Cuzco, zona centrale del Perù, a ridosso della cordigliera delle Ande: la temperatura
è mite durante il giorno e poca pioggia cade nella stagione secca, ma le corte giornate
fanno sparire il sole, la temperatura fa presto a scendere ed a farci ricordare che siamo
a 3300 metri di altezza in pieno inverno.
Questa è considerata la zona archeologica più importante dell’intero Sud America: si narra
che il primo re inca Manco Capac arrivato in questa zona conficcò una verga nel terreno e
questa scomparve; quel punto rappresentava appunto il qosq’ , ovvero ‘l’ombelico del mondo’,
per tutto l’impero Inca.
La Cuzco dei giorni nostri è un’altra cosa, come ci si può aspettare: per la popolazione
dei campesinos che vivono nelle pampas attorno alla città, essa tuttavia sembra non essersi
ancora svestita dei panni di ‘ombelico del mondo’ , attirando una moltitudine di gente
(soprattutto bambine) ed illudendola di trovare attività più dignitose.
Le bambine che abbandonano la campagna trovano spesso sistemazione come “trabajadores del
hogar” , lavoratrici domestiche presso famiglie più o meno abbienti, che offrono in cambio
vitto e alloggio tutt’altro che dignitosi.
Questa fu la premessa con cui ci accolse Vittoria, in Perù da più di 20 anni, che fondò la
comunità del CAITH per offrire un’assistenza alle bambine lavoratrici che affollano la città.
Sulla soglia dei 70 anni, un pacchetto di sigarette sempre in mano quasi ad essere diventato
un tutt’uno ormai indispensabile, i capelli bianchissimi e le rughe (che sembrano scolpite da
uno dei tanti maestri peruviani che lavorano l’argilla) sono la testimonianza dell’impegno,
la dedizione e la fatica profusi a questo che senza esagerare possiamo definirlo il suo piccolo
impero.
Ad un primo sguardo il simbolo della comunità altro non sembra che una pianta con attorno
alcune bambine, ma con un’occhiata più attenta non si fatica a riconoscere nel bianco fogliame,
negli occhiali scompostamente posati sul tronco e nella sigaretta fumante, le sembianze di
Vittoria che raccoglie simbolicamente sotto la sua protezione le bambine.
“Quando arrivai qui pensai di dovermi occupare di questioni sindacali, ma poi mi accorsi che
invece i problemi erano altri. Queste bambine (anche di 4 o 5 anni) arrivano dalla campagna
illudendosi che la vita in città sia migliore, ma la realtà invece è fatta di torture e
maltrattamenti fisici, anche psicologici. Arrivano a odiare i genitori spinte dalle famiglie
per cui prestano servizio, fino a non ricordarsi più di loro ed a non sapere nemmeno da dove
sono arrivate. Qui le chiamano “bambine invisibili” e tra loro si chiamano le “figlie del vento”.
Il CAITH offre loro un po’ di affetto familiare e un’occasione di incontrare qualcuno con cui
parlare e divertirsi: per lungo tempo non hanno mai avuto occasione di scambiare due parole con
la famiglia che non fosse “hai fatto questo o quest’altro”, nemmeno un semplice “estas bien ?”,
come stai?.
Cerchiamo di trasmettere anche una cultura del lavoro che altrimenti non potrebbero mai avere,
per ottenere dalle famiglie migliori condizioni di lavoro ed anche un giusto salario per le
prestazioni svolte, e di valorizzarle per farle sentire importanti, per cambiare la mentalità
ricorrente da queste parti di avere poca stima di se e di doversi sempre sentire sottomesse
agli altri”.
Un lavoro quello di Vittoria lungo e difficile, un sacrificio che ha dato i suoi risultati e
di cui ne è giustamente orgogliosa (“il CAITH potrebbe continuare con le sue gambe anche senza
di me”).
Continua Vittoria: “Il Perù è una terra affascinante: per il turista offre paesaggi, musica,
cultura dei popoli inca, ma non trascurate la gente e le loro tradizioni popolari e religiose.
Quando arrivai avevo un cultura marxista e positivista derivati dagli studi universitari di
matematica e dall’impegno a sinistra nel sindacato, ma qui mi sono resa conto di come la gente
non possa fare a meno di fondamenta religiose e mi ricorderò sempre il caso di una ragazza
madre di 12 anni, che per tutta la gravidanza ripeteva di non volere il bambino. Quando nacque
e tornò dall’ospedale le dicemmo che era il caso di muoversi per trovare una sistemazione al
bambino, ma lei rispose di no – i miei occhi lo hanno visto, il mio seno lo ha allattato, il
mio cuore già soffre – “.
Stefano
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