LA NOTTE INFAME

(Kurdistan-Turchia 1977)


Arranchiamo da ore sulle salite assurde di queste strade sterrate e disseminate di ciottoli che schizzano via sotto la pressione delle ruote che mordono il terreno.
Ora non si parla più; ci guardiamo attorno in un silenzio dipinto d'ansia e di attesa.
Già da giorni abbiamo lasciato la caotica Istanbul.
Prima di attraversare il ponte nuovo che collega la sponda europea del Bosforo a quella asiatica abbiamo vissuto le strette vie brulicanti di gente, i negozietti di tappeti dove offrono il the aromatico, le visite obbligate a piedi nudi nelle grandi Moschee, le mille pietre preziose del Topkapi, il bighellonare fra i vicoli del mercato coperto fra il luccichio dell'oro e l'odore acre delle spezie, i richiami alla preghiera del Muezzin dai minareti più alti.
Avevo proposto agli amici questo viaggio in Iran e avevano accettato con entusiasmo.
Scorrendo la carta geografica sembrava una facile impresa, ma ora, ora che il gioco era iniziato, ci rendiamo conto che le strade disegnate in rosso non sono altro che tracciati interminabili e sconnessi.
Eppure è un percorso obbligato del traffico internazionale verso la mitica Persia.
Siamo in quattro: Carlo che, per l'occasione, ha modificato il suo furgone Fiat Ducato traendone un delizioso Camper, Beppe, Angelo ed io.
Quattro brande a castello, un fornelletto a gas, un piccolo frigorifero e un tavolinetto centrale.
Le provviste son disposte sulle reticelle laterali.
I pasti li consumiamo in divertenti pik nic sui prati e le spaghettate pantagrueliche sono allietate dal vinello che Angelo ha ottenuto calpestando "pedibus calcantibus" i grappoli della sua vigna.
Superiamo Ankara, la capitale, e mi accorgo che quel maledetto mal di testa che già da ore mi opprime si accentua di curva in curva.
Il malessere generale muta in tremende vertigini e mi assale una nausea che non avevo mai sentito prima.
Ci vuol poco a diagnosticare un'intossicazione di qualche disgraziato contenuto delle scatolette che ci siamo portati dall'Italia.
Chiedo ad Angelo, che è medico, anche se veterinario, di attaccarmi una flebo che, prudentemente, avevo aggiunto all'ultimo minuto alla riserva di medicinali.
Gli altri, incoscienti, sghignazzano ad alta voce, commentano sarcasticamente il fatto che non potevo che essere naturalmente uno dei suoi clienti.
E non aggiungo le altre frecciate al vetriolo.
Poi, di colpo, cambiano tono.
Iniziano a discutere su come avrebbero dovuto comportarsi in caso di una mia dipartita da questo folle mondo; se non stessi così male mi farei sicuramente un mare di risate.
Organizzano (i commenti sono sempre ad alta voce) di avvolgere i miei resti mortali in un sacco di plastica nero della nettezza urbana e, dato che il frigorifero di bordo non consente di ospitare un tale volume, di issarlo sul portabagagli di modo che il sole e l'aria lo disidratino.
Con questo accorgimento il "fetor mortis" non sarebbe stato avvertito alle varie dogane di ritorno e il corpo sarebbe giunto alla vedova nel miglior stato di conservazione possibile.
La flebo, supportata da un paio di fiale di Cortigen B6, fa miracoli e torno ad essere più in forma di prima pur nella costernazione più profonda degli amici che già gustavano questa macabra, estemporanea operazione.
La strada si fa ancor più stretta e i tornanti a 180 gradi imboccano salite ancor più vertiginose.
Il motore rantola ad ogni curva e l'acqua del radiatore è in perenne ebollizione.
Il terreno circostante è brullo e l'erba cresce a malapena.
Le case, se così si possono chiamare, sono catapecchie costruite con paglia e sterco di mucche.
Se ne incontrano davvero poche e isolate e intorno razzolano galline e alcune oche.
Qua e là le pecore brucano sparuti ciuffi d'erba secca.
Hanno un bel daffare le greggi a sfamarsi in queste ripe che san più di deserto.
I pastori, quasi tutti bambini, al nostro passaggio, hanno un atteggiamento comune: nella mano destra tengono stretto un grosso sasso e con la sinistra, evidenziando l'indice e il medio aperti e avvicinando a più riprese la mano alla bocca, ci fan chiaramente capire di gettare una sigaretta.
Qui, veramente, anche i bimbi fumano come ...turchi!
E ne gettiamo tante dal finestrino fino a che, rimastoci solo il pacchetto vuoto, ad un ennesimo invito, lanciamo anche quello dal finestrino.
Il ragazzino deve essersi accorto subito dell'imbroglio.
Lo desumiamo nello stesso istante in cui una sassata ci manda in frantumi il fanale posteriore dei freni.
Giungiamo finalmente al passo e il cartello "Rakkim 2750" ci segnala che sfioriamo i tremila metri di altezza.
Ci accostiamo accanto ad un autotreno italiano in sosta.
Durante l'affannoso percorso avevamo notato con sgomento innumerevoli carcasse di automobili e di camion riverse nei precipizi e il torrente che si scorgeva a valle come un esile nastro chiaro era costretto ad uno strano slalom fra le lamiere contorte.
Gli autisti che ci accolgono ci salutano calorosamente.
Mentre i cofani degli automezzi sono sollevati per raffreddare i motori intrecciamo commenti e chiediamo spiegazioni sui rottami che avevamo notato nei burroni.
Ci dicono che questo è il Curdistan.

 

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Il brigantaggio, da queste parti, è comune e quotidianamente prendono d'assalto autotreni o automobili in transito per depredarli del carico.
Dopo aver massacrato gli autisti spingono i mezzi nella scarpata.
Ci guardiamo tentando di non far trasparire il nostro ...entusiasmo a quelle notizie ...confortanti.
Aggiungono, quasi con sadico piacere, di porre attenzione al fatto non infrequente che, a volte, i Curdi gettano intenzionalmente un bambino sotto le ruote degli automezzi per poter fruire dei risarcimenti
dell'assicurazione.
Queste cose già le avevo sentite dal Rondi, un autotrasportatore di Albano ma, tuttavia, le avevo considerate come eventi remoti o mistificati come facezie di un racconto di avventure.
Ora so che tutto questo è vero e la spensieratezza della partenza e della prima tratta del nostro viaggio lascia ben presto il posto alla preoccupazione per nostra sorte.
Frattanto giungono altri automezzi e dopo un paio d'ore lo spiazzo di terra battuta in cima al monte diviene un'irreale parcheggio affollato.
Decidiamo di ripartire, ma qualcuno ci avverte che non è possibile farlo singolarmente: dovremo costituire un'autocolonna.
Ci raggiungono due camionette dell'Esercito turco cariche di militari armati di Kalasnikof e mitragliatrici fisse sul tettuccio.
Una si pone all'inizio della fila e l'altra in coda.
Diamo così principio ad una curiosa e lenta processione in cui i grossi autotreni si alternano alle automobili.
E' un convoglio di una trentina di mezzi che si snoda come un serpente dalle spire lucenti e colorate sulle scoscese strade che si dipanano fin giù a valle per poi risalire di nuovo verso passi ancor più alti che sfidano le nubi.
Quella maledetta spia della temperatura si accende quando stiamo per affrontare l'ultimo tornante della montagna e costringe Carlo a bloccare il Camper e ad accostarsi.
Gli automezzi dietro di noi si destreggiano in manovre pericolose per superarci, tanto più che fra la strada e il burrone non ci sono protezioni.
La gip militare di coda si ferma accanto a noi.
Tentiamo di spiegare l'accaduto mostrando il cofano aperto e l'evidente vapore bollente che fuoriesce dal tappo.
Ci fanno capire che dovremo rimanere soli per pochi chilometri ma, se avessimo avuto bisogno di assistenza o del loro intervento avremmo dovuto suonare ininterrottamente il clacson.
Il pomeriggio ormai è abbastanza inoltrato e sembra che non si fidi nemmeno il sole a farci compagnia da queste parti, tant'è vero che sentiamo avvicinarsi inesorabilmente gli artigli della sera.
Il radiatore scotta dannatamente e ci impedisce di sfilare il tappo.
Dovremo attendere decine di minuti con evidente impazienza e con ansia malcelata.
A scanso di sorprese Beppe va ad appollaiarsi su un'altura vicina da dove può segnalare arrivi sospetti.
Le uniche armi da difesa in dotazione sono rappresentate dai due coltellacci da cucina e dai sassi che la strada e il terreno circostante offre in abbondanza.

 

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Ora Carlo sta armeggiando con la tanica del liquido refrigerante che, finalmente, riesce ad aggiungere alla poca acqua del radiatore.
All'avvio del motore la lucetta rimane fortunatamente spenta e la lancetta del termostato indica una temperatura accettabile.
I pneumatici un po' consunti mordono di nuovo con rabbia lo sterrato e le curve si inanellano alle curve.
La sera s'è fatta notte e le stelle giocano già con la mezzaluna crescente.
D'un tratto i fari sembrano accecarsi.
Le luci non si infrangono più sulla strada grigia illuminando i sassi bianchi rotolati dal monte.
La nostra corsa muore a pochi metri di un'enorme massa nera che limita minacciosa lo scampolo di cielo imprigionato dalle alture che s'ergono come giganteschi guardiani di pietra.
Ci mancava anche la frana per isolarci in questo inferno fatto di buio e di trepidazione.
Sappiamo con certezza che a quest'ora non giungerà più nessuno dalla strada dietro di noi e, nello stesso tempo, davanti al muso del camper ci troviamo un muro invalicabile.
Avvertiamo il rumore del silenzio fatto di un motore d'aereo lontano che corre chissà dove, del belato di una pecora fra i monti, dall'eco sbiadito di un richiamo più a valle.
Il dilemma che si propone improvviso è se starcene in silenzio senza far trasparire la nostra presenza o attaccarci al clacson seguendo i consigli del militare del convoglio che ormai sarà già giunto a migliori e più sicuri lidi.
Optiamo per la seconda soluzione e per minuti infiniti il clangore acuto delle trombe lacera la quiete piena di tensione di questa notte infame.
Le orecchie son ferite e gli occhi attenti ad ogni ombra.
mentre i corpi rabbrividiscono all'aria fredda che scivola dalle chine scoscese.
Un cane, un randagio spuntato da chissà dove, ci fa sobbalzare.
E' impaurito come noi e, forse, ancor più affamato.
Beppe lo accarezza più per zittire i suoi guaiti che per spiccata cinofilia.
S'accuccia ai suoi piedi e inghiotte avidamente la Simmenthal che Angelo gli versa su una pietra.
Una fortuna, dunque, in quanto ci sarà certamente utile per segnalare l'eventuale sopraggiungere di estranei.
Carlo, per distrarci dalla tensione, propone di trovargli un nome.
Siamo d'accordo; un cane turco non può chiamarsi che Turk.
A casa, a quest'ora, riposeranno in sonni tranquilli e gli amici, forse, sorseggeranno il solito caffè al bar dell'angolo parlando di noi, della nostra avventura, della nostra pazzia.
Il suono del clacson si va facendo più debole e la batteria agonizza.
I nostri segnali acustici, pertanto, si levano in periodi sempre più brevi e con più blanda intensità.
Ora conosciamo il silenzio, la solitudine, la paura, l'abbandono, l'isolamento dal resto del mondo.
Ci coglie un urlo di esaltazione quando udiamo ben distinto il suono forte di una tromba e il brontolio di un diesel al di là della frana.
Qualcuno grida frasi incomprensibili che, tuttavia, ci rassicurano e rispondiamo con gran fiato un "siamo qui!" liberatorio.
A quel motore se ne aggiunge presto un altro e poi un altro ancora.
Ruggiscono senza tregua e a più riprese .
Dopo un ora il muro di fango si sgretola sotto le bordate delle ruspe e i fari feriscono la notte e saettano la strada.
Ci ritroviamo in mezzo ad una decina di militari che ci danno delle gran pacche sulle spalle e ci porgono delle confortevoli borracce di the caldo.

 

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La camionetta di retroguardia del convoglio aveva segnalato per radio la frana e dalla caserma erano prontamente partite le ruspe in nostro soccorso.
E' bello ritrovarsi di nuovo in strada con la radio accesa dove una cassetta di James Last ci tiene compagnia e dove si intrecciano discorsi scherzosi quasi a esorcizzare le ore tragiche di questa notte troppo buia.
E' quasi mattino quando arriviamo alla caserma di Bayburt.
Informiamo la scorta che riposeremo qui, davanti alla cancellata ma ne riceviamo un deciso rifiuto.
Ci ordinano perentoriamente di entrare nel recinto per ragioni di sicurezza.
Ci svegliamo verso mezzogiorno.
Il sole annuncia una giornata di luce, le ombre della notte son fuggite chissà dove.
Angelo ci ha già preparato un caffè nero e forte.
Sentiamo dei guaiti al lato della portiera: il cane, il "nostro" randagio, è ancora qui.
Siamo di nuovo tutti insieme allegramente: Carlo, Angelo, Beppe, io e ...Turk.
Nella nostra folle corsa percorriamo le strade antiche di Trabzon (Trebisonda), ci immergiamo nelle acque salmastre del Mar Nero dove i corpi galleggiano sull'acqua sorretti dalla concentrazione del suo sale, sostiamo ai piedi del biblico Monte Ararat e volgiamo gli occhi verso la vetta nell'assurda speranza di scoprire i resti dell'Arca, calchiamo le vie della mitica Persia, fuggiamo le sassate delle donne velate che tentiamo invano di fotografare, ci bagniamo nel Golfo di Antalya, sfociamo nell'azzurro cobalto del cielo mediterraneo, percorriamo le vie lastricate d'antico e ornate di vetuste vestigia romane di Efeso, ci perdiamo nella ricerca delle mura di Troia e ci ritroviamo emozionati fra le pagine dell'Iliade, traversiamo su un battello lo Stretto dei Dardanelli e risaliamo di nuovo la Turchia, la Grecia, la Jugoslavia.
Nella corsa verso casa viviamo il calore del sole dimentichi, finalmente, del freddo e delle paure di quella notte maledetta.