L'INCIDENTE DIPLOMATICO

(Cina 1978)


Da poco gli Stati Uniti han ripreso i rapporti con la Cina.
Il disgelo è giunto quasi all'improvviso complice una semplice partita a ping pong fra gli atleti dell'una e dell'altra nazione.
Con un pizzico di fortuna sono riuscito ad intrufolarmi in una delegazione ufficiale medica italiana che ha organizzato un viaggio di interscambi culturali a carattere scientifico fra le due nazioni.
I temi discussi vertono sulle differenti terapeutiche dei due paesi.
Del nostro gruppo fanno parte illustri cattedratici di Università italiane, grossi nomi di luminari della scienza medica nei cui confronti mi sento piccolo piccolo.
Già sul treno da Hong Kong a Canton l'accoglienza è stata calorosa.
Nella carrozza riservata al nostro gruppo ci è stato servito del tè e gli altoparlanti di bordo hanno diffuso musiche italiane e cinesi.
"Oh bella ciao, bella ciao" ci è stato più volte ammansito e, al nostro arrivo, una delegazione ufficiale cinese ci ha accolto con tutti gli onori.
Negli Hotels che ci accolgono siamo assistiti da funzionari del partito e da interpreti cordiali e premurosi, pronti a soddisfare ogni nostra esigenza e desiderio.
E' decisamente un po' noioso il fatto di incontrare di volta in volta i delegati cinesi in interminabili cerimonie di benvenuto.

 

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Ci affondiamo in enormi poltrone con pizzi bianchi di poggiatesta e ci viene versato in abbondanza e ossessivamente tè aromatico senza zucchero in enormi tazze di porcellana bianca ornate da motivi floreali.
A poco a poco mi viene quasi a nausea; mi sforzo con tutte le mie forze di terminare la tazza, ma poi, per rispetto dell'ospite e con estrema cortesia non disgiunta da mio enorme dispiacere, mi viene di nuovo riempita.
Nelle frequenti uscite nelle strade delle città che tocchiamo veniamo attorniati da tanta gente che ci osserva come animali strani.
Ci fermano, ci parlano (e chi li capisce?), ci toccano, guardano le scarpe, osservano le cinture, ammirano le catene che abbiamo al collo, seguono ogni nostro spostamento e la fila dietro di noi si allunga all'inverosimile.
Sono con il Professor: Rovelli, il più famoso cardiologo italiano e, tentando di seminare questa fila assurda, entriamo in quella che ci sembra una farmacia.
Inutile: la teoria di persone che sino ad ora ci aveva seguito entra dietro di noi ed esce con noi in una assurda coda che si volge come un serpente senza fine.
Siamo spesso accolti e ospiti in scuole materne con intrattenimenti allegri da parte dei bambini che con balli e coretti si esibiscono felici di conoscere questi strani uomini dai tratti occidentali.
Nei circoli sportivi rinnoviamo simbolicamente la cerimonia che ha portato all'apertura della Cina con gli Stati Uniti giocando interminabili partite di ping pong dalle quali usciamo inesorabilmente sconfitti.
Ci accolgono con grande entusiasmo i lavoratori delle
Comuni Agricole e, dopo averci offerto i loro prodotti, ci accompagnano nelle campagne in cui schiere di uomini e donne lavorano la terra senza avvalersi di alcun mezzo agricolo.
Le madri si chinano a raccogliere erbe e frumento con i piccoli legati al dorso e si assentano e si seggono all'ombra degli alberi solo per allattare i più piccoli.
Qualcuno ci invita in casa, piccole stanze dove ci mostrano orgogliosi la macchina da cucire e la bicicletta appesa ad un grosso chiodo.

 

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L'anno acquistata pezzo per pezzo: dapprima il telaio, poi il manubrio, più tardi la sella e così via sino a possedere completo questo mezzo di locomozione che rappresenta un punto di arrivo nella corsa al progresso sociale.
Trovo i nonni che custodiscono i nipoti mentre i genitori sono al lavoro.
C'è un enorme rispetto per gli anziani: sono parte importante, integrante e irrinunciabile della famiglia.
Mi lascia stupito la risposta che uno di loro mi da quando gli chiedo a quale punto della vita ci si può considerare vecchi.
Mi risponde lapidario: "Quando non si gioisce più a veder cadere la neve".
Ovvie le frequenti visite agli ospedali dei villaggi dove il personale e i malati ci attendono schierati nei cortili e nelle corsie.
Le attrezzature sono rudimentali e fatiscenti.
Basta dire che il trapano per l'odontoiatria è mosso da un pedale, spinto a tutta forza dall'operatore, che mette in moto una ruota la cui cordicella propaga il movimento a tutta l'attrezzatura.
Per l'anestesia si avvalgono della digitopressione: una stretta ben assestata delle loro dita sui punti classici provoca nel giro di pochi secondi parestesie tali da indurre una totale insensibilità sia nella mascella che
nella mandibola.
Ne so qualcosa personalmente poiché un attacco della mia sinusite che ormai si è fatta cronica mi viene bloccato sul nascere da una pressione sulla radice del naso e sulla zona sopraccigliare.
Gli stanzoni di degenza sono immensi e accanto ad ogni letto è posto un tavolinetto di legno con l'immancabile sputacchiera.
Questo aggeggio è d'uso comune in ogni residenza, povera o più dignitosa, a scuola come in hotel e molte volte, anche negli incontri ufficiali, è ...meta di terribili e sonore scatarrate da parte dei nostri interlocutori e anche per noi, per massima cortesia, molte volte è giocoforza partecipare a questo uso cui non riusciamo ad abituarci.

 

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La farmacia non è altro che l'orto ben curato in cui vengono coltivate erbe e piante curative di ogni genere.
I cattedratici italiani tengono frequentemente conferenze sull'evoluzione della medicina occidentale ed è estremamente interessante assistere alla contrapposizione delle metodologie di cura.
Ci sbizzarriamo in lunghe discussioni sulla differenza delle nostre terapie rispetto a quelle cinesi, tuttavia, troppo volte dubbiosi e increduli, dobbiamo ammettere, dopo studio approfondito delle cartelle cliniche in cui si evidenziano le diagnosi, che pur nella loro semplicità ed elementarità di cura, molti casi, anche quelli più ostici e di più severa prognosi, vengono risolti in modo incredibilmente soddisfacente.
Per non parlare, poi, della metodica dell'agopuntura.
Questa tecnica collaudata da millenni ci sorprende per la sua efficacia in un numero disparato di malattie.
Nella sala di ostetricia stamattina noto numerose donne sedute accanto alle pareti ognuna con due aghi infissi nell'orecchio.
Il medico mi spiega che è la classica metodologia per provocare l'aborto: nel giro di poche ore tutte saranno soggette all'interruzione di gravidanza.
Del resto la legge in vigore è molto esplicita: è severamente vietato avere più di un figlio.
Questo per una pianificazione nazionale della popolazione che ormai è giunta al miliardo.
Mi fa sorridere vedere una bicicletta con un sedile posteriore di vimini dietro la sella del ciclista: è l'autolettiga.
Di diverso taglio, tuttavia, l'Ospedale Popolare numero 6 di Shanghai dove giungiamo dopo una interminabile ed estenuante corsa in treno.
E' il centro specializzato in trapianto degli arti.
I cinesi, qui, fanno miracoli con la microchirurgia e confesso che in questa tecnica sono decisamente all'avanguardia.
Ho l'occasione io stesso di assistere in sala operatoria ad un intervento che ha dell'incredibile.
Giunge una telefonata che avverte che la macchina per sgranare il riso ha reciso quattro dita ad un contadino.
Mi invitano a salire su un camioncino che si catapulta in una folle corsa nelle campagne di periferia.
Un uomo è disteso su una branda con la mano sinistra avvolta da una grossolana fasciatura da cui trasuda abbondantemente il sangue.
Chiediamo di indicarci il luogo dell'incidente e alcuni volontari ci accompagnano sul posto.
Fra l'erba che ancora porta vistosi i segni dell'emorragia riusciamo a recuperare le dita e le avvolgiamo in una garza bianca.
Carichiamo l'infortunato sull'automezzo e rifacciamo lo stesso percorso con la massima velocità che il motore consente.
Ci facciamo strada fra l'enorme numero di biciclette che percorrono le strade di Shanghai e rimango impressionato dal suono corale di migliaia di campanelli che trillano all'infinito.
Le vie son talmente affollate che l'autista mi spiega che le fabbriche chiudono a turno e mai allo stesso giorno poiché la massa di gente che invaderebbe le strade sarebbe così intensa da impedire ogni movimento nella città.

 

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La sala operatoria è già pronta e il chirurgo già vestito e sterilizzato.
Non è, tuttavia, il capo dell'ospedale ad operare in quanto ci mostra le sue mani gonfie e callose.
Si deve sapere che ogni professionista, sia pure chirurgo e primario, deve trascorrere un paio di mesi all'anno nei campi a lavorare con i contadini e, nello stesso tempo, svolgere la sua attività di medico "scalzo" negli interventi che dovessero di volta in volta avvalersi della sua professionalità.
La cosa ci pare molto stupida, tanto più che in un attività così specializzata come il trapianto degli arti l'operatore deve eseguire un lavoro da certosino e le mani sono i suoi strumenti principali e essenziali.
Tuttavia Mao, il grande Conduttore, così ha deciso ed a questo ci si deve adeguare
In dodici ore di intervento riattaccano ad una ad una le dita alla mano infortunata.
Lo stesso incidente è occorso ad una giovane donna circa un mese fa.
Me lo mostrano mentre si produce in incerti tentativi di riprendere a suonare la sua fisarmonica.
Accanto al letto mi mostra orgogliosa la fotografia delle sue quattro dita amputate che ora riprendono a poco a poco ad obbedire agli impulsi del sistema nervoso centrale.
Il volo verso Pechino è decisamente avventuroso.
Innanzitutto ci rifiutiamo di passare ventiquattro ore in treno e dopo infinite proteste, minacciando anche di informare immediatamente il Consolato, da un hangar spunta un catorcio residuato di guerra di una decina di metri di lunghezza i cui motori più che cantare a pieno ritmo sembrano tossire e rantolare.
"Eppur si alza" dice il professor Butturini, titolare della Cattedra di Patologia Medica dell'Università di Parma mentre uno spruzzo nero di olio va a inzaccherare gli oblò togliendoci la vista della campagna su cui sono ben visibili i contadini dato che l'altitudine del nostro volo è poco più alta delle cime degli alberi.
Ci assale un caldo infernale e quella che dovrebbe essere la hostess, con un sorriso accattivante (o è ghigno di paura?), ci distribuisce dei ventagli.
A Pechino, ad ogni modo, si atterra e varcando la soglia del nostro hotel abbiamo la netta impressione di aver raggiunto la terra promessa.
Ci attendono i soliti funzionari di partito e gli interpreti e sappiamo per esperienza troppo volte vissuta che la cerimonia di benvenuto si protrarrà per più di un'ora, condita dalle solite tazzone di tè bollente e senza zucchero.
Per questo, tuttavia, ci siamo arrangiati in modo egregio: nelle nostre tasche non mancano mai le zollette che sottraiamo alla prima colazione di modo che, con fare furtivo, ognuno ne fa scivolare un paio nel liquido dorato e ormai ossessivo.
Si pronunciano da ambo le parti e con solito rituale le solite frasi trite e ritrite sull'amicizia fra l'Italia e la Cina, il solito accenno politico alla banda dei Quattro e le citazioni delle frasi di Mao inerenti alla lotta di classe e alla modernizzazione della nazione.
Non possiamo esimerci dal visitare il Mausoleo di colui che si può ben considerare il Padre della Cina moderna.

 

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Verso le dieci del mattino il nostro gruppo attraversa la Piazza Tien Ammen e si porta nei pressi del sacrario.
Una lunga fila di cinesi si snoda come un serpente gigantesco e chilometrico in paziente attesa di entrare nel Santa Sanctorum dove sono conservate e venerate le spoglie imbalsamate di Mao Tse Tung.
Scolaresche, contadini, uomini e donne vestiti dignitosamente stanno per ore in paziente attesa.
Ci accompagnano i soliti solerti funzionari politici che interrompono la teoria dei visitatori e ci portano ai primi posti a due passi dall'entrata.
Guardie impettite montano la guardia e l'atmosfera si fa austera e silenziosa.
Entriamo tutti dodici assieme e ci disponiamo attorno alla bara di cristallo attraverso la quale è ben visibile il corpo di Mao.
Le pareti sono di marmo pregiato, leziosi lampadari illuminano soffusamente la sala, quattro militari in uniforme di gran gala stazionano nei quatto angoli della stanza.
Ora il silenzio è totale e il luogo sa di misticismo non disgiunto da una soffocante ufficialità.
Dapprima miriamo il suo volto scavato, poi i particolari del salone.
Nessuno muove un muscolo, il semplice batter di ciglia sembra debba profanare questo luogo sacro.
I funzionari che ci hanno accompagnato sono sull'attenti; insomma nessuno si decide a muoversi per ritornare all'esterno.
Dietro di me uno di noi soffoca a stento una risata e contagia a poco a poco tutti gli altri.
Nonostante ciò il nostro autocontrollo prende il sopravvento sino a quando, disgraziatamente, a me non viene spontaneo di canticchiare a mezza voce "Maramao perché sei morto".
Il gruppo dei seri e famosi professionisti italiani, con mia gran sorpresa, prosegue in un collettivo e collegiale coro stonato con un deciso "Pane e vino non ti mancava".
A questo punto accade, quindi, il fattaccio: i funzionari del partito e i militari ci spingono all'esterno con modi duri e decisi invitandoci a non muoverci dall'hotel.
Forse l'abbiamo proprio fatta grossa! Durante il pranzo ci comunicano che siamo attesi in serata all'Ambasciata Italiana di Pechino.
Alle venti in punto siamo tutti allineati in un grande salone con gli abiti migliori e con espressioni corrucciate e pentite e con il capo chinato come scolaretti colti sul bel mezzo d'una marachella.
L'Ambasciatore cammina nervosamente da una parte all'altra del gruppo e in modo indignato ci dice che oggi abbiamo rischiato un grosso incidente diplomatico fra i nostri due Paesi.
Si rivolge, poi, ad un cinese probabilmente addetto a chissà quale ente politico invitandolo a identificare colui che ha dato il via al fattaccio.
Nell'atmosfera elettrizzante del momento quello inizia ad avanzare e a scrutare ad uno ad uno il nostro gruppo maledetto.
Quando giunge davanti a me si arresta, si acciglia e, senza emettere alcuna parola, alza il suo braccio nella mia direzione e mi punta contro il suo indice accusatore.
Già mi vedo marcire in fondo ad una galera cinese per un numero infinito di anni, magari avvinto a catene di ferro arrugginito a pareti umide e trasudanti di sangue e con i piedi che tentano invano di allontanare grossi topi di fogna, mischiato ad altri delinquenti comuni.
Come il funzionario si allontana l'Ambasciatore scoppia in una risata fragorosa.
Confessa che un caso così non gli era mai accaduto nei lunghi anni della sua residenza in questo Paese e, quasi per incanto, spunta sul tavolone un vassoio di pasticcini e alcune bottiglie di spumante.
La vita e le voci si vanno accalorando emergendo dall'atmosfera fredda e pesante di alcuni minuti prima.
Ed è subito festa.
La sala si riempie dei tintinnii dei calici di cristallo, motivetti italiani che escono allegri da un registratore pennellano il luogo d'allegria, le chiacchiere si allungano per un paio d'ore.
Più tardi, in hotel, ci ritiriamo nelle nostre stanze ancora frastornati dalla strana serata e annebbiati dall'ultimo wiskhi.
L'atmosfera morbida della notte viene ad un certo punto interrotta da una voce che canta sommessa e decisa: "Maramao perché sei morto".
Da tutte le altre camere, all'unisono, rintrona fra i corridoi il coro di "Pane e vino non ti mancava!".