fatto questo, mi pare, di capitale importanza per l'argomento che stiamo trattando, quello della dipendenza equileiese dall'oriente in campo liturgico-musicale.

Per terminare questa nostra disamina schematica, aggiungiamo che il Codex Rehdigeranus (esaminato a suo tempo da studiosi di alto valore, compresi il Haase, il Duchesne e il Morin) ci attesta la presenza di un Anno Liturgico proprio ad Aquileia, corrispondente assai agli elenchi orientali, almeno 'per quanto riguarda la disposizione delle feste del Signore e della' Madonna e degli Apostoli ed Evangelisti.

Infine: come spiegare due fatti, il sistema melodico per l'annuncio delle feste (vedi De Rubeis, De Sacris Forojul. ritibus), e la traditio orationis (il Pater), propria di Aquileia, e da essa presa dal gelasiano (vedi l'omelia di S. Cromazio al riguardo), se non agganciandosi alla osmosi orientale ed aquileiese?

All'inizio di questo breve excursus storico ho accennato all'importanza del primitivo mondo monastico circa l'influsso orientale liturgicomusicale. Ora accenno al mondo monastico occidentale, e precisamente a quello benedettino e, segnatamente, a quello proveniente dal celebre monastero svizzero di S. Gallo.

È, noto come i monasteri - numerosi - del patriarcato fossero, almeno alcuni, sotto l'influsso di S. Gallo, e come vari patriarchi fossero stati prima Abati di quell'abbazia. I monaci hanno apportato non poco al movimento liturgico-musicale, soprattutto per quanto riguarda i canti processionali, le sequenze, i tropi, i discanti e i drammi sacri (basti citare la sola abbazia di Moggio con tutti i suoi numerosi codici: vedi M. Casarsa, I codici liturgici della Abbazia di Moggio, Udine 1968).

Un secondo influsso monastico lo si deve ad un altro ramo monastico proveniente da Pomposa, ove il celebre Guido inventò il nuovo sistema pedagogico musicale, le cui dipendenze si protendevano ampiamente anche nel patriarcato aquileiese con molti monasteri. E questi ebbero altra e capitale importanza: quella di introdurre la diastemazia nella lettura musicale.

Ora, mentre l'antico influsso monastico era nettamente orientalizzante, quello sangallese e pomposiano era, al contrario, nettamente occidentalizzato. Da questo periodo incominciano le confusioni liturgicomusicali, e aumentano sempre più sino al giorno in cui il patriarca Francesco Barbaro, nel Sinodo di Udine (19-20 ottobre 1596), cessò il rito aquileiese sia per la recita dell'Ufficio sia per la Messa, nonostante che il Concilio di Trento avesse permesso che i riti antichi da almeno 200 anni potessero essere conservati. Si addusse come causa la mancanza di libri (breviari e messali). In realtà avvenne allora quanto tristemente stiamo osservando oggi: poca fede, poca preghiera, eresia dell'azione a discapito dell'unum necessarium, dando poco a Dio e molto alle creature. Infatti le cronache del tempo ci dicono chiaramente che il clero " non aveva più tempo per pregare tanto a lungo con i formulari dell'antico e santo rito aquileiese, ma, per lo contrario, aveva tempo perché li preti andassero alla cacciagione, alle bettole e alli scandoli " (vedi Hist. Foroj., vol. II).

Milano conservò il suo rito; Aquileia purtroppo no, essa che aveva fornito della sua dovizia liturgico-musicale tanto Milano quanto la stessa Roma.

 

Plutei decorati all'interno della Basilica aquileiese2 - LA MUSICA AQUILEIESE

a) Forme particolari.

Oltre alle forme musicali ordinarie (quali le parti proprie ovvero dell'ordinarium Missae e dell'Ufficio) per le quali però bisognerebbe ancora fare delle riflessioni particolari sotto vari punti sia strettamente melodici sia estetici, mi permetto di presentare - sia pure brevemente - alcune forme particolari di speciale menzione.

Anzitutto i Responsori processionali, i quali vengono trattati dai vari melografi in forma assolutamente e volutamente sotto lo stile semisillabico. È proprio questo semisillabismo che permette un andamento processionale solenne ed ieratico, simili in tutto alle movenze ritmiche orientali (basti citare per tutti i due codici CI e CII di Cividale, nella Biblioteca Comunale) (1).

Toni salrnodici: rivestono uno stile anteriore all'octoechos, a quei toni cioè che oggi ancora siamo soliti cantare e sentire, secondo lo stile romano. A questo proposito ci sarebbe da fare un lungo studio. Per ora mi permetto soltanto di dire che questi toni sono sciolti dal ritmo accentuativo con le rispettive leggi, secondo le quali si hanno cadenze ad uno o due accenti melodici secondo gli accenti verbali corrispondenti. Nei toni aquileiesi invece abbiamo tante note di cadenza (mediana o finale) quante sillabe e viceversa, indipendentemente dalla posizione e numero degli accenti verbali. Questo fatto dona alle cadenze salmodiche una vaghezza assolutamente celestiale. Una ipotesi: la traduzione salmodica fatta da S. Girolamo (sia quella del Salterio Romano, sia la Juxta Hebreos e sia anche la Vetus Gallicana) comporta generalmente un triplice Cursus ritmico di cadenze: Cursus planus, Cursus velox e Cursus tardus. Orbene le cadenze salmodiche tonali aquileiesi sono improntate proprio secondo questo triplice Cursus. Nello stesso tempo le cadenze sillabiche delle varie liturgie orientali hanno i medesimi Cursus. Non si potrebbe quindi dedurre che fosse stato lo stesso S. Girolamo a trapiantare ad Aquileia i toni salmodici con queste cadenze veramente incantevoli? (1)

Toni speciali per le letture, le epistole e gli evangeli: anzitutto premetto che non intendo parlare dei toni cosidetti " patriarchini " di Venezia, che si sentono cantare ancor oggi: questi sono la corruzione degli antichi. I toni aquileiesi, come ci vengono riportati dai vari e ben noti manoscritti, hanno delle caratteristiche proprie: sillabiamo di recitazione e fioritura di cadenze. Due qualità che ancor oggi sentiamo sia nel canto bizantino di Costantinopoli, sia in quello di Grottaferrata e in quello siriaco.

Toni per l'annuncio delle varie solennità: hanno le stesse caratteristiche dei precedenti toni delle letture, sebbene con maggiore slancio e minore fioritura di cadenze.

Toni per le Lamentazioni di Geremia Profeta: occorrerebbe anche per questo soggetto uno studio approfondito. Io li ho pubblicati nella mia trascrizione in un volumetto a parte (Liber Monastici Cantus, Venezia 1962: in questo libro si hanno vari toni melodici sia per le letture della Messa sia per quelle dell'Ufficio divino, pubblicato appositamente per i cori monastici italiani. Quasi il 95 per cento dei toni sono stati da me desunti dai codici aquileiesi di varie epoche). Descrivere questi toni non è possibile: occorrerebbe invece cantarli e sentirli per convincersi della loro provenienza orientale, tanto precise e perfette sono le rispondenze estetico-modali di struttura melodica, di sillabismo, di toniche, di dominanti, di fioriture, di intervalli forti o diminuiti (compreso il tritono in forma diretta ed indiretta: cosa questa, del resto, ancora vigente nelle villotte friulane, fatto questo che ci convince ancora di più sul modismo orientale innato nell'animo musicale friulano).

Responsori per le solennità al Mattutino: soprattutto quelli del Natale e del Triduo Sacro. Sono dei veri capolavori del " recitar cantando ", che si muovono con un sillabiamo ritmico perfetto, attraverso una limitata estensione di note, ma pregni di modalità orientale che esula da qualsiasi schema modale latino occidentale, anche quando la tonalità sembra voglia far capolino e, qualche volta, quasi dominare: è allora il momento quando una nuova nota ci fa sfuggire alla tonalità occidentale. Si cantino e si vedrà.

Canti per l' " Ordo Scrutinorum ": (per questo argomento pregherei un friulano a dedicarvisi profondamente, tanto seducente è l'argomento quanto trascurato!). Eppure anche in questo punto Aquileia è in testa alle altre liturgie, grazie ad un manoscritto (il T. 27 sup. della Biblioteca Ambrosiana di Milano), il quale ci riporta 1' " Ordo Scrutinorum " con le relative melodie in scrittura neumatica assolutamente differente sia dalla sangallese sia dalla milanese sia dalla romana, aventi forme neumatiche prettamente originali friulane (vedi la forma del podatus, del porrectus, del climacus, delle note liquescenti e della trifora...). Sì, infatti io sono convinto che la scrittura dei codici aquileiesi è propria, uscita da scriptoria locali: scrittura propria letteraria e scrittura propria musicale. Sono certo che un più attento esame dei manoscritti non solo ci porta alla detta conclusione, ma ci farebbe anche ridatare la maggior parte dei medesimi codici in forma molto più anteriore a quella ora datata da persone certamente esperte e qualificate, ma che erano piene di paura ed incertezze paleografiche e storiche. Ora le musiche di questo Ordo Scrutinorum sono molto più semplici di quelle milanesi e differiscono dagli altri repertori italiani sia per la scelta dei testi e sia per i procedimenti di composizione. Infatti il melografo doveva conoscere assai bene le regole di estetica delle forme musicali quando si pensa che i cinque Graduali dell'Ordo sono cantati tutti con la stessa melodia-tipo, però con tali e tante varianti (esigue dalla diversità dei testi) da farsi sentire sempre nuovi e freschi come se ognuno fosse stato composto a forma originaria. Il Morin non esita ad attribuire tali melodie al secolo VI (G. Morin, in Revue Bénédictine, 1927, p. 56-80).

I Tropi: ce ne sono tanti sparsi un po' in tutto l'anno liturgico, sia nelle antifone, sia nei Responsori, sia nei canti del Proprium Missae come in quelli dell'Ordinarium. Hanno un luogo caratteristico anche nelle Epistole della Messa. La loro forma è quanto mai semplice e sillabica, piena di densa modalità orientale, con motivi melodici alle volte presi quasi di sana pianta dal repertorio bizantino (si veda ad esempio le epistole di Pentecoste, ovvero di S. Stefano, ovvero il Recordare Virgo Mater ecc.).

Le Sequenze: è tutto un altro capitolo di musica a parte da riscrivere. Qui ci basta dire che ad Aquileia troviamo il numero più elevato di sequenze che si possa immaginare, al di sopra di qualsiasi altra liturgia. Infatti ve ne erano per ogni festa ed ogni messa (a Natale una ogni messa). Abbiamo sequenze composte sia in forma arcaica, sia in forma classica. Mi si permetta una parolina di più, dato l'argomento.

Fino a qualche anno fa si pensava a Notkero Balbulo (+ 912) come autore della Sequenza. Un più approfondito esame, fatto dal sottoscritte (vedi mio vol. IV, p. 126 ss), ci ha fatto pensare diversamente, tanto più che lo stesso 1vIotkero dice di aver imitato le sequenze di Jumiège, monastero distrutto dai normanni verso 1'851. Ma Jumiège dove aveva appreso questo nuovo sistema di composizione? Probabilmente dalla liturgia mozarabica. Ma questa donde l'apprese? Sappiamo che S. Cesario d'Arles (consacrato vescovo verso il 502) faceva cantare nella chiesa " psalmos et hymnos, prosas antiphonasque ": e le sequenze prenotkeriane erano chiamate esattamente " prosae " come riportano .gli antichi codici aquileiesi. Ora sappiamo anche che S. Cesario era in relazione col suo contemporaneo vescovo aquileiese, che fornì a Cesario " psalmos, prosas atque antiphonas ". Che concludere? La sequenza, nata in oriente, fu portata ad Aquileia in tempo indeterminato (ma forse verso il V-VI secolo), da qui passò in Gallia, donde si estese anche alla Spagna e a Jumiège e poi a Notkero.

Le sequenze aquileiesi sono una più bella dell'altra. Ma mi è caro ricordare soprattutto la sequenza per la messa dei defunti " Cum sit omnis caro feonum ", la quale ebbe tanta presa sugli animi dei sacerdoti e dei fedeli da essere quasi considerata un talismano di protezione il solo cantarla e le si attribuiva un potere magico; e ricordo anche la sequenza " Virginis Mariae laudes ", la cui melodia fu poi adattata alla ancora odierna sequenza di Pasqua " Victimae paschali laudes ".

I Drammi sacri: altro capitolo della storia della musica da rifare completamente. Purtroppo mi convinco sempre più che certi storici sono devoti di S. Procopio (si copiano uno con l'altro senza mai neppure sospettare ed avere la tentazione di andare a compulsare i documenti!!!). Sinora gli storici dicono (e continuano a scrivere nonostante che sia il sottoscritto come il Passalacqua nella sua Biografia del Gregoriano, p. 139 ss. abbiamo già pubblicato quanto io sto per ripetere!) che il Dramma sacro è nato in Francia, verso il XII secolo, e dalla corruzione del Tropo e della Sequenza. È falso. E dico subito: il Dramma sacro (con i documenti sinora reperiti) è nato ad Aquileia, verso il VII-VIII secolo, e dai Responsori ed Antifone dialogate. Dunque si rovesciano le posizioni, contro coloro che accusano l'Italia di non aver conosciuto né amato tale genere di composizione. II sottoscritto non solo ha trascritto tutti e quattro i Drammi sacri aquileiesi, ma ne ha anche fatto l'esecuzione al Teatro La Fenice di Venezia già nel 1960 e li ha incisi su dischi.

Perché ho asserito che il Dramma è nato ad Aquileia? A causa del codice 234 della Biblioteca Arcivescovile di Udine, il quale si apre proprio (mutilo), a metà pagina, con il Dramma che noi chiamiamo " Visitatio sepulchri ", con neumi in campo aperto, assai rudimentali e primitivi, e con scrittura letteraria precarolina locale. La data di questo codice va ridimensionata. Infatti, oltre al sottoscritto, esso è stato fatto esaminare dal Bischof e dal De Marinis, i quali tutti siamo convinti che sia tra il VII e 1'VIII secolo. Ma si dati pure il codice anche un secolo o due secoli dopo, saremo sempre in prima fila contro tutte le asserzioni di certi storici di oltralpe!

Come è noto, gli altri tre Drammi sono il Planctus Mariae, la Annunciatio e la Resurrectio, anche su questi Drammi si sarebbe non poco da dire, soprattutto sul Planctus Mariae, il quale, quanto alla musica, dovrebbe essere datato almeno del secolo XI. Infatti la melodia è quasi la stessa delle Lamentationes dell'XI secolo, col si naturale e con tutte le forme ritmiche dell'epoca. Tanto diciamo contro quei trascrittori che hanno voluto presentare questo capolavoro - per fas et nefas - sotto forme mensurali e cromatiche semplicemente obbrobriose, contro ogni storicità melodica e paleografica, facendogli perdere quell'afflato orientale proprio di tali melodie (il si b del codice è posteriore: si guardi bene la grafia).

I Discanti: sono forme musicali a due voci, una avente la melodia ecclesiastica o tenor, e l'altra discanta con essa secondo determinate regole, proprie del discanto. la primitiva polifonia (il termine è ancora improprio). Per sè siamo a quella forma musicale che è detta " organum " o " diafonia ".

Di discanti ne esistono in altri manoscritti ed in altre scholae musicali medioevali (vedi il Tropario di Wincester, in notazione neumatica; i codici 109 e 130 di Chartres, il 586 e 592 della Bibl. Vaticana, il 603 di Lucca, e i due codici della Bibl. Nat. di Parigi lat. 11631, 12596).

Studiando i codici aquileiesi ne ho trovati 24: i principali si trovano in MS. LVI e nel Processionale CII della Biblioteca del Museo Nazionale di Cividale (ne ho pubblicati nove: in Jucunda Laudatio, 1966, p. 238 ss.).

Manca ancora uno studio particolareggiato al riguardo. Bisognerebbe analizzare le varie forme e i vari sistemi armonici e ritmici. Infatti, da uno sguardo, anche sommario, appare evidente che questi discanti hanno delle forme arcaiche e anche delle forme classiche, in quanto che le due vocia volte si muovono in forma " parallela " altre volte " per moto contrario "; a volte abbiamo terze, quarte, quinte e ottave parallele, a volte anche delle seconde e settime. mai delle seste; a volte le due voci iniziano all'unisono e terminano all'unisono ai singoli incisi o membri di frase, e a volte invece iniziano all'ottava ovvero alla quinta; salvo qualche rara eccezione, generalmente le fioriture sono uguali in entrambe le voci, sicché abbiamo un vero "punctum contra punctum"; le divisioni ritmiche non esistono se non nel senso primitivo, cioè di ritmo libero e non di "metro", sicché le stanghette apposte non intendono affatto darci la isocronia delle battute, bensì l'ampiezza dell'inciso o del membro: erano cioè non suddivisioni metriche, bensì segni pratici perché le due voci andassero insieme, e nulla più.

La scioltezza ritmica, abbinata alla struttura modale ed armonica, dona a questi discanti una freschezza compositiva degna di stare accanto sia alle composizioni classiche di tutti i tempi, e sia di paragonarsi degnamente con le stesse composizioni più moderne, tanto sono numerose e perfettamente immesse le dissonanze, risolte magnificamente in forma orizzontale anziché parallela o verticale. Per tali motivi, non pochi compositori moderni si sono già ispirati ai discanti aquileiesi non solo per le forme tematiche, ma anche per le forme ritmiche ed armoniche: e con ottimo risultato!

Bisognerebbe fare un paragone tra i discanti aquileiesi e quelli di altre scholae. Ma uscirei fuori campo: lo si farà in altra sede più appropriata.

 

b) Caratteristiche della musica aquileiese.

Dopo quanto detto sin qui, il lettore avrà già compreso che noi ci troviamo di fronte ad un repertorio musicale d'alto valore e da riscoprire completamente. È quanto si augura il sottoscritto, il quale ha - modestamente - il merito di aver agitato le acque per primo in questo campo, senza alcun sentimento di campanilismo non essendo, purtroppo, friulano! Sì, infatti troppo prezioso è il tesoro della musica aquileiese per tacere e nasconderlo.

Caratteristiche particolari sono:

Le forme estetiche però di costruzione sono ben chiare e precise. Esse sono davvero un'arte ed un mestiere in mano dei singoli compositori. Infatti sanno ben distinguere e mettere in evidenza tutti i singoli temi, controtemi, variazioni, varianti, progressioni ascendenti e discendenti, permutazioni, aggiunte, code, inversioni melodiche ecc. Sicché si potrebbe scrivere un vero trattato di composizione modernissima dalla sola analisi dei canti aquileiesi. Oggi i trattatisti non avrebbero nulla da aggiungere, anzi avrebbero molto da imparare.

Pellegrino Ernetti o.s.b.


NOTE

1. E. Papinutti, Il processionale di Cividale, Gorizia 1972; ottimo lavoro sul CI.