Giuseppe Ganduscio irradiava su chiunque
le sue doti di comprensione della realtà siciliana,
della sua storia, delle sue tradizioni;
instancabile educatore, marxista non violento, scomodo
agli stessi teorici della nonviolenza,
egli incoraggiò tante e diverse aree sociali, sempre vicino
alle realtà umane con cui trattava.
L’ultima sua iniziativa pubblica, una “Canto-conferenza”
tenuta a Milano nel 1962. Il suo modo di
accostarsi ai canti tradizionali siciliani univa prassi
e speculazione, filologia e impiego politico,
rese fedeli e arditi rifacimenti con insuperata
antropologica proprietà.
Questo mio pezzo per nastro non ha pretese
di emulare tanto modello conoscitivo; esso si
sofferma su due spezzoni di una ‘canto-intervista’
a Ganduscio: il primo frammento un canto
a voce sola, il secondo i versi di Ganduscio
“l’amo a canciari sta sorti mischina, amo a canciari”
(la dobbiamo cambiare questa sorte meschina,
dobbiamo cambiare). Questi due elementi sono
estesi a dimensioni sonore stranianti,
ma con cui cerco di restituire loro in qualche modo il mondo
diverso che essi invocano. Alle mani, ai
sensi. Sento l’utilizzo del nastro come memoria documentaria
di un interprete straordinario, morto nel
1963; è anche un tentativo di ricostruire emozioni date dai
pensieri della sua voce. Il riconoscimento
di quella voce, è dato come elemento centripeto, ché i suoi
tratti ritmici, timbrici sono occasioni
di variazioni e fughe percettive nuove: spostamento graduale delle
formanti o della melodia, incroci timbrici
tra parlato e cantato, dispersione dei singoli armonici della voce
nel tempo (la voce diventa un canone sempre
più largo) e nello spazio (non è un suono, ma non è
come una
massa di suoni diversi; che cos’è?).