VITTORIO
DE SETA
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Vittorio De Seta è nato a Palermo il 15 ottobre 1923, ultimo di quattro fratelli di una nobile famiglia di origini calabresi che si era trasferita in Sicilia al seguito del nonno prefetto di Palermo. Infanzia e giovinezza di Vittorio sono quelle di un rampollo delle classi agiate negli anni ‘30, estati a Forte dei Marmi, a volte nella villa degli Agnelli. Nel '41 inizia a Roma studi di architettura. Nel '43 è allievo ufficiale dell’Accademia Navale di Livorno, trasferita in quel periodo a Brioni, l’isola di fronte a Pola e, dopo l’8 settembre, come tutti i suoi compagni, diventa un ostaggio nelle mani dei tedeschi. Poiché rifiuta di firmare l’atto di fedeltà alla Repubblica Sociale di Salò, è internato in un campo di prigionia nei pressi di Salisburgo, da cui tenta di evadere ben tre volte. L’ultima volta è ripreso dopo una settimana in cui, quasi senza mangiare, ha cercato di tornare in Italia risalendo il fiume Salz. È liberato nel '45 dai russi giunti a Vienna. Tornato a Roma, riprende gli studi di architettura senza grande passione, anche se finirà per dare in pratica tutti gli esami. Si interessa, invece, di cinema, di fotografia, di pittura, di questioni sociali ma senza ideologismi. Nel '47 s’iscrive al partito comunista con una scelta emotiva ma vissuta e sentita, lontano da tanti «compagni di strada» come Visconti da cui «tutta la sinistra andava, accolta da camerieri in guanti bianchi». In contatto per conoscenza personale con il gruppo della «Panaria Film» che darà vita a una singolare esperienza di cinema siciliano
“di mare”, comincia a frequentare l’ambiente del cinema. Nel ‘53 è aiuto regista e co-sceneggiatore di Jean-Paul Le Chanois per
Le village magique, girato a Cefalù, e poi «assiste» Mario Chiari come secondo aiuto per il quarto episodio di
Amori di mezzo secolo. Dopo una prima esperienza poco soddisfacente,
Pasqua in Sicilia, co-diretto con Vito Pandolfi (“A vederlo mi viene la pelle d’oca perché è proprio
convenzionale”, dice oggi De Seta), nel '54-'55 gira sei documentari in Sicilia (Lu tempu
di li pisci spata, Isole di fuoco, Surfarara, Pasqua in
Sicilia, Contadini del mare, Parabola d’oro), fortemente innovativi nell’approccio a un mondo rappresentato dall’interno della sua cultura. «Reperti stupendi di un mondo passato, privi di enfasi e pieni di poesia», sono subito riconosciuti internazionalmente, ad esempio con il primo premio per il documentario al Festival di Cannes 1955
(Isole di fuoco) e a quello di Mannheim 1956 (Contadini del
mare). Negli anni successivi prepara due lungometraggi a soggetto, «I
contadini», ispirato alla figura di Salvatore Carnevale, il sindacalista ucciso dalla mafia, e «La diga», ambientato a Corleone, progetti che per ragioni diverse non andarono in porto. Nel
'58-'59 dirige altri quattro importanti cortometraggi in Sicilia (Pescherecci), in Sardegna
(Pastori di Orgosolo, Un giorno in Barbagia), in Calabria
(I dimenticati). Dopo il fallimento di un altro progetto di film sulla Sardegna, scritto con Solinas e Moravia per la produzione di Carlo Ponti, esordisce nel lungometraggio con
Banditi a Orgosolo, film duro e perfetto nella sua semplicità che è in realtà frutto del rigore di un metodo e di una messa in scena. Girato in totale indipendenza, è salutato dai prestigiosi «Cahiers du Cinéma», all’epoca «organo» della Nouvelle Vague, come la «sola rivelazione» della Mostra di Venezia 1961, dove ottiene il Premio Opera Prima. Ad esso seguiranno
Un uomo a metà (1966) e L’invitata (1969), film controversi per opposti
motivi. Il primo, di taglio junghiano, nonostante l’appassionata difesa che ne fecero personaggi come Moravia e Pasolini, fu osteggiato per l’abbandono del racconto «sociale» a favore
dell’introspezione di una crisi che è il film e che è rimessa in questione di sé stesso; il secondo per le sue concessioni a un cinema di moda, al gusto del tempo. Dopo aver tentato invano di
realizzare un film sulla guerra di liberazione in Guinea Bissau, negli anni
'70 passa alla televisione, iniziando la collaborazione con la RAI. È una collaborazione segnata dallo
straordinario successo di Diario di un maestro (1973). Girato con una libertà di linguaggio insolita in TV, in un sapiente dosaggio di parti «estemporanee» e parti «sceneggiate», il film diventa un «caso» toccando punte di oltre 15 milioni di spettatori e suscitando «accese discussioni» sulla TV e sulla scuola italiana. Un altro progetto di grande respiro, significativo dei profondi interessi di De Seta, è «Vita di Paolo di Tarso», per cui scrive un’amplissima e originale pre-sceneggiatura di 1.100 pagine, frutto di un’accurata ricerca durata tre anni, resa inutile dai dissidi tra i due committenti, la San Paolo e la RAI. De Seta torna allora al film-inchiesta sui «suoi» temi, affrontati con variazioni adeguate ai nuovi anni: il difficile cambiamento nella scuola
(Quando la scuola cambia, 1978); la «mutazione antropologica» del nostro paese, verificata nella distanza di «paesaggio», natura, cultura, senso della comunità tra lo «ieri» contadino dei suoi vecchi documentari e l’«oggi» industriale
(La Sicilia rivisitata, 1980). Tutte produzioni RAI in più puntate. Di questa fase, il mm.
Un carnevale per Venezia (1982) rappresenta un’ultima appendice. Nel
'79 era scomparsa la moglie Vera Gherarducci, attrice che aveva recitato anche con Eduardo De Filippo, poi sua importante collaboratrice, con cui si era sposato nel
'55. Gli anni '80, segnati da questo grave lutto e da due operazioni agli occhi, ma anche da una sorta di smarrimento di fronte al disastro etico e civile di un mondo radicalmente cambiato, sono anni di silenzio. Ritorna a Sellia Marina, nei pressi di Catanzaro, stabilendo la sua residenza in una proprietà di famiglia. Al cinema tornerà dieci anni dopo, con
In Calabria (1993) che sviluppa il suo discorso su uno «sviluppo senza progresso» sul filo di un linguaggio — «usi e paesaggi e fatiche e facce e corpi e
suoni» e moderne devastazioni — sempre più rigoroso. Fedele a un cinema «di
pensiero» che ha una ragione che è altrettanto morale che estetica. De Seta è stato un cineasta indipendente quando era difficilissimo essere dei cineasti indipendenti, quando non c’erano le condizioni per poter essere dei cineasti indipendenti. Il suo cinema io non so definirlo altro che come «cinema della purezza». Tutta la sua opera è coerente a un’idea di cinema che non scende a compromessi, e nello stesso tempo, e proprio per questo, a un’idea avventurosa del cinema affine a quella dei pionieri. Da ragazzo mi impressionò molto
Banditi a Orgosolo, e la conferma del valore di questo regista l’ho avuta quando egli è venuto a Palermo alcuni anni fa e ho potuto vedere tutti insieme i suoi documentari. A entusiasmarmi è stato il tipo di approccio al cinema, un cinema fatto con pochissime apparecchiature, fatto di niente ma retto da uno sguardo estremamente personale nel suo desiderio di scoprire e interpretare la realtà, anzi di cantarla. Spirito indipendente, De Seta non si è mai lasciato ricattare dal sistema produttivo, dalla ricerca del successo. Di qui viene che egli sia sempre stato, come è dei pionieri, un solitario, l’artefice di un cinema realizzato in solitudine. Il fascino che De Seta esercita su di me e su Daniele Ciprì ha radice in questo. Ma, inoltre, noi ritroviamo in lui caratteristiche che ci sono care, come l’attenzione alla precisione dell’inquadratura e alla composizione dell’immagine, connesse in De Seta al lavoro dei grandi documentaristi come Flaherty, maestro dichiarato. Oltre a certe preoccupazioni formali e a certe cure che appartengono a noi, crediamo che il nostro cinema abbia un altro legame con quello di De Seta. Siamo, lui e
noi, come i due estremi di un segmento. In De Seta possiamo vedere la Sicilia «classica», quella delle fatiche e dei riti rimasti pressoché immutati da tempi antichissimi e anche quella raccontata dalla grande letteratura, per esempio da Verga. De Seta ha ripreso questo mondo mentre stava per scomparire e ha fermato sulla pellicola gesti, azioni, volti, suoni, paesaggi che sarebbero scomparsi da lì a poco, che ormai sono definitivamente scomparsi. Abbiamo in comune con De Seta alcune scelte formali molto rigorose, però noi non possiamo far altro che registrare il «dopo» di quella sconvolgente modernità che ha travolto il mondo mostrato da De Seta. C’è infine un’altra cosa che a me è piaciuta molto, quando abbiamo conosciuto personalmente De Seta: è l’aura aristocratica che sembra
circondano, un distacco, una specie di flemma, come se in qualche modo gli avvenimenti del mondo e la sua cronaca non lo riguardassero. Tempi lunghi... Un’idea di cinema, un rigore che non tengono assolutamente conto del contingente. Una sorta di snobismo nei confronti della realtà. Si ritrova in questo un aspetto caratteristico dell’aristocrazia siciliana, che sembra sempre sentirsi fuori dalla storia e in qualche modo negarla. De Seta ha in sé qualcosa di «lampedusiano» e però è tutto dentro la poesia della vita, è attratto dalla poesia di cui sono portatori gli umili e non i ricchi. Quando invece De Seta si addentra nella zona di un cinema esistenzialista, come con
Un uomo a metà, o cerca di entrare nella cronaca, come in Diario di un
maestro, ci appassiona di meno. Banditi a Orgosolo è un bellissimo film perché è un film di silenzi, perché mostra una Sardegna pietrificata in cui accadono solo cose elementari e primitive, secondo i modi di una cultura antichissima. L’assenza di una analisi e di una proposta, è il pregio vero del film, è ciò che lo distingue da quasi tutto il cinema documentaristico del tempo o dal cinema «impegnato», sempre così rumoroso, e dall’euforia che era tipica di quegli anni, che furono anni di commedia. Questa sospensione, questo essere fuori dal tempo è quello che di De Seta mi affascina di più, e non i tormenti di
Un uomo a metà o il tentativo di dialogare con il proprio tempo di
Diario di un maestro, che è cosa comune in quegli anni. Anche se in De Seta il livello è sempre molto alto,
Diario di un maestro è un film didascalico e perfino un po’ ideologico. De Seta rimane un grande cineasta, un cineasta che non scende a compromessi, un cineasta «puro» la cui intima coerenza lo apparenta ai maestri più rigorosi, ma il De Seta che noi prediligiamo è quello dei documentari siciliani, calabresi, sardi... è il regista che, quasi unico in Italia, ha saputo legare indissolubilmente tra loro poesia e antropologia. FILMOGRAFIA:Cortometraggi/mediometraggi 1954
Pasqua in Sicilia Lungometraggi 1961
Banditi a Orgosolo |