Lima, Perù. E’ tarda mattina ormai, ma il sole stenta a farsi vedere.
D’inverno è una regola che la capitale e i suoi dintorni siano avvolti da una
leggera foschia, la garùa, che permane anche per più giorni di seguito; nemmeno
il vicino Oceano Pacifico alza una brezza per farla dissolvere e per mostrarci
finalmente il sole. Dobbiamo prendere un taxi per raggiungere la missione dei frati
Comboniani: a Lima come nelle altre città peruviane non ci sono autobus di linea,
tram o metropolitane, ma una moltitudine di taxi, piccoli o grandi, che fanno da
linea di trasporto urbana. Per fortuna non dobbiamo attendere molto il suo arrivo:
non hanno un colore particolare che li contraddistingue, ma certamente non si fatica
a riconoscerli: ogni persona, turista o no, che cammina è un potenziale cliente e
nulla costa al tassista accostare e con gesto della mano chiedere se abbiamo bisogno
di un passaggio, invitandoci gentilmente a salire.
Dalla Plaza de Armas, il centro di Lima, ci vogliono solamente 15 minuti per raggiungere
la missione, sufficienti per renderci conto di quanto sia estremamente rumorosa, affollata
ed inquinata. Pagato il tassita ci avviciniamo e suoniamo al citofono che riporta il nome
della missione dei frati comboniani. Entriamo e poco dopo ci accoglie Don Giuseppe Mizzotti,
che qui ormai conosco come Padre Joseph, nativo di Crema, da circa trent’anni a Lima. E’
lui che ci racconta della trasformazione della città quando accenniamo alla profonda
diversità che abbiamo incontrato attraversandola. “Non è difficile notare il passaggio dal
fascino coloniale dei palazzi e chiese eredità della fondazione spagnola, alle fabbriche
dimesse e alle baracche di quella che parecchi anni fa era considerata la periferia industriale
di Lima.
Una moltitudine di gente molto povera, specialmente dagli altipiani, si spinge in città
nella speranza che un lavoro offra una vita migliore e maggiori opportunità per i figli.
I nostri parrocchiani per esempio, vivono per la maggior parte in queste fabbriche dimesse
di cui vi dicevo o in baracche in legno. Il comune concede loro lo spazio, ma poi si devono
arrangiare a sistemarle. Potete immaginare in quali condizioni igieniche precarie vivono,
senza luce e acqua corrente. Molti finiscono per fare i venditori in giro per la città, ora
hanno creato un grande mercato dove concentrare tutti gli ambulanti che prima si aggiravano
per il centro. Non è una zona tranquilla, ma prima tutti ci conoscevano e non ci toccavano,
ora con i nuovi arrivi anche noi corriamo qualche pericolo”.
Dopo aver sorseggiato un caffè, usciamo per una passeggiata nei dintorni e Don Giuseppe ci
parla della attività svolta dai frati: “I nostri parrocchiani sono circa 40000. Principalmente
offriamo loro un supporto spirituale e biblico, oltre alla formazione di laici che dalle
pampas (la campagna intorno a Lima) vengono da noi per istruirsi alla parola di Dio per poi
diffonderla nei loro villaggi. Dobbiamo cercare di adeguare la parola di Dio alla cultura
dei campesinos, far aumentare in loro quella poca stima e considerazione che hanno di se'.
Nella nostra realtà, come in tutto il Sud America non possiamo ignorare l’aspetto sociale,
per cui offriamo anche assistenza medica di primo soccorso, curiamo la preparazione scolastica
dei ragazzi offrendo loro una biblioteca e corsi di alfabetizzazione informatica, e non
possiamo certo trascurare i più poveri che faticano anche a trovar da mangiare. Abbiamo
allestito una mensa dove alcuni volontari ci aiutano a preparare dei pranzi che distribuiamo
ad un po’ di famiglie”.
Mentre Don Giuseppe discorre, passeggiamo per strade talvolta non asfaltate, rifiuti sparsi
qua e la, ferri di cemento armato che spuntano dai piani di case mai completate e che in uno
sguardo di insieme sembrano tante gabbie. “Ai volontari che vengono da noi chiediamo sempre
un mese di prova per rendersi conto della realtà e per decidere poi se proseguire o meno.
L’attività non è delle più semplici, non c’e’ quasi mai riposo, le Domeniche non esistono.
Sono attività che mettono a dura prova la pazienza e la mente. Lo facciamo perché anche il
volontario si renda conto di ciò a cui andrà in contro. Noi dovremmo tornare a casa ogni tre
anni, ma generalmente ci torniamo ogni due, perché non resistiamo”.
Tornati poi nella missione, riprende a parlare degli anni più difficili ”dall’85 al 93
circa, ed erano gli anni di Sendero Luminoso, che arrivava a minacciare anche noi missionari.
Avevamo i telefoni sotto controllo ed allora ci parlavamo in codice, per noi matrimonio
voleva dire che una donna era stata minacciata, mentre i compleanni erano le riunioni dei
missionari della zona”
Resteremmo molto volentieri a sentir parlare Don Giuseppe, ma per noi ormai è il momento
di rientrare. Lo ringraziamo dei racconti e della giornata passata con lui che ci ha permesso
di conoscere un altro volto della città, forse il vero volto, quello che ad uno sguardo
superficiale nemmeno immagineresti.
Stefano
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