L'ICONA

(Russia 1970)


Ci sgranchiamo le ossa sballottate sulle infinite strade che la "Diane" ha divorato in quindici giorni intensi fra l'Austria e la Cecoslovacchia, dalla Germania al Belgio per approdare a Le Havre.
Tina ed io ci siamo dati appuntamento con Mariuccia e Angelo per imbarcarci sulla "Cabo San Roque", una nave da crociera che cullandosi nel mare del nord ci porterà sino a Leningrado.
Stoccolma, Copenaghen e la meravigliosa città degli Zar.
Scendiamo in fila indiana dalla passerella e consegniamo il nostro passaporto a due militari che lo ripongono, in file ben ordinate, in una lunga cassetta di legno.
Il mio spicca fra gli altri poiché ho l'abitudine di ricoprirlo con una copertina di plastica colorata.
Non è certo per non sgualcirne le pagine, ma per notarlo più facilmente quando ce lo riconsegnano dopo le solite escursioni di gruppo nei vari scali della crociera.
Al molo ci attende un pullman che ci condurrà alla scoperta della città che trasuda di storia e di passato.
Funzionari di partito controllano le sistemazioni e ci assegnano i posti.
Non li dovremo cambiare per nessun motivo: siamo osservati a vista e controllano ogni nostro movimento.
Io non ci sto.
Riesco ad eclissarmi e trascino con me Tina in questa evasione.
Vogliamo viverla questa città, vogliamo sganciarci dai vincoli imposti e obbligati, vogliamo entrare e penetrare la piccola realtà del mondo del comunismo reale, vogliamo entrare nei negozi e percorrere le vie più nascoste e vive di questa metropoli nordica e fantastica.
Larghe strade spaziano su monumenti che traspirano il passato, gioielli d'architettura come la Cattedrale di San Pietro e Paolo e l'Ermitage carico d'arte e di storia.
La Nieva scorre pigra giù verso il golfo finnico che accarezza Petrovorets.
Su un ponte vicino alla Cattedrale di San Nicola siamo avvicinati da due giovani.
Mi offrono non so quanti rubli per acquistare i miei blue jeans.
Dapprima mi rifiuto, ma poi cedo sopratutto alle insistenze di Tina che si lascia commuovere dall'aspetto trasandato dei ragazzi.
Entriamo in un portone e ci scambiamo gli indumenti.
I suoi mi vanno davvero stretti e sono decisamente corti.
Mi guardo e mi vien spontaneo di paragonarmi a Stenterello, un personaggio di una storia buffa che avevo letto da bambino.
Mi rifiuto di ricevere alcun compenso.
Uno dei due, forse per sdebitarsi a modo suo, mi dice che se fossimo interessati all'acquisto di icone antiche, di cui ci giura l'autenticità, ci avrebbe accompagnato al posto giusto.
E' opportuno, per inciso, precisare che le conversazioni avvengono in francese dopo che i nostri casuali interlocutori, al nostro incontro, si erano rivolti a noi in tre diverse lingue.
Danno una rapida occhiata intorno e ci raccomandano di seguirli in modo che ognuno se ne stia a una cinquantina di metri una dall'altro per non attirare alcun sospetto dalla polizia politica che ha occhi e orecchie puntate su ogni movimento strano, specie in presenza di stranieri.
Iniziamo così questa strana processione fra strade che costeggiano i grandi palazzi e viuzze interne di periferia.

 

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Da lontano noto che il primo ragazzo s'infila in un portoncino di una casa a più piani dall'esterno non certo curato, non prima di aver girato lo sguardo tutt'intorno.
Il secondo si comporta allo stesso modo e si gira invitando Tina ad affrettare i suoi passi.
Anch'io, buon ultimo della misteriosa spedizione, raggiungo l'entrata e mi aggiungo al gruppetto che mi sta attendendo in uno scuro e stretto corridoietto.
Si percorre fino in fondo e vengono battuti numerosi colpi alla porta.
Più che un bussare, sembra un messaggio segreto.
Ci troviamo in una stanza piuttosto grande; una lampadina pende nuda dal soffitto, i muri scrostati e ammuffiti han perso il colore della tinta originale da chissà quanti anni e sono in parte nascosti da grandi manifesti di carta a motivi antinazisti (lo si deduce dai disegni, non certo dai caratteri cirillici) e propagandistici del partito.
Ci presentano a due giovani che stanno parlottando seduti ad un tavolo sgangherato.
Uno si loro apre una cassapanca accollata al muro che sorregge una finestra piccola e troppo alta per essere raggiunta anche in posizione eretta e dispone il contenuto al centro del locale.
Ci passiamo fra le mani una ventina di icone il cui stato di conservazione non è certo ottimale.
A questo punto viene spontaneo chiedersi l'autenticità delle opere. di Leningrado
Uno dei ragazzi mi dice che sono state sottratte da Chiese della campagna.         
Poso gli occhi su un trittico su cui sono raffigurate schiere di Santi e che si rivela in buono stato, ma, purtroppo, sono sconsigliato dall'acquistarlo poiché verrebbe sicuramente notato sulla strada del ritorno alla nave.
Opto, pertanto, per tre quadri che, a prima vista e al mio giudizio profano, sembrano i meglio conservati e artisticamente pregevoli.
Son teste di Santi; uno, mi dicono sia San Basilio.

 

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I fregi ancor ben evidenti con fondo dorato esaltano le immagini e spiccano neri i caratteri cirillici.
Mi chiedono cinquanta dollari e mi sembra un prezzo conveniente.
Da ogni viaggio porto un souvenir che caratterizzi la meta raggiunta, come se volessi riportare un pezzo d'anima del paese che ho vissuto.
Incarto i legni in un foglio della "Pravda" e ci avviamo verso l'uscita.
I due nostri accompagnatori si involano dopo un frettoloso saluto e io mi avvio verso il porto, seguito a cento metri da Tina.
Cerco di celare le icone sotto la camicia, ma, tuttavia, immagino che si notino facilmente.
Il guaio avviene quando mi immetto sul vialone dal quale s'intravvede ancora lontana la sagoma massiccia della nave.
Un lacerante urlo d'una sirena rompe il normale brusio della strada.
Mi volto di scatto e noto una macchina della polizia che si dirige dritta e veloce verso di me.
Nello stesso tempo sento la voce di Tina che mi urla di fuggire.
Sicuramente qualcuno ha notato le strane manovre che stavamo attuando prima dell'acquisto delle icone.
Certamente l'esportazione di opere d'arte può essere considerato un serio reato, ma non avevo pensato a questo aspetto del problema.
Sta di fatto che scatto come una lepre che si trova i segugi alle calcagna e mi butto come un proiettile nei vicoli stretti attorno al porto.
La prima reazione è di disfarmi dei quadri per non essere sorpreso in possesso del corpo del reato, ma anche se li avessi abbandonati sul marciapiede sarebbe stato poi difficile dichiarare che non erano in mio possesso, dato che il pacchetto era ben visibile ed evidente sotto la mia camicia.
Decido di andare fino in fondo all'avventura quando mi rendo conto che la mia corsa forsennata mi ha inconsciamente e casualmente portato ai piedi della passerella della nave.
Non rallento la velocità tanto più che la sirena ha di nuovo ripreso il suo urlo acuto dietro le mie spalle.
In questo caso la paura anziché fare novanta fa decisamente cento.
Afferro al volo dal cassetto il mio passaporto (ottima l'idea della copertina colorata) e mi infilo come un fulmine su per la scaletta, mentre il militare di guardia mi urla non so cosa.
Scendo ai ponti inferiori e mi infilo nella prima toilette che mi si para davanti.
Chiudo la chiave a doppia mandata, tiro lo sciacquone, salgo sul water, chiudo il rubinetto della canna dell'acqua e infilo le icone nella cassetta.
Esco, raggiungo la cabina, tolgo dalla borsetta il rasoio e mi rifugio nuovamente nel gabinetto.
Lo scopo è multiplo: innanzitutto devo far la guardia ai quadri, poi giudico che questo sia il posto migliore in cui nascondermi nel caso che qualcuno mi avesse riconosciuto e, magari, venisse a curiosare in cabina.
Nello stesso tempo mi rado con cura la lunga barba che ogni volta mi lascio crescere quando intraprendo un viaggio.
Il respiro e i battiti del cuore riprendono a fatica e dopo parecchio tempo il ritmo fisiologico.
Mi siedo e aspetto.
E aspetto davvero tanto.
L'orologio mi dice che verso le cinque del pomeriggio la nave dovrebbe salpare, ma il rumore di fondo dei motori mi avverte che non sta succedendo nulla di nuovo.
Attendo altre due ore, ma il risultato non cambia.
Dopo quattro ore di inutile attesa in questo metro quadrato mi decido ad uscire.
Un mio vicino di corridoio non mi saluta e, quindi, desumo che la mia faccia glabra non è facilmente riconoscibile.
Entro nel salone ristorante e trovo Tina, Mariuccia e Angelo che stanno confabulando a bassa voce.
Come mi scorgono mi tirano in disparte e mi guidano in biblioteca.
Non sto più nella pelle per sapere cosa sta accadendo.
Mi raccontano che dopo la mia fuga in nave la polizia si è fermata ai piedi della scaletta, bloccata, evidentemente, dall'extraterritorialità della nave.
Il militare di guardia ai passaporti, tuttavia, aveva notato sul ponte inferiore un turista che stava fotografando, passo dopo passo, l'inseguimento e la mia fuga.

 

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Il Capitano, nel frattempo era sceso sul molo e iniziava un concitato colloquio coi poliziotti.
Quello che sembrava essere il capo descriveva a larghi gesti il formato dei quadri e il numero tre delle dita faceva inequivocabilmente intendere che stavano parlando di me.
Conclusione: l'imprudente fotografo ha dovuto sfilare la pellicola dalla macchina fotografica e consegnarla ai militari.
Due di loro, poco dopo, seguivano a bordo l'Ufficiale per discenderne quasi subito con due casse di whisky.
La nave poteva finalmente salpare con un ritardo di sei ore.
Ogni volta che poso gli occhi sulle mie icone (due del seicento e una del settecento) avverto ancora oggi l'urlo minaccioso della sirena.
Che debba a questi tre Santi l'esito felice dell'avventura?