Ci sono delle volte che mi chiamano l’ungherese,

qualcuno la polacca, io non sono né l’uno né l’altro.

Io lascio che dicano, in fondo è come avere più vite, è come avere più misteri.

A me mi si incontra in tanti posti, che in uno solo faccio fatica a starci,

io alla mattina faccio il giro dei tram oppure mi siedo alla stazione,

qualcuno a volte mi chiama puttana, qualcuno barbona,

io penso che è per via dei miei capelli neri e lunghi e ricci,

io li guardo e sorrido e dopo qualche volta, qualcuno torna indietro e mi offre un caffè.

Mi dicono Sembri una zingara, con tutto quel nero sugli occhi, con tutte le collane che hai.

Io rido e gli chiedo se vogliono sentire una poesia.

Mi guardano muti e scuotono la testa, a volte c’è chi dice, Ho mica tempo io per quelle scemate, Cos’è che dici? Le poesie? Quelle le dicono i bambini…

Io li guardo dico niente e vado via e lascio lì il caffè, che certa gente è maledetta dentro.

Alla stazione si vedono tante facce, si pensa che qualcuna interessante la si trovi,

certe volte capita di sì.

Un giorno che pioveva dentro agli occhi uno mi ha guardato e non smetteva più, io avevo il mio vestito rosso e azzurro, di tela indiana sottile infradiciato, e stavo lì a bocca aperta a guardare piovere, a bere le gocce che sapevano di polvere.

Poi dato che continuava a guardarmi ho detto Signore? Vede? Questa è l’acqua che lava le mani di Lady Macbeth, ma non pulirà il sangue del mondo.

Lui si è girato di scatto e mi ha detto Ma come fai a conoscere Shakespeare?

Ma sai leggere?

Signore, io so leggere e so scrivere, signore, la vede quella borsa lì per terra? Lì, signore, ci può trovare Shakespeare, ma anche Milton e il Levitico, signore.

Ma te chi sei?

Sei una barbona? Li hai rubati quei libri lì?

Io non rubo, signore.

E allora come li ha presi?

Lei è un uomo stupido signore, rozzo e ignorante.

Brutta puttana guarda qui che schifo che fai, ma vaffanculo te e le tue cazzate va’..

Si era alzato in piedi e aveva cominciato a prendere a calci i miei libri, io lo tiravo per l’impermeabile, lui si è voltato e mi dato un manrovescio

Mollami brutta stronza, che cazzo vuoi da me?

Io ho perso l’equilibrio e sono caduta.

La gente passava in fretta e faceva finta di non guardarmi.

Io ero lì, con un labbro spaccato e piangevo, ma mica per il labbro, che quello si metteva a posto, io piangevo per i miei libri persi, guardavo le pagine staccate, fradice, calpestate.

Io, in quel momento lì, io ho pensato che era meglio morire.

Sono rimasta così, con le braccia intorno alle ginocchia il vestito bagnato, sporco di sangue, seduta per terra, che era meglio se mi buttavan via.

Come un rifiuto.

Poi quella sera che intanto continuava a piovere, ho avuto fortuna, è venuto a cercarmi Yankele, si è chinato con i suoi occhiali storti e mi ha baciato i capelli, mi ha accarezzato il sangue secco, ha raccolto quello che rimaneva dei libri, mi ha fatto alzare.

Ha detto Andiamo.

Io avevo le labbra viola per il freddo e per via del taglio che non riuscivo neanche a parlare.

Yankele mi ha detto Mangiamo qualcosa.

Mi ha portato al bar della stazione ma non ci volevano servire, dicevano che prima volevano i soldi, Yankele ha pagato in anticipo, ma ci hanno dato da bere l’acqua del rubinetto nei bicchieri di carta Perché io non lo so mica cosa c’ha quella lì, ha detto il barista guardandomi.

Yankele mi ha sorriso e mi ha baciato il labbro con le sua gentilezza, mi ha accarezzato, dicendomi all’orecchio di non badarci, che erano sciocchi e pieni di pregiudizi.

Yankele era il mio amore, era il mio rifugio, lui sapeva sempre dove trovarmi, anche se io non gli dicevo mai dove andavo.

Yankele dagli occhiali storti e dalla giacca lisa e senza bottoni,

 adoravo la sua tenerezza e il suo sapere.

Lui ridendo rispondeva che aveva un talento particolare per i randagi.

Mentre mangiavo il panino con la frittata mi si è riaperto il taglio e mi sanguinava sul panino, io cercavo di pulirmi che avevo paura che il barista ci mandasse via.

Tutti ci guardavano, e stavano lontano da noi.

Il barista ha detto Avete finito?

Yankele ha chiesto del porto, per me.

Lui ha voluto ancora i soldi prima, ma mi sa che ci ha fregato, perché ha chiesto molti soldi, io ho detto no, no, andiamo via, lascia stare, ma Yankele ha detto che mi ci voleva il porto per scaldarmi un po’.

Oh vè stracciona dai, ridammi il bicchiere di prima, che io non lavoro mica per sputtanare i soldi come fate voi, sta’ attenta! Tienilo lontano dal collo della bottiglia…sei scema?

Che fai schifo a guardarti.

Io mi sono messa a guardarlo e ho detto Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Questa morte che ci accompagna

Dal mattino alla sera, insonne…

Ma vai a farti sfottere te e le tue maledizioni zingara della malora!

Va via troia te e quell’altro mezzo sfigato lì, via viaaaaaaaaaaa

 

Ci siamo messi a correre come potevamo, Yankele faceva fatica per via che respirava male, io volevo tenermi anche il panino, ma ho perso la frittata che c’era in mezzo, Yankele aveva i miei libri…che fatica.

 

Micol, mishoctcha, dormi, fai di questa notte un ricordo buono.

Micol, fatti disinfettare, ti prego, Micol.

 

Sono nella casa di Yankele, è una stanza piena di libri e di caldo, in un casolare da contadini abbandonato, è una casa di tutti e di nessuno, chi viene cerca un rifugio e si ferma, ognuno una stanza.

Sono stanca Yankele, sono stanca, mi piacerebbe avere ancora i miei libri, torniamo a casa.

Micol Siamo a casa.

No!

Micol, non essere egoista.

 

Io penso alla casa che avevo vicino a Eilat.

Penso al sole e ai kibbutz del Negeev.

 

Yankele ha ragione.

Non devo essere egoista.

 

Yankele mi mette un fazzoletto bagnato sul labbro, mi legge L’Orlando furioso e io chiudo piano gli occhi e conto i lividi dell’anima.

Seppellisco i sogni nel mio cuore per tutto il tempo del mondo,

per tutti gli universi, in questa notte di sonno difficile e la quiete mi avvolge piano come una verità che non condivido.