DA MUSIK MAG ALL’ITALIANA

SUPPLEMENTO AL N. 21 DI SUPERSTEREO

VIVERE IN UN MUSEO

INTERVISTA CON GIUSTO PIO (con due brevi interventi di Franco Battiato)

DI CARLO CELLA

Sono amare le considerazioni del violinista dell’Orchestra RAI di Milano sull’eseguire musica classica oggi. Pio è principalmente noto per il suo suggestivo album “Motore immobile” (Cramps) e come coautore della canzone vincitrice del Festival di Sanremo. Ma è del suo ruolo di orchestrale, dei rapporti con i direttori, dell’atteggiamento del pubblico dei concerti “seri” che ci parla con sincerità, in un’analisi lucida e polemica.

Giusto Pio - tutti sanno - è coautore insieme a Franco Battiato della celebre e chiacchierata canzone vincitri­ce del Festival di Sanremo. Ma con lui non parliamo di Alice e Per Elisa. Giusto Pio è violino di concertino nell’Orchestra RAI di Milano diretta da Zoltan Pesko, sotto la guida artisti­ca di Giorgio Vidusso. E’ un musicista “classico” prima di tutto, è interprete di musica “colta”, è professore d’orchestra, e il suo lavoro l’ha portato in molti anni di carriera a contatto con direttori, solisti, repertori diversissimi. Appartiene alla categoria bistrattata degli orchestrali, ed è questo aspetto di Giusto Pio ad interessarci, il suo doppio fronte musicale: quello dei concerti del venerdì sera nella Sala del Conservato­rio, in abito scuro a code, e quello delle tournée con Battiato. E non parliamo nemmeno della fama acquisita con un brano ficcante e astuto, da fischiettare la mattina dopo come una canzone di Sanremo che si rispetti, e comunque figlio degli anni ‘80 per l’essere una tipica non-melodia, associata con furba e demistificante assonanza ad un titolo celeberrimo, assunto nel cielo della musica come quintessenza della melo­dia.

 In quale momento voi in orchestra capite che un direttore è mediocre, stupido, geniale, profondo, autorevole, incerto?

Subito, alla prima prova, quando sale sul podio. Dal momento in cui alza le braccia, segna un levare, si capta e si sente se è un direttore che ha autorevolezza, se ha capacità direttoriali e di che genere sono quelle capacità, se sono doti naturali o frutto di studio...

 

E così sapete subito se andrete d’accordo, se la vostra visione del brano da eseguire coinciderà con la sua?

 Non tanto quello... Intuiamo subito se sul podio c’è qualcuno che ha vere doti di direttore, se merita quel posto, cioè se ha capacità per giustificare il modo in cui vede quel pezzo e dunque il modo in cui ci porterà a suonarlo. Ad esempio Celibidache era un direttore di questa stoffa. Con lui, in un’ora di prova si teneva in mano lo strumento per poco, si suonava effettivamente non più d’un quarto d’ora. Tutto il resto del tempo era speso a convincerci che in quella partitura Brahms, ad esempio, non aveva curato tutte le indicazioni dinamiche, che non si poteva suonare “piano” o “forte” la stessa parte, com’era scritto, sul violino, su un legno o su un violoncello, e che nel passaggio da una famiglia all’altra bisognava fare adattamenti. Ecco, con Celibidache, per quan­to le sue idee divergessero con le nostre abitudini, si finiva per andare d’accordo, perché aveva questa straordinaria capacità di convincere, di motivare le sue scelte e di farti suonare come lui voleva facendo in modo che anche tu lo volessi. Ed era divertente quando, magari dopo litigi e scontri, alla fine confessava che tutto sommato preferiva lavorare con noi latini, faticare e lavorare di più. “Coi tedeschi - diceva spendi un sacco di tempo per fargli intendere come tu vuoi un certo pezzo, loro ti ascoltano e alla fine l’eseguono come l’hanno imparato da Walter o Furtwangler”.

Quindi non conta, per averne stima, che le vostre idee coincida no con quelle del direttore?

No, se è capace di motivarle.

 Ma se non coincidono, e per di più non è capace di motivarle, la conseguenza e la vendetta saranno il suonare male.

Esatto.

 Ed oltre a Celibidache, quali altri direttori dl cui hai avuto esperienza metteresti fra i grandi?

Tutti quelli che ben sappiamo, senza nominarli.

 GlI altri invece?

Sono tutti uguali.

 Anche i risultati delle esecuzioni?

Sì, non sono sostanzialmente diversi. Cambiano solo i giudizi critici, le recensioni, quelle si, ma noi vediamo bene in orche­stra che il risultato è sempre uguale. 

Perché si intervista così dl rado chi sta nell’occhio del ciclone di un’interpretazione, ovvero gli orchestrali?

Gli orchestrali li si interpella in quanto tali, come categoria, e rispondono con la mentalità dell’orchestrale, rispetto alla quale mi sento molto libero, non penso di avervi molto a che fare.

 E in che cosa consiste questa mentalità, come vede un orchestrale il proprio direttore?

Non saprei come spiegare, ma l’orchestrale subisce un certo influsso, un condizionamento, e di conseguenza parla sempre come uno schiavo costretto a dire bene del proprio padrone. Conosco molti miei colleghi, elementi d’oro, competenti e bravi sul lavoro, che si comportano come mugiki, non riesco­no a vedere il rapporto col direttore se non in maniera subor­dinata; E’ qualcosa da cui mi sento libero.

 

E il fatto di sentirti estraneo da questa mentalità è causa ed effetto del suonare con Franco Battiato ovviamente.

Franco ha sviluppato in me questa istintiva indipendenza.

 

La gente che ti applaude nelle tournée quando suoni “L’Era dei cinghiale bianco” probabilmente non immagina che tu ogni venerdì sera sieda in orchestra in abito da concerto per eseguire sotto la bacchetta di direttori sempre diversi sinfonie dl Mozart, Mendelssohn, Brahms, Bruckner, Strauss, e può interessare sapere come s’è formato questo sodalizio.

“Semplicemente Giusto è stato il mio maestro (interviene Battiato). Ho studiato per tre anni violino con lui, poi abbia­mo scoperto coincidenze di idee sulla musica”.

 

Così Giusto Pio è diventato anche musicista ed autore di musica cosiddetta di consumo. Perché quel fastidio nei confronti della musica “colta”? Cosa c’è che non va, per te, nella musica “classica”?

Ogni volta che suono in orchestra, davanti ai pubblico del Conservatorio, sento un diaframma insuperabile. La gente non ascolta veramente quello che stiamo suonando. Se ad esempio si esegue Verdi, ebbene Verdi c’è in una esecuzione mediocre, in una cattiva, in una buona. Ma la gente guarda soprattutto se tu suoni bene o no; come il loggionista si diverte solo se l’acuto è ben fatto. Il pubblico non ascolta Verdi, ascolta come tu suoni.

 

Mentre con Franco...

Ascolta veramente quello che suoni, non come suoni. E’ una musica che passa in un filo diretto, non c’è quel diaframma che sempre esiste in una esecuzione di musica classica. Anche perchè la gente non la capisce, non è in grado di giudicare. Qualche anno fa è capitato che un direttore avesse finito tre battute prima dell’orchestra, e comunque il pubblico è scoppiato in delirio lo stesso. Tre battute sono tante.

 

Anche il pubblico del Conservatorio è comunque cambiato e ringiovanito.

Si, ma è un cambiamento di guardia che non muta la sostanza. E’ come una catena: gli anelli sono diversi, ma la lega è la stessa.

 

Comunque un filtro con la musica del passato è naturale che esista, ed avviene proprio attraverso la tecnica che le si applica per restituirla. Ma la musica dei nostri giorni?

Dico solo che quando si eseguono brani di compositori con­temporanei proporrei che un 8% dei diritti d’autore SIAE venissero versati agli orchestrali. Perché, rispetto a quanto è scritto sulla pagina, almeno un dieci per cento è invenzione dell’orchestra. Molte volte ci siamo trovati ad inventare, a riempire dei buchi nella pagina, a completare passaggi non scritti o non risolti. Ricordo che con Ferraresi una volta ci trovammo ad inventare una bella fila di battute. Era un brano di un compositore contemporaneo molto grosso, di quelli che vanno per la maggiore, e ad un certo punto nell’orchestra rimaneva a dover suonare solo il quartetto d’archi, due violi­ni, viola e violoncello. E questo passaggio era scritto in modo tale che per eseguirlo ci volevano sei dita, di cui almeno una più lunga di tre centimetri rispetto alle altre. Così ci siamo guardati e ciascuno s’è arrangiato ad improvvisare. L’autore è poi venuto a complimentarsi con noi e a dirci che il pezzo cosi andava benissimo.

 

Ed era naturalmente un compositore che rifiutava l’alea.

Certo, certo, tutta musica scritta in maniera determinata. Una volta dovevamo eseguire una composizione per orchestra di un musicista contemporaneo molto noto e l’autore scoprì che per quell’occasione il pezzo era troppo breve. Allora il direttore arrivò alle prove con una lunga lista di avvertenze dell’autore in cui si diceva: alla tal battuta i violini riprendono quelle tre righe di partitura, gli strumentini riprendono quelle altre, gli ottoni queste ancora, e così via. Insomma pur di allungare il pezzo andava tutto bene. E in una musica a scrittura determinata questo è inconcepibile, dice molto sulla serietà di molta musica contemporanea. Di una partitura prendo una riga dalla prima pagina di uno strumento, una riga dalla settima pagina di un altro strumento, le metto insieme e ho creato un’altra composizione. Oppure trovi un direttore che arriva alle prove e ti assicura che di quel compo­sitore è assolutamente convinto, che quella partitura è impor­tante. Poi scopri che quella musica della quale viene a parlarti con entusiasmo lui non l’ha mai sentita perché è in prima esecuzione, che non ne ha nemmeno fatta la prima lettura e che addirittura la musica era in parte da scrivere. Ma lui sapeva già che si trattava di un capolavoro.

 

Un eccesso dl fiducia.

Sì, diciamo fiducia, ma il triste è che il pubblico ha abboccato all’amo in una maniera spaventosa. E poi leggi sugli striscioni “Musica nel nostro tempo”...

 

In che modo tu cambi quando suoni musica cosiddetta di consu­mo rispetto a quando esegui musica cosiddetta seria.

lo non la considero “seria”, comunque quando suono in condizioni di contatto col pubblico questo filo diretto cambia completamente le cose. C’è una partecipazione ed una libertà che non esiste dall’altra parte.

 

Ma quando muovi le dita sul violino che cosa senti di diverso?

La sostanza di tutto è che il triste del far musica consiste nel suonare quello che vogliono gli altri, quando vogliono gli altri, come vogliono gli altri. Qui invece suono quello che voglio io, quando voglio io, come voglio io. Là mi considera­no solo se sbaglio, stecco, non intono, fischio. Qui la gente ascolta quello che ho da dire. Non mi sembra di essere un acrobata del circo equestre che per il piacere degli altri cam­mina su un filo ed ha paura di cadere. Questo è quel che sento quando suono in orchestra.

 

Che è la differenza che corre tra l’eseguire musica d’altri e suonare musica propria.

Si, ma anche quando eseguo musica di Franco, scritta e decisa interamente da lui, io non mi sento un esecutore. Anche perché sulla musica classica pesano certe imposizioni secondo le quali Brahms va eseguito in quel solo modo, Mozart esige quel vibrato. Pesa insomma la rigidità degli schemi che si applicano all’interpretazione.

“Ad esempio (Interviene Battiato), qualche anno fa, accenden­do il televisore, vidi un filmato di Michelangeli che suonava un concerto di Beethoven. Per la prima volta nella mia vita sono rimasto affascinato, calamitato. Mi dicevo, questo è veramente straordinario. Qualche tempo dopo, parlandone con Antonio Ballista, lui disse d’essere rimasto scandalizzato dal modo in cui Michelangeli trattava Beethoven, che non andava eseguito cosi, eccetera; pur ammettendo che nella realtà del concerto dal vivo il suono di Michelangeli era veramente straordinario, insisteva che comunque appartene­va al mondo della magia, non all’interpretazione corretta. Un assurdo; è come andare su una spiaggia, vedere uno che lievita, che vola per virtù proprie e dire: ma guarda che cretino quello, vola!”.

 

Cioè considerare che ci sia un solo parametro di interpretazione valido, e se per caso se ne ascolta uno non corrispondente sostenere che è sbagliato.

Esattamente. Certo i parametri cambiano nel tempo, guai se non fosse così. Ad esempio tutta la musica barocca, come si è sempre eseguita e si continua ad eseguirla anche oggi, non corrisponde a come si eseguiva a quel tempo, secondo quanto risulta da documenti e testimonianze. Solo adesso, soprattutto all’estero, in Inghilterra e in Olanda, stanno formandosi degli interpreti che eseguono su strumenti d’epoca e con la tecnica dell’epoca. Ma pensa che subito dopo la guerra il più autorevole gruppo italiano di musica barocca era il Collegium Musicum Italicum, che leggeva Vivaldi sul pianoforte. Ades­so è impossibile andare in giro e far ascoltare Vivaldi sul pianoforte al posto del clavicembalo, ma è vero che tutto è già definito a priori. Quel che voglio dire è che si suona prima di tutto come vogliono il pubblico, la scuola, gli insegnanti, i critici (Vivaldi con un certo colpo d’arco, altrimenti sei “fuori”), e ciò magari va contro le testimonianze storiche. Tutto è rigido e predeterminato. Per tornare a come mi sento quando eseguo musica classica e che cosa diversamente provo quando suono con Franco, dico questo, che nell’interpretazione di musica classica ti impacchettano, ti legano una corda intono e poi ti dicono: bene, adesso suona il violino. Eseguire musica classica è come vivere in un museo. Ma i musei sono fatti per essere visitati, non per abitarci.

 

In un’ intervista rilasciata a Roberto Gatti, un musicista che ha come te una doppia immagine di interprete classico e dl musici­sta non “colto”, Barry Guy, membro della London Sinfonietta e della Academy of Ancient Music, oltre che contrabbassista jazz, compositore, improvvisatore, dice testualmente: “Il mondo della musica classica è fatto di impresari che vogliono guadagnarsi il 15% dei tuoi contratti, di gente che per il fatto dl frequentare concerti si parla addosso dl Mozart e Monteverdi senza sapere assolutamente niente dell’improvvisazione, del jazz, della musica che si produce al di fuori dei circuiti colti”. Insomma li accusa di ignoranza nei confronti di quanto di vivo si produce fuori dalle loro coordinate mentali. E conclude dicendo all’incirca: “quello che della musica classica ml piace è la musica in sè, non quello che le sta intorno, condizionato solo dal denaro e dall’interes­se” E’ una aperta accusa di consumismo verso la musica “seria”, spacciata come sempre “pura”, da parte di un musicista che conosce bene dall’interno sia l’uno che l’altro fronte. Vivi anche tu così questo rapporto, oppure ti sembra esagerato?

A dir la verità, questo signore mi sembra troppo buono.