Grotta Chauvet: una donna, uno stregone, un leone |
Grotta Chauvet:
UNA DONNA, UNO STREGONE, UN LEONE
E’ nella gola dell’Ardeche, nella grotta Chauvet, nella sala di Fondo, santuario nel santuario, che c’è l’immagine femminile più incredibile e inquietante di ogni altra figura di donna paleolitica, di una fisicità, materialità ed energia magnetica sconosciute.
Parte inferiore di un corpo femminile che forse trova pari solo nel quadro di Gustave Courbet <<l’origine del Mondo>>.
E’ lì, su uno spuntone di roccia di forma fallica,che pende dal soffitto; non sola ma organicamente inserita, o meglio, avvolta in un insieme figurativo che per la forza della scena e la splendida immediatezza, o forse brutalità, evocativa del mito dell’origine (?) non ha confronti, non ha eguali, non potrà mai averne.
Figura nera, frontale, un triangolo pubico più grande che nella realtà, le due gambe.
Figura nera, come il colore della fertilità della terra, della grotta-grembo della Dea inizio della vita; un colore dalla forte valenza “positiva” per la cultura pre-indoeuropea dei paleolitici.
Figura nera, avvinghiata da un essere incredibile, mezzo uomo e mezzo animale; sovrastata dall’immagine di un leone.
Un insieme eccezionale che doveva avere per la comunità paleolitica, quindi per l’artista, un significato profondo, di estrema potenza mitica e mistica. Chi, lasciato il mondo reale e penetrato in quell’altro mondo, spazio profondo e buio, osava entrare in relazione con il mito stesso ?, sciamano, preadolescenti per i riti di passaggio, il gruppo delle donne nel bisogno di rinnovare e perpetuare un ruolo fondamentale o il gruppo dei cacciatori protagonisti esclusivi di un rito di supremazia e potenza che si ripeteva da millenni?
Come sono stati raffigurati dall’artista, o artista-sciamano, questi personaggi, forse del “primo” mito di quella popolazione di cacciatori-raccoglitori preistorici?
1) la donna:
l’immagine supera nella sua impostazione iconografica i “limiti” delle vulve e dei triangoli pubici tipici della cultura aurignaziana e si avvicina, pur essendo incompleta, alla rappresentazione della figura femminile completa, non più sinteticamente e simbolicamente espressa dalle vulve. Realizzata con il carbone di legna ha subito, per l’aggiunta delle altre figure, dei rimaneggiamenti che ne hanno ridotto l’integrità, data la forte probabilità che nella prima stesura fossero rappresentate altre parti del corpo, quali le natiche ed il busto, o parte di esso.
Il grande triangolo pubico è quasi intatto e solo l’estremità sinistra è scomparsa sotto la figura dell’essere composito. Il pube non è rappresentato in modo sommario, anzi, c’è una particolare attenzione a non ottenere un’immagine appiattita, un semplice triangolo di colore nero.
L’artista ha lavorato:
a) in orizzontale con delle linee curve, spesse e più marcatamente nere ,su un “fondo” invece meno colorato, mirando ad ottenere un’impressione di voluminosità e convessità ;
b) in verticale, con delle macchie lineari nere che dividono quasi a metà il pube, ed infine con un preciso segno verticale inciso che rappresenta il solco vulvare.
Un triangolo pubico quindi “realistico” e “presente”, con tutto il suo millenario significato simbolico e mitico. Non erotico, non osceno, ma “luogo di origine” che non esclude certo la sessualità, anzi, ma è ben altro in quell’insieme compositivo; un elemento sacrale probabilmente, al centro di un evento creativo che l’essere umano doveva contribuire a richiamare e rinnovare.
Le gambe, le cosce accennate, finiscono senza piedi, a punta, come “costume stilistico” della raffigurazione femminile paleolitica, anche nelle statuette mobiliari del periodo gravettiano.
Questa parte di donna, è raffigurata frontalmente, con le cosce e le gambe posizionate in modo tale da dare l’impressione, secondo me, di una figura seduta, non in piedi.
La posizione delle cosce e delle gambe, pur se richiama ad esempio quella della “Venere” di Willendorf, è nettamente più accentuata e quindi è improbabile che la figura sia stata rappresentata eretta, in posizione verticale.
Solo per questo “elemento narrativo” la Chauvet sarebbe straordinaria.
Non voglio spingermi troppo oltre, ma se la figura è effettivamente seduta sarebbe un caso unico nello “stereotipo” femminile del Paleolitico; e comunque questa rappresentazione pittorica frontale è già una conquista stilistico-formale per l’immaginario figurativo dell’aurignaziano.
Nei primordi dell’arte del sapiens sapiens, tra la leggerezza e bellezza stilistica della statuetta di Galgemberg, una “ballerina” del paleolitico e la “statuarietà” ed il “realismo” descrittivo della Venere di Willendorf, c’è questa “semplificazione” della Chauvet; che certo non è stata fatta per la luce del sole, come le altre, ma per il grembo della madre terra. Rappresentazione meno stilisticamente “evoluta” di quelle ma sicuramente di una potenza evocativa incredibile, un “punto” di riferimento nel complesso mondo misterioso di quella popolazione.
La sua centralità è il perno attorno al quale si svolge il mito.
2) l’essere composito:
parte bestia e parte uomo. Quest’essere è composto dalla testa e dal dorso di un bisonte, da un braccio umano prolungantesi in una mano con delle lunghe dita, dirette verso il basso.
Da tracce di colore rimanenti sembra siano stati raffigurati anche una coda ed un pene umano. La testa è ben rappresentata, in modo dettagliato, il volto di profilo e le corna di tre quarti. Un volto di bisonte possessivo, con l’occhio fisso, umano quasi, realizzato con sfumature di colore e tratti più marcati, i dettagli; un buon ritratto.
Chiamato “Sorcier”, ossia “stregone”, realizzato anch’esso con il carbone; altra figura nera nel nero delle viscere della terra.
Secondo me è improprio definirlo semplicemente Sorcier, solo apparentemente è come altri stregoni-sciamani raffigurati nelle grotte del paleolitico; molto diverso però, evocato da un lontanissimo passato, attraverso il mistero sacro dell’immagine, per garantire l’eternità agli esseri umani, non solo la sopravvivenza quotidiana.
Essere mitico e soprannaturale, non la pura rappresentazione di uno sciamano, stregone travestito, come quelli di Les Trois Frères, esseri non mitici però e non soprannaturali, ma umani, provenienti dal mondo superiore, quello della realtà naturale, della luce, raffigurati anch’essi nelle profondità delle grotte ma con un ruolo diverso, impegnati in un processo di comunicazione e di imitazione con gli animali, tale da renderseli benevoli e soggiogarli magicamente; oppure tramite tra il mondo del visibile e dell’invisibile a ricercare negli spiriti e nei morti una risposta ai bisogni del gruppo, un rimedio alle malattie, un legame con i propri antenati.
Altra immagine questa dell’uomo-animale, che compare da un’altra dimensione, entità emersa dal caos per dare origine agli esseri umani, assieme alle altre due presenze di questa trinità preistorica, l’energia vitale del leone ed il luogo dell’origine, la donna.
E’ lì quindi, raffigurato in un legame stretto, soffocante e possessivo con la figura femminile, che non può e non deve sfuggirgli, pena l’impossibilità del perpetuarsi del ciclo vitale; tale l’impegno fisico in quel legame che sembra quasi di percepire l’alito dell’uomo-bestia sul corpo femminile. Abbraccio “vitale”, nel quale forse gli uomini, i maschi, del paleolitico si riconoscevano, ed al quale, forse, chiedevano di rinnovare il ciclo della fertilità, di entrare in possesso, in quel rapporto diretto e carnale con la donna-madre terra, dei ritmi eterni della vita; oltre la morte quotidiana nella caccia e nella lotta, per la vita del gruppo e dell’umanità.
Dove trovare un luogo più adatto del ventre della stessa madre ?, in contatto con le entità soprannaturali e gli spiriti degli antenati, presenti in quella “zona mistica” sotterranea; porta tra due mondi?
3) il leone:
chi in quella composizione doveva dare forza ed energia perché tutto si compisse se non l’immagine del leone che sovrasta la donna ed il Sorcier? Tracciata anch’essa con il nero, questa parte anteriore di leone, pur esso rivolto a sinistra verso il “grande pannello”, sembra voler contenere le altre due figure. Meno elaborata questa, solo forma lineare che esprime l’immagine del grande predatore nella possanza e consapevolezza della sua forza.
Non a caso è il leone il personaggio principale del mondo animale raffigurato nella grotta Chauvet e in genere nella cultura paleolitica aurignaziana che si caratterizza proprio per una prevalenza di animali raffigurati che possiamo semplicisticamente definire come “feroci”.
Non a caso il rapporto tra leone, il più forte e potente di quel bestiario, e figura femminile. Risalire all’origine di questo dualismo, ma anche della fusione delle due “entità” in una, è arduo e probabilmente impossibile.
Con il passare del tempo e la scoperta delle incredibili ricchezze figurative delle nuove grotte ci rendiamo sempre più conto che il mondo aurignaziano è stato, comunque, una realtà culturale molto complessa e talmente radicata e forte da lasciare dei solchi così profondi nella mente umana, quindi nelle sue manifestazioni culturali, da ritrovarli dopo millenni in forme e miti più o meno simili, in luoghi e civiltà impensabili. Per fare un esempio di quanto il mondo aurignaziano fosse capace, attraverso i suoi artisti, di esprimere concetti e credenze estremamente articolati e complesse posso accennare ad un’altra realtà archeologica “arcaica”, un contesto antropologico simile e contemporaneo a quello della popolazione che ha decorato la Chauvet; mi riferisco a circa 32.000 anni da oggi, un luogo della Germania preistorica, nella zona dell’attuale Hohlestein-Stadel, dove è stata creata una statuina in avorio, antropomorfa, di eccezionale fattura, che rappresenta un essere umano con testa di leone; oggi, molti studiosi pensano che il corpo dell’umano sia femminile. Incredibile come un certo concetto di “primitivo”, e quindi anche un’idea comune a tanta gente, di fronte ad una realizzazione del genere appaia banale, ridicolo, ingiusto. Quella statuetta antropomorfa è un’opera d’arte ed un intero mondo culturale, nello stesso tempo.
Dopo millenni, nell’Egitto dei faraoni, ritroviamo una figura femminile con la testa di leone, la Dea Sekhmet. Il mito è nato in Africa e poi esportato dai primi sapiens sapiens per diventare “ampio patrimonio culturale” delle genti aurignaziane in Europa? Forse, ma è meglio fermarsi qui.
Su quello spuntone di roccia, di forma conica, fallica, che pende dal soffitto della sala di Fondo, “cripta”, sancta-sanctorum, del popolo dell’Ardeche, c’è questo insieme incredibile, forse il “punto” più alto della “struttura culturale” della grotta, lì di fronte alle stupende composizioni di animali della parete di sinistra della sala di Fondo, a “guardare” o “ ? ” le figure di leoni, mammut, rinoceronti, bisonti; e prima dell’ingresso al corridoio della cosiddetta “Sacrestia”.
Su quello spuntone di roccia non solo un leone.
Su quello spuntone di roccia non solo uno sciamano.
Su quello spuntone di roccia, non solo un triangolo pubico, come ve ne sono altri nella grotta, collocati, pur essi, in luoghi di passaggio importanti, in quel complesso percorso d’identità e di simboli e miti tracciato sulle pareti dai paleolitici dell’Ardeche.
Oltre la sintesi ed oltre il simbolo, pure centro di un universo complesso, oltre le forme elementari delle vulve, già nell’aurignaziano percepiamo come, con la “centralità” dell’immagine dipinta di donna nuda seduta nel buio della Chauvet, sia stato concepito l’atto iniziale di un percorso di pensiero religioso e figurativo che, lungo cordone ombelicale dell’umanità, si snoderà nei millenni e scioglierà nel parto della Dea Madre seduta del mondo neolitico di Catal Huyuk, in Anatolia. Forse.
Questo “gruppo” non è apparso subito agli occhi degli studiosi della grotta Chauvet ma è stato scoperto, con la rivelazione della figura femminile, quando uno dei ricercatori Yanik Le Guillou ha avviato una serie di indagini, con una telecamera digitale montata su un’asta telescopica, miranti a trovare eventuali immagini più o meno nascoste in luoghi non facilmente accessibili. Grazie a ciò è apparsa la figura femminile che ha quindi permesso di definire l’insieme compositivo.
Grazie al sistema di Yanik Le Guillou sono apparse anche altre immagini quale quella di un bue muschiato. La grotta Chauvet non smette quindi di stupirci e fornirci altri tesori figurativi e culturali della popolazione paleolitica che ha abitato Pont-d’Arc.
Il complesso figurativo deve essere ancora analizzato e studiato in modo approfondito. Ci vorrà tempo per interpretare le tante tracce di colore presenti sullo spuntone e quindi cercare di capire al meglio ed analizzare nel modo più sistematico e scientifico possibile quella straordinaria relazione tra esseri rappresentata in maniera così originale in quella splendida grotta aurignaziana.
Denis Vialou, paletnologo del Museo nazionale di Storia Naturale di Parigi afferma, :<<Nella segreta oscurità del mondo sotterraneo, le società paleolitiche dell’Europa occidentale hanno creato la loro storia, hanno fondato e affermato la loro identità. Per la prima volta nella lunga preistoria dell’umanità, l’immaginario ha dato luogo al mito e le forme da esso scaturite hanno incarnato il senso delle cose. Il Sapiens capace di trasformare il mondo a sua immagine e somiglianza è nato allora, all’alba della nostra modernità>>.
Con la scoperta di nuove grotte è come se altre pagine di un libro scritto sulle pareti del mondo sotterraneo si aprissero per dirci ancora qualcosa; avvenimenti che ci lasciano sempre più stupiti, increduli, per come quelle popolazioni superando la durezza di un’esistenza legata alla precarietà della sopravvivenza fossero riuscite a creare un mondo ideologico già articolato e complesso e, attraverso l’immagine, degli insiemi narrativi unici quali i cosiddetti “santuari”, luoghi eccezionali, casseforti della loro cultura, autentiche gallerie di analisi e rivisitazione dei miti che ne avevano segnato l’evoluzione e la conquista del mondo; con una determinazione tale da far scomparire chiunque gli contendesse il territorio.
Un passato, il nostro, che non finirà mai di stupirci per la sua bellezza espressiva, la forte capacità comunicativa, la complessità culturale.
Giuseppe Bongiorno