PIO, IL MUSICISTA GIUSTO di Gino Oliva, da “Abitare” 1-9-91

 

INTERVISTA

L’artista, dopo una vita tra­scorsa nella metropoli, torna nella sua Castelfranco. Af­fiorano i ricordi tra emozioni, gioia e amarezza per il cambiamento “Quando penso che ero l’unico a studiare musica....

 

Si parlava, tempo fa, con l’amico e scrittore Antonio Russello di donne, del loro ruolo estetico e sociale.

Ebbe un attimo di pausa, come in soprappen­siero, poi, da appassionato melomane, conti­nuò: “Anche la musica è donna, giovane e bella, ringiovanisce e dà gioia di vivere”.

La riflessione mi risultò subito credibile e la riferisco opportunamente per aprire il discorso sul concittadino Giusto Pio, violinista e musicista, che, pur avendo alle spalle una carriera invidiabile, a sessantacinque anni suonati, ri­fiuta la proverbiale vita in pantofole ed insegue sogni, si prova al computer, elabora musica elettronica, “roba da giovani”, come egli stesso commenta sorridendo.

Il violino, anche se attualmente in disparte, resta sempre arra di primo amore, lo strumento meraviglioso che gli sembrava avesse un’ anima,che lo aiutava a liberarsi dall’ansia iniziale quando apriva il programma dello spettacolo con la nota “Aria sulla quarta cor­da” di Bach, nell’arrangiamento per violino ad opera sua e di Battiato.

La eseguiva da solista nel quartetto e, come il mitico Orfèo con la lira, riusciva a placare i ventimila nello stadio, “inferociti” per l’eccessivo ritardo dell’inizio del concerto; poi, tra scroscianti applausi, li restituiva, rasserenati, al fascino di Battiato e al delirio del pop.

Ho notato un violino, semplice presenza, an­che nell’angolo di una lunga mensola, faccia a faccia, con un vecchio lume di vetro opalino bianco che, per contrasto di colore, gli dava risalto. I due oggetti, se isolati idealmente dagli altri che stanno sullo stesso piano, formano insieme una immagine suggestiva, pittorica: mi ha colpito subito entrando nel laboratorio, dove il maestro mi ha accompagnato.

Qui egli si isola per studiare, ricercare, speri­mentare, per liberare idee e progetti, creativi­tà, per ottenere “risultati astratti di sensazioni sonore che non hanno tempo, c’erano e ci saranno sempre”, filtrate attraverso il suo modo di sentire.

Il luogo è riservato, lo spazio è intimo ed avvolgente, le pareti adorne, poche e stretta­mente necessarie le suppellettili, sofisticate e di alta qualità le attrezzature, tecnologicamen­te avanzate, “favolose”.

Osservo ora Giusto Pio, mentre, pur apparendo seduto in posizione statica, riesce in modo dinamico a giostrarsi in mezzo a loro. Egli legge il computer, sfiora la tastiera, manovra expander, mixer ed equalizzatore, contempo­raneamente.

La musica si diffonde distillata da lui, mago o alchimista che dir si voglia, impegnato a piegare al proprio gradimento, modificandole, le differenti frequenze dei suoni, che posiziona in posti diversi per creare ambienti diversi, con effetti che sono echi, riverberi di tanti tipi. Il tutto, egli mi spiega in modo “giusto e concre­to”, per giungere sempre, il più vicino possibi­le, all’idea primaria di “compositore ed esecutore che realizza in pieno, come con un’orchestra e coro, le proprie opere, non dele­gando ad altri la propria creatività, ma egli stesso interpretandola, senza interferenze.

Fantastico!, per usare un suo vocabolo ricor­rente.

Nel mio immaginario ho visto dilatarsi l’angu­sto studio-laboratorio, configurarsi in territo­rio, città e paesi, nella realtà visiva e sonora della vita quotidiana di chi li popola, cioè di noi miseri uomini, sempre incerti tra il bene ed il male, tra preghiera ed imprecazione, tra utile ed inutile, tra carità ed egoismo, alla ricerca di un’armonia, che possediamo nel cuore, ma che siamo incapaci di coltivare e manifestare, che la musica di Giusto Pio mi ha rivelato con forza e nello stesso tempo con semplicità.

Mi sono emozionato, mi sono sentito privile­giato per aver goduto privatamente di un evento così raro ed eccezionale. Gli ho espresso la mia gratitudine ed egli, aprendosi alla confidenza, mi ha detto che spesso perde la cognizione del tempo che passa e gli capita, specie la sera, quando scende nel laboratorio per spegnere tutte le attrezzature e viene preso dal desiderio di riascoltare ciò che ha fatto durante il giorno. Non si accorge che si attarda e, quando guarda l’orologio, sono le tre di notte: “allora mi rendo conto di vivere in un’altra dimensione, diversa da quella comune”, sono sue parole.

Posiziono il registratore. Egli con affabilità a domande risponde: ecco la sua voce.

Maestro Pio, che cosa ha provato ritornan­do a Castelfranco, sua città natale, dopo circa quarant’anni?

Un grande senso di sollievo, di gusto e di gioia di vivere, che a Milano un po’ alla volta avevo perso. Tornare a casa fa piacere a tutti, questa è la cosa più importante. Anche se non mi sono mai trasferito all’estero e sono sempre vissuto a Milano, mi sono sentito sempre un emigrante. In verità non ho mai abbandonato Castelfran­co, perché qui vivevano ancora i miei genitori e, quando avevo due o tre giorni liberi, un salto a casa, ritornavo in famiglia.

Ultimamente avevo acquistato una casetta, pertanto giudicavo ridicolo rimanere nella metropoli lombarda, dove non era vita da vivere.

Da che cosa è stato colpito, a prima vista?

Era agli occhi di tutti, il paese si era ingrandi­to, si era esteso, i novemila abitanti erano diventati circa trentamila. Notavo che era cambiata la loro mentalità, il loro comportamento si era evoluto. Era cam­biato il castellano, si era alterato il dialetto. molti vocaboli erano e sono diversi perché si è diffuso l’uso della lingua italiana. E’ intervenuta anche la ricchezza, la motoriz­zazione, la televisione, insomma è cambiato il tenore di vita; il rapporto tra i cittadini, gli scambi di amicizia non sono più come una volta. D’estate, ricordo, ci si sedeva fuori, in strada, si parlava insieme di tutto e di tutti, si discuteva. La mia delusione è stata soprattutto questa, pensavo di ritrovare la stessa atmosfera ed invece, anche qui come dovunque, il progresso lascia i suoi segni, nel bene e nel male: è una grossa perdita! Quando poi penso che ero io l’unico in Castel­franco a studiare musica ed ora ce ne sono centinaia, c’è un Conservatorio, funziona da dio, ci sono dei ragazzi che suonano in maniera stupenda, il cambiamento è stato enorme.

Quali ideali, aspirazioni, aspettative hanno segnato i suoi anni giovanili?

Conseguito nel 1947 presso il Conservatorio “B.Marcello” di Venezia il diploma di violino col maestro Luigi Ferro, non sognavo grandi cose, desideravo di rendermi indipendente, autosufficiente, morivo dalla voglia di far casa da solo. Dopo viene il resto, si è ancora insod­disfatti e, siccome si costruisce un pochino alla volta., quando hai appagato il primo desiderio, ne segue un secondo, un terzo, un quarto e...via di questo passo. Era un periodo molto triste, molto duro, di dopoguerra, non c’era lavoro e, per guadagna­re due lire, bisognava andare a “far balera”. Compresi che, per garantirmi un’esistenza più sicura, dovevo affrontare i concorsi che erano stati sospesi durante il periodo bellico.

Partecipai nel 1950 a Roma al concorso nazio­nale per violino nell’orchestra dell’Accade­mia di S.Cecilia. Lo vinsi. Qualche mese dopo superai anche il concorso nazionale bandito dalla Rai per il posto di Concertino dei primi violini nella Orchestra Sinfonica di Milano. Optai per questa sede e mi trasferii nella capitale lombarda.

Un uomo, un violino, la metropoli. Come si è inserito nel nuovo ambiente?

lo pensavo di dovermi “mettere in fila” perché venivo dalla provincia, inoltre avevo la men­talità che noi “paesani” non avessimo l’emancipazione dei “milanesi” e non potessi­mo competere con loro, ho riscontrato, invece, tutto il contrario, addirittura c’è stato un rovesciamento. Temevo di non essere all’altezza, viceversa avevo una preparazione che era molto superiore alla loro e così era anche per coloro, colleghi o amici, che provenivano da altri paesi.

La pratica di lavoro e il continuo e graduale miglioramento della preparazione tecnica ci hanno portato ad occupare un ruolo che è stato dominante nell’ambiente. Da pellegrini ci siamo trovati in testa alla situazione, ci siano sentiti più forti, è stata una sensazione gratificante, tutt’altro che delusione.

Successivamente quali episodi hanno inciso in maniera determinante nella sua vita e nella sua carriera di musicista?

Uno solo ritengo determinante ed è avvenuto in questi ultimi anni, quando mi sono dedicato d altre forme musicali. Prima è stato tutto uno svolgersi regolare di ampliamento di conoscenze, di sviluppo tecnico e musicale, ma progressivo. Nel 1953, come componente del “Giovane Quartetto di Milano” vinsi una borsa di studio nel Concorso Nazionale di “esecuzione per quartetto d’archi” presso l’Accademia di S.Cecilia a Roma.

Questo premio mi consentì nel settembre dello stesso anno di partecipare al Concorso Interna­zionale di Esecuzione Musicale a Ginevra. Fu vittoria anche in questa prova all’estero, una grossa soddisfazione per me, anche se allora l’evento non faceva grande notizia, scalpore sulla stampa, come accade oggi. Niente che mi facesse sentire un altro.

Aumentò però la mia notorietà e, di conse­guenza, fui invitato ad esecuzioni in tutta Italia, a Milano, in modo particolare, dove qual­siasi buco o luogo di un certo rilievo ci teneva alla mia presenza, ai miei concerti.

Ma la mia vita ha avuto una svolta decisiva quando sono stato convinto a dedicarmi alla composizione, a cercare di realizzare quello che sentivo non solo come esecutore ma come autore. Sono stati l’incontro con Battiato nel 1975 ed il mio ritiro dalla RAI nel 1981 a farmi sentire un altro.

Rammenta i luoghi che, in giro per il mon­do, le hanno trasmesso sensazioni diverse?

La mia prima uscita importante è stata, indi­scutibilmente, Ginevra. La ricordo per due motivi, perché fu la mia vera affermazione giovanile e perché suonai assieme al Quartetto di Milano alla presenza dell’ex regina d’Italia Maria Josè nel castello di Merlinge, residenza estiva dei Savoia. Mi è grato anche ricordare l’atmosfera della preparazione al concorso ginevrino nel ritiro in montagna nel veronese. Io ero sposato da poco, mia moglie preparava da mangiare per tutti. Noi studiavamo al buio perché ci si concentrava di più e la mancanza di luce aumentava la nostra sensibilità. Un’esperienza fantastica! Quando il lavoro è routine non cambia niente che uno sia a Parigi, a Los Angeles, a Madrid. Mi colpì molto Berlino, ancora parecchi anni fa, quando mi recai ad un Festival dove si eseguiva musica codificata e musica improv­visata. L’ambiente dove si fa improvvisazione non è certo quello dove si fa musica classica, tradi­zionale. C’è una tensione diversa, perché di­verso è il rapporto con il pubblico e non è lo stesso di quando si esegue musica di altri autori. Berlino si è fermata nella mia memoria per il clima rigido di quel momento (c’era un freddo spaventoso), ma soprattutto per aver visto da vicino la divisione della città. Una emozione indimenticabile. Ultimamente sono stato a Londra, ma lavora­vo come fossi a casa mia. Io mi trovo bene dappertutto, specie se incontro dei colleghi che la pensano ed hanno voglia di lavorare come me, altrimenti non si può stare assieme.

L’incontro con Battiato ha segnato, forse, anche il passaggio dalla musica classica a quella leggera?

Non è stato un passaggio da un tipo di musica ad un altro, ma un allargamento verso un certo tipo di musica che non conoscevo.

Io mi sono dedicato a tutte le forme musicali, facevo parte anche di un gruppo che eseguiva musiche dal Medioevo al Rinascimento, suo­navo la ribeca, la viella, la lira da braccio. Avevo fatto, quindi, musica medioevale, rina­scimentale, fino alla contemporanea, d’avan­guardia, underground, ma mai musica leggera. Non è stato un passaggio perché è sempre musica, solo che si esprime con un linguaggio diverso. Ora io sento in maniera diversa tutto quello che avevo fatto prima e do anche una valutazione diversa.

Nei Conservatori dovrebbe essere inserito anche lo studio di questa disciplina. Ho conosciuto Battiato per merito del pianista Anto­nio Ballista che mi ha telefonato una domeni­ca per dirmi che “un tipo” voleva imparare a suonare il violino. Io non avevo tempo ed ho risposto di no. A tavola i miei figli, quando hanno capito che il “tipo” era Franco Battiato, mi hanno convinto ad accettare la proposta. Inizialmente è stato un rapporto tra maestro ed allievo con lezioni come in una normale scuola. Successivamente abbiamo intessuto un dia­logo che ci ha dato la possibilità di verificare punti di interesse comuni cd una certa affinità di pensiero. Ha avuto inizio la collaborazione, Battiato è diventato inseparabile amico. Con lui ho intrapreso un nuovo modo di far musica,di lavorare, organizzare, realizzare, di inserirmi anche in quello che comunemente si definisce “commercio della musica”: una vera svolta nella mia vita!

Ha collaborato con altri?

Sì, con Gaber, Ombretta Colli, Milva, Farida, Giuni Russo, Alice che ha vinto il Festival di San Remo 1981 con il brano “Per Elisa”, firmato da me e Battiato. Tutti artisti con cui mantengo ottimi rapporti di amicizia.

Il successo ha influenzato sul suo modo di pensare e di vivere?

Ho capito che molto di ciò che mi è capitato si chiama SUCCESSO, l’ho preso come una cosa che mi è passata vicina, l’ho afferrato più forte che ho potuto per non lasciarmelo scappare, pero sono rimasto cosciente che io sono io e nulla mi deve cambiare. Di questo sono sicuro.

Quanto costa emergere ed affermarsi nel inondo che lei ha conosciuto e praticato?

A me non è costato niente: dalle cose più piccole a quelle più grandi io ho messo sempre lo stesso impegno, lo stesso spirito, lo stesso modo di lavorare. Ho affrontato tutto con le stesse mie forze, senza voler strafare, quindi non mi è costato molto. Diventa fatica solo quando una persona è costretta a fare ciò che non sente.

Ha avuto impedimenti nello svolgimento della sua carriera?

ProbabiImente, se non avessi avuto gli impe­gni di famiglia, le mie scelte sarebbero potute essere diverse. Ma hanno avuto un ruolo pre­dominante la mia mentalità di veneto e l’educazione che avevo ricevuto nella mia famiglia.

In che modo impegna, oggi, la sua giorna­ta?

Adesso faccio quello che voglio, non lavoro, mi diverto lavorando. Una volta, quando ero in orchestra, alcuni miei colleghi si lamenta­vano, protestavano perché si lavorava male, con cattivi direttori, musiche discutibili, ese­guite peggio. Altre volte, invece, mostravano la loro soddisfazione perché musiche belle erano eseguite bene: era fantastico!

Se noi dovessimo lavorare solo quando la musica è bella, il direttore è bravo, in posti belli, i nostri impegni, obiettavo, si ridurrebbe­ro a solo due - tre mesi all’anno, poi resterem­mo inoperosi. Nella vita bisogna sempre me­diare con qualcuno o qualche cosa, per cui devi accettare ciò che ti si offre anche quando non ne sei entusiasta, devi continuare a guada­gnare per vivere. Io oggi non sento più questo bisogno, mi accontento di poco, quello che ho mi basta e non medio più con niente e con nessuno, faccio musicalmente solo quello che mi piace e tanto basta. Questa è una grande conquista. Faccio dei nuovi esperimenti con il computer ed anche questo, alla mia età è una cosa piuttosto rara, però è un’altra esperienza che io aggiungo a mie spese. Se ne ricavo un utile, perché piace anche agli altri, niente di meglio; se ciò non accade, ne ho tratto ugualmente una utilità perché mi sono divertito. Il mio appagamento consiste innanzitutto nel fare ed opera­re per me stesso. In questi ultimi due mesi alcuni direttori di­scografici hanno esaminato le mie composi­zioni e le hanno pubblicate. E’ andata benissi­mo.

Ed il suo violino?

Ho studiato il violino perché mi piaceva la musica, ma mi piacciono tutti gli strumenti. Adoperavo il violino per suonare la musica e non viceversa: è un concetto che mi ha tra­smesso il mio maestro Luigi Ferro e che io non ho dimenticato, lo condivido e lo trovo giusto. Adesso ho la possibilità di avere in casa mia dei colori, degli effetti che anni fa erano impensabili. Se Wagner, Beethoven, avessero avuto a disposizione gli attuali appa­recchi elettronici, che cosa non avrebbero saputo trarne con il loro genio, se noi, persone modeste, riusciamo a realizzare cose che ci appaiono grandiose. Disporre ad esempio di un expander, per noi musicisti è avere quello che un pittore direbbe avendo a disposizione una tavolozza con mil­le colori.

In un ipotetico bilancio morale si sente in debito o in credito con la sua città?

In debito no, in credito neanche perché ha dato a me quello che dà a tutti. Sono nato qui, sono cresciuto qui. Mia madre, originaria di Piove di Sacco era insegnante elementare; mio padre, bergamasco, era occupato alla Fervet. Entrambi, quindi, abitavano, lavora­vano, guadagnavano qui, mi hanno fatto stu­diare con le loro possibilità. Mi sento gratifi­cato dai miei concittadini perché molti mi stimano, mi sento bene accetto in ogni am­biente, mi fa molto piacere quando molte persone, che io non conosco, mi salutano in un modo, che considero “particolare”.

In base alla sua lunga esperienza, cosa consiglierebbe ai giovani che si accingono ad intraprendere gli studi musicali ed a quelli che iniziano la loro attività professio­nale?

I giovani che studiano musica adesso devono tener conto di una realtà diversa da quella dei miei tempi. Ci sono molte possibilità di lavo­ro ma anche migliaia di ragazzi che si sono dedicati allo studio della musica. Purtroppo la concorrenza è spietata. Ultimamente a Roma, ad un concorso, si sono iscritti ottocento vio­linisti per pochi posti. Sono tutti bravi, riescono però solo quelli che hanno la possibilità di dedicarsi a studi appro­fonditi, di perseverare, di migliorare per esse­re superiori agli altri e quindi riuscire. La sola vocazione non è sufficiente. Non credo alle raccomandazioni, almeno in campo musica­le. Vale solo la qualità.

A Castelfranco abbiamo un esempio: un ele­mento eccezionale, Mario Brunello, ha vinto a Mosca nel 1986 il Concorso Ciaikowski. L’ho sentito la prima volta nel settembre del 1983 al Teatro Accademico, era appena di­plomato. Io mi trovavo a Castelfranco di passaggio in tournée. Brunello era solista nel concerto di Haydn per violoncello ed orche­stra, dirigeva Janigro. lo sono rimasto SCOSSO. Quella notte non riuscivo a dormire ripensan­do al concerto. Mia moglie per tranquillizzarmi, sosteneva che la causa della mia insonnia fosse la stanchezza, accumulata durante la tournée con spostamenti di centinaia di chilo­metri ogni giorno, “avevo le ruote sotto le gambe”, diceva. Due giorni dopo, il concerto fu ripetuto ad Asolo ed io andai a riascoltarlo, ebbi la riconferma della prima impressione ricevuta. Io non avevo mai sentito una simile esecuzione, soprattutto da un giovane. Comu­nicai il mio entusiasmo a suo padre e ad altri amici, i quali, pur d’accordo sulla bravura di Mario, erano stupiti dei mio apprezzamento e della mia emozione. I fatti, poi mi hanno dato ragione. A coloro che si avviano alla carriera professionale ripeto quello che diceva il mio vecchio caro insegnante Luigi Ferro: “Quando suonate dovete provare piacere, perché, se piace a voi, piacerà anche agli altri ascoltare: ma come potete pretendere che piaccia agli altri, se a voi non piace? Siate sempre incon­tentabili”.

 

Siamo usciti in giardino, la giornata settembri­na invita ad una breve sosta prima del saluto di commiato. Sopraggiunge chiassoso il nipotino Andrea, che agita una trombetta e strepita perché non vuole studiare violino preferisce fare l’astronauta. Scelta della sua generazione? Intanto lo atten­de la lezione di musica, col nonno ovviamente.