Si può affermare che le
maggiori opere della prima età augustea abbiano tutte,sotto l'aspetto politico,
la caratteristica di vera e propria collaborazione al trionfo di quell'entità
politica e spirituale che fu il principato augusteo. Alcuni critici hanno
addirittura insinuato che Augusto abbia tratto suggerimento dalle opere di
Virgilio e di Orazio per alcuni punti del suo programma politico e soprattutto
per trovare l'amalgama e la vernice spirituale ai vari aspetti, talora
contrastanti, della sua opera.
Ora se si può e si deve affermare che nell'età augustea lo splendere
delle lettere e l'imponenza degli eventi politici, oltre ad essere coevi,
interferirono tra loro commentandosi a vicenda, sarebbe tuttavia una
esagerazione, prospettare il problema nel modo accennato sopra.
“Sarebbe seducente
-scrive l’Howald- poter avanzare l'ipotesi che le basi del sentimento culturale
augusteo derivino dallo spirito di Virgilio. Egli, il maggiore, avrebbe
influito sul più giovane Augusto, sicché ci troveremmo davanti al fatto
inusitato di un poeta che avrebbe creato la cultura del suo tempo, le cui
tendenze erano principalmente politiche. Ma non è così; dal modo in cui nascono
e si sviluppano le Bucoliche virgiliane risulta evidente invece che è
Virgilio che soggiace al prepotente influsso del più giovane, dal quale emana
una volontà cui quelli che gli sono vicini non sanno resistere” (1). In effetti
nessuno sia che appartenesse al circolo di Augusto, sia che ne fosse fuori,
visse la nuova esperienza politica e culturale in modo astratto, ma tutti la
vissero per il tramite di Augusto e in Augusto, unendosi a lui con gioia e
entusiasmo, affascinati dalla sua volontà, agendo nel solco di essa o
facendosene portavoce o battendosi per essa con tutte le loro energie. Per
tutti, massime per Virgilio e Orazio, con Augusto si schiude un’età
completamente nuova, in netta antitesi con quella appena passata del peccato e
della disperazione e il cambiamento è possibile solo per il tramite di Augusto,
che è il signore, il dio, il Kronos della nuova età dell'oro.
L'assassinio di Cesare
da parte di Bruto e Cassio (15 marzo 44 a.C.) aveva gettato lo sgomento nel mondo
romano. “I cesaricidi ed i loro sostenitori ebbero paura essi stessi del loro
atto audace e si lasciarono sfuggire l'occasione di restaurare in pieno
l'ordine di cose preesistente alla
dittatura di
Cesare: miraggio che del resto era ormai anacronistico”(2).
L’uccisione non fece che gettare Roma ancora una volta nel caos, nella
confusione e nel disordine. La guerra civile e la lotta fratricida divamparono
più violente di prima. La paura e l'angoscia si impossessarono di nuovo degli
animi degli uomini. La miseria e la desolazione comparvero nuovamente
all’orizzonte dei Romani e degli Italici. Le vediamo infatti come sfondo in
alcune Bucoliche virgiliane, mentre assillanti e tormentose
accompagneranno Orazio per un certo numero di anni (fino a quando non entrò a
far parte della cerchia di Mecenate) facendogli gridare disperatamente
nell’epodo 16: “Altera iam teritur bellis civilibus aetas,/ suis et ipsa
Roma viribus ruit.” (Una seconda generazione già si consuma nelle guerre
civili, e Roma va in rovina travolta dalla sua propria potenza), invitando la
sua dannata generazione ad abbandonare Roma, e nell’epodo 7: “Quo, quo
scelesti ruitis aut cur dexteris/ aptantur enses conditi?” (Dove, dove vi precipitate o sciagurati? o
perché impugnate ancora con le destre le spade già riposte nei foderi?).
Certamente furono anni,
quelli che vanno dal 44 a.C. alla battaglia di Azio (31 a.C.), tra i più duri
della storia di Roma (comparvero di nuovo le liste di proscrizione), che fecero
temere che i nemici esterni fossero pronti a piombare da un momento all’altro
sulla città agonizzante, e che gettarono negli animi di tutti gli spiriti più
pensosi uno sconforto pauroso e un pessimismo inguaribile. In questo periodo di
sovvertimenti sociali e morali, nell'assenza completa di qualsiasi ideale
politico che non fosse quello, spregevole, della fazione e del più gretto
personalismo, l’unico spasmodico bisogno era quello della pace, una pace
desiderata, sognata, ma irrealizzabile e irraggiungibile se ormai non fosse
stata portata da un dio direttamente (in questo periodo si diffusero moltissimo tra il popolo, ma anche ad un
livello culturale più elevato, credenze religiose e misteriche orientali, tra
cui il giudaismo, che predicavano l’avvento di una nuova età di pace, di ordine,
di concordia).
Con la battaglia di.
Azio e la morte di Antonio le 1otte civili cessarono di colpo. Ottaviano era
ormai l’arbitro della situazione, il padrone di Roma. E lo stupore e la scossa
furono enormi quando, dapprima i più vicini ad Augusto, e poi un numero sempre
maggiore di uomini, si accorsero che egli, a differenza di altri,ottenuto il
potere, non cercava solo potenza e piaceri, ma si diede a riorganizzare lo
stato mantenendone intatte le strutture repubblicane (e questa fu un’abilissima
azione politica, perché, almeno all’inizio, era indispensabile che la forma
repubblicana velasse quella che era la sostanza monarchica del regime
augusteo). Augusto apparve allora agli occhi di tutti il riorganizzatore dello
stato tanto atteso, colui che riesce ad eliminare i mali inveterati,
l’instauratore della pace. Ed infatti, da abilissimo uomo politico qual era,
egli seppe interpretare, e su di essi fondò il suo regime, il desiderio e
l’aspirazione del popolo romano alla pace feconda di operosità, di ordine e di
benessere, capace di dar vita ad una nuova umanità, e la coscienza della
missione dominatrice e civilizzatrice di Roma. Furono questi ideali, di gloria
e di pace, dei quali egli si fece banditore e difensore, che riuscirono ad
oscurare gli antichi ideali di libertà, e che si riflettono nelle opere dei
migliori artisti del tempo, i quali divennero anche i più felici propagandisti
e celebratori della guerra di Azio che interpretarono non come la battaglia
finale di una lunga guerra civile, ma come guerra nazionale italica contro i
nemici esterni.
Di tutti questi artisti
Virgilio fu l’augusteo per eccellenza. L’opera cui si dedicò durante i primi
anni di Augusto furono le Bucoliche (42 – 39 a. C.). in senso lato le Bucoliche
si possono considerare l’imitazione del poeta alessandrino Teocrito, ma con una
differenza sostanziale. Mentre il mondo bucolico creato da Teocrito non è che
un mondo di pastori idealizzati che non vivono se non di amore e di canto, il
mondo bucolico virgiliano, delineatesi nella sua fantasia con colori, immagini
e ritmi latini, si apre alla drammatica realtà dei tempi, alla esperienza
concreta della vita, arricchendosi di significati, di echi sentimentali e di
riflessi allegorici nuovi. “Il maggiore arricchimento del mondo sentimentale
delle Bucoliche non proviene infatti dalla cultura, bensì dalla realtà
contemporanea” (3). Virgilio sentì intensamente la crisi del mondo romano, sia
perché la sua giovinezza era maturata in tempi troppo duri e mossi, che
lasciarono una impronta indelebile sulla sua personalità umana e poetica, sia
perché le conseguenze delle lotte civili lo colpirono direttamente attraverso
la perdita della proprietà agricola paterna, che gli fu confiscata perché
rientrava nel provvedimento di distribuzione di terra che fu adottato nel 42 a.
C. per compensare i veterani di Cesare.
Specialmente nelle
ecloghe I, IV e IX, Virgilio si fa interprete di quelli che erano, oltre che i
suoi, i sentimenti più diffusi del tempo: l’orrore per lo sconquasso e il
disordine provocato dalle lotte civili, l’ansia di pace e la speranza di
rinnovamento, la gioia di quanti, come lui, vedevano in Augusto colui che
poteva essere il portatore della pace, il rinnovatore dello stato,
l’instauratore della nuova età dell’oro.
La I ecloga è un dialogo
fra Titiro e Melibeo, fra il pastore, cioè, che grazie all’intervento di
Ottaviano ha potuto conservare i suoi campi e quello che invece è costretto ad
abbandonarli perché ne è stato scacciato. Il sentimento che informa di sé il
componimento e che lo rende il più umano di tutti non è la gioia egoistica di
chi si rallegra per essere riuscito a conservare i propri beni mentre vede che
tutti gli altri ne sono stati privati, come si potrebbe pensare leggendo i
primi versi; né il senso di riconoscenza e di gratitudine verso Ottaviano che
pure sono profondi e sinceri (“…deus nobis haec otia fecit;/ namque erit
ille mihi semper deus, illius aram/ saepe tener nostris ab ovilibus imbuet
agnus.”. “Un dio questa pace mi ha dato./Lui certo un dio sarà sempre per
me; e spesso/ trarrò dal mio ovile teneri agnelli/ per bagnare la sua ara di
sangue”. Trad. di E. Cetrangolo); ma è invece la profonda tristezza che il
poeta prova di fronte al dolore degli agricoltori travolti dalle guerre civili.
Ed è l’angoscia di questi uomini, attenuata in malinconia struggente,
sottolineata dal paesaggio serale con le grandi ombre che calano giù dai monti
e il fumo che sale, lontano, dalle case sparse nella campagna, che finisce per
dominare l’ecloga.
La stessa sensibilità,
la stessa malinconica tristezza, lo stesso diffuso dolore per la sorte dei
contadini dominano incontrastati nella IX ecloga. L’accoramento dei poveri
coloni che victi e tristes
(verso 5), abbandonano i terreni che hanno lavorato per generazioni
e generazioni, vibra in versi di impeccabile fattura, perché sgorgati da un
profondo e sincero dolore. Virgilio che qualche tempo prima era riuscito a
conservare il suo podere, adesso deve abbandonarlo anch’egli: i carmi non hanno
valore tra le violenze della guerra: “…sed carmina tantum/ nostra valent,
Lucida, tela inter Martia, quantum/ Chaonias dicunt aquila veniente columbas”.
“ma i nostri versi valgono, o Licida, tra i dardi di Marte, quanto dicono, le
colombe caonie al sopraggiunger dell’aquila” (vv. 11-13). “Con tono di
melodiosa elegia risuona qui il lamento, tante volte ripetuto nella storia,
della cultura e della civiltà impotenti di fronte alla forza cieca e
ottusa”.(4).
Nella IV ecloga, scritta
in occasione della pace di Brindisi stipulata tra Ottaviano e Antonio nel 40 a.
C. che suscitò in tutti grande letizia e fece aprire i cuori alle più grandi
speranze, Virgilio si fa, appunto, interprete della comune letizia e scioglie
il più bell’inno e la più bella invocazione alla pace. Più su si è accennato, en
passant, al fatto che la crisi del mondo romano aveva dato libera
cittadinanza a moltissime dottrine e teorie, in massima parte di provenienza
greco-orientale, , che si affermavano e facevano proseliti proprio per reazione
alla paura molto diffusa di un crollo generale dell’impero, le quali
predicavano l’avvento di nuove età pacifiche e prospere, di salvatori divini e
semidivini. Inoltre in Roma
contribuivano ad aumentare l’attesa e la speranza di un rinnovamento miracoloso
gli oracoli sibillini relativi ad antichissime dottrine astronomiche etrusche.
L’ecloga IV parte proprio da uno di questi oracoli, l’annuncio di un nuovo saeclorum
ordo, del ritorno della giustizia sulla terra e dell’età felice di Saturno.
Tutto ciò si verificherà alla nascita di un bambino sotto il consolato di A.
Pollione. Chi sia questo bambino non si sa con precisione; né qui interessa
riportare tutte le varie ipotesi che sono state avanzate. L’ecloga che ebbe
un’enorme fortuna (nel Medioevo fu interpretata come l’annuncio della venuta
del Messia), non è poeticamente un capolavoro, ma è importante come
testimonianza, come eco dell’ansia di rigenerazione e di salvezza che la crisi
del mondo romano aveva solo reso più profonda.
La pubblicazione delle
dieci ecloghe attirò su Virgilio l’attenzione di tutta Roma e, cosa più
importante, di Mecenate, che lo ammise subito nella sua amicizia. Questo fatto
è di una importanza fondamentale non solo per la biografia del poeta, ma anche
per la sua formazione ideale e poetica. Entrando nella cerchia di Mecenate,
Virgilio entrava nell’occhio del ciclone, per così dire, nel luogo, cioè, in
cui “i problemi politici e morali posti dalla crisi della repubblica, della
società, dell’impero erano sentiti come capitali ed urgenti” (5) e dibattuti frequentemente
nel tentativo di trovarvi un rimedio. Uno dei problemi più discussi certamente
doveva essere quello agricolo, che l’azione di Sesto Pompeo, che con la sua
flotta piratesca aveva bloccato il rifornimento di grano proveniente dalla
Sicilia e dall’Egitto per la penisola, aveva evidenziato in tutta la sua
macroscopica gravità. Ma al di là del fatto contingente, il problema agricolo,
con il dissanguamento della classe dei proprietari di terre, dovuto sia alle
guerre di conquista che avevano sradicato completamente il contadino italico
dai suoi poderi, sia all’estendersi del latifondo (conseguenza diretta della
causa precedente) che sfruttando il lavoro degli schiavi aveva costretto una
massa enorme di agricolae liberi ma senza possibilità di procurarsi
neanche più l’indispensabile per vivere, a cercare fortuna in città, sia anche
alle distribuzioni di terra ai veterani che non sempre riuscivano a
trasformarsi in produttori agricoli attivi e validi, era senz’altro una delle
cause della crisi che travagliava la società romana. La necessità della
rifioritura della classe dei piccoli proprietari agricoli fu uno dei punti
fondamentali del programma politico di Augusto, non solo e non tanto per
risollevare economicamente la condizione dell’Italia, quanto piuttosto per
risanare socialmente e moralmente la società romana ed italica. Rendere
possibile l’avvento di una agricoltura fiorente spezzando i latifondi e
distribuendo le terre ai contadini avrebbe significato legare una gran massa di
uomini liberi alla terra, che questa terra, la propria terra, fonte del proprio
benessere e della propria vita avrebbero difeso in caso di necessità più
sicuramente e meglio di qualsiasi soldato provinciale e, più di tutto, avrebbe
portato al rifiorire delle antiche virtù romane, della morale e della religione
tradizionale, in una parola della vita semplice e laboriosa che in passato
aveva fatto grande Roma. Furono queste esigenze di realizzazione del programma
politico di Augusto che spinsero Mecenate ad intervenire presso il poeta con i
suoi haud mollia iussa, come ci ricorda lo stesso Virgilio nel prologo
del libro III (verso 41), perché ponesse mano alle Georgiche. Certo
riesce difficile ammettere che un’opera di tanta originalità e vigore non sia
nata da spontanea ispirazione ma da qualcosa di completamente estraneo alla
spiritualità virgiliana. Forse è più giusto pensare che Mecenate, accortosi
della fondamentale ispirazione agreste di Virgilio, lo abbia stimolato e spinto
a comporre un’opera che fosse anche una lezione di moralità
tradizionale, alla luce del programma morale e politico che Ottaviano intendeva
realizzare.
Nacquero così le Georgiche.
Naturalmente sarebbe ingenuo pensare che Virgilio intendesse comporre un
trattato di agricoltura leggendo il quale i contadini romani potessero
apprendere e perfezionarsi nella loro arte. Egli non era un agricoltore, gli
facevano difetto l'esperienza pratica e la conoscenza specifica per fare ciò, e
la sua materia derivava esclusivamente da fonti letterarie. Non precetti pratici
sulla coltura degli alberi, dunque, o sull'allevamento delle api, era lo scopo
dell'opera, ma risvegliare negli uomini certi affetti, far loro amare certi
ideali, infondere in loro la mentalità contadina. “Per questo nel poema la
trattazione più strettamente didascalica è continuamente insidiata, stretta da
presso e sconvolta dalle grandi digressioni in cui trionfa l'arte del poeta e
si afferma il contenuto ideologico dell'opera”. (6).
Proprio in una di queste
digressioni troviamo il brano famoso delle lodi dell’Italia (libro II, vv.
136-176). L'ispirazione italica dovette prendere forma nella fantasia di
Virgilio dopo la battaglia di Azio (ciò è confermato da due versi -170/172- che
contengono un accenno alle vittorie di Ottaviano in Oriente: "qui nunc
extremis Asiae iam victor in oris/ imbellem avertis Romanis arcibus Indum”.
“Che già vittorioso negli ultimi lidi dell’ Asia/ respingi l’Indo imbelle dalle
arci romane”. trad. Cetrangolo). Questa era stata combattuta e vinta non come
l'epilogo di una guerra civile, ma come le scontro conclusivo di una guerra
nazionale italica contro lo straniero. Ottaviano si poneva così in netta
antitesi con quello che era stato il sogno vagheggiato da Cesare. Se questi
aveva pensato di mettere l'Italia alle dipendenze di un paese orientale, egli
invece voleva che continuasse ad essere il centro dell'impero. Dovevano perciò
sparire i rancori delle genti italiche per Roma, anche il ricordo delle guerre
sociali doveva essere annullato, l'Italia doveva essere unita per iniziare la
riscossa contro la civiltà greco-orientale. Con questo spirito, mirante a
rivendicare l'eccellenza della trionfante civiltà italica e romana, Virgilio
celebra nel II libro le lodi dell'Italia. Questa per la sua fecondità e per la
sua bellezza è contrapposta alle terre d’Oriente. Lo stesso Augusto è
presentato non come l’erede di Cesare, ma come il discendente di una tradizione
eroica italica, latina e romana insieme,
a cominciare dalle vigorose stirpi di guerrieri italici, i Marsi, i
Sabelli, i Liguri, attraverso i Latini, fino ai più recenti eroi della storia
di Roma: i Mario, i Camillo, gli Scipioni. Questi eroi furono grandi secondo
Virgilio perché nati da una gente educata alla semplicità, alla forza e alle
virtù dell’antica arte dell’agricoltura. Infine in un moto di orgogliosa
esultanza erompe dal cuore del poeta il saluto all’Italia, la terra dove già
fiorì la prima età dell’oro e dove presto fiorirà la seconda: “Salve, magna
parens frugum, Saturnia tellus,/ magna virum: tibi res antiquae laudis et
artis/ ingredior sanctos ausus recludere fontis/ Ascraeumque cano Romana per
oppia carmen”. (salve, madre di messi fertile, Saturnia terra;/ per te di
gloria antica e bella di virtù/ sorge il mio canto alto su le tue memorie,/ e
l’ode rinnovo di Ascra per terre Romane”. trad. Cetrangolo).
Pure nel II libro (vv.
458 e succ.) troviamo l’altro lungo excursus dedicato all’elogio della
vita dei campi. Il contadino è visto come l’antitesi del guerriero: l’uomo che
giudiziosamente conserva quello che la natura gli offre è contrapposto a quello
che in un eccesso di avidità tutto distrugge. Egli è il più fortunato di tutti
gli uomini: a lui infatti la terra offre tutto, né deve affaccendarsi da
mattina a sera e ricorrere a mille sotterfugi per poter procurarsi i mezzi di
vita, o a imbrogli e delitti per accrescere sempre più le proprie ricchezze,
come son costretti a fare i cittadini.
Certo la poca esperienza
diretta della vita dei campi e tutta una lunga tradizione letteraria che aveva
consacrato il mondo dei contadini come quello semplice e felice in contrasto
con quello di città, pieno di affanni e di intrighi, poteva portare Virgilio a
questa visione idillica ed arcadica della vita agreste. D’altra parte l’ideale
di vita qui riaffermato dal poeta è ancora quello epicureo e lucreziano del laqe
biosa"; nei versi 490-502 è affermato infatti che la vita dell’agricoltore
vale quasi quanto quella del filosofo: “Felix, qui potuti rerum conoscere
causas/ atque metus omnis et inesorabile fatum/ subiecit pedibus strepitumque
Acherontis avari./ Fortunatus et ille, deos qui novit agrestis”. “Felice
colui che le cause conobbe del mondo,/ che ogni terrore, che il fato
inflessibile e l’onda/ avida e il suono poté calpestare d’Averno!/ Ma fortunato
anche quello che seppe gli agresti/ Numi conoscere”; e più giù si riafferma,
mentre viene contrapposta ad altri tipi di vita, che la vita del contadino è la
migliore di tutte (vv. 503-512).
Ma Virgilio conosceva
anche l'altro aspetto della vita dei campi; Sapeva bene che questa vita era
fatta anche di privazioni, difficoltà, paure, stenti sofferenze, duro lavoro.
Proprio in questo libro II, infatti, il poeta insiste particolarmente sulla
ossessionante fatica della viticoltura e ricorda gli incidenti che possono distruggere
stupidamente in un istante la fatica di mesi e di anni, mentre in un altro excursus
del libro I (vv. 117-159) in cui cerca di spiegare la causa e l'origine del
lavoro, contrappone la vita oziosa dell'età dell' oro a quella dolorosa e
faticosa imposta da Giove all'uomo, facendo scaturire proprio dalla
contrapposizione un giudizio di valore che è tutto a favore della vita fatta
anche di doloroso e duro lavoro.
Bisogna allora parlare
di contraddizione? Indubbiamente; ma di una contraddizione già avviata sulla
strada del superamento. Perché, come afferma il La Penna, il Virgilio delle Georgiche
è già alla ricerca, in polemica con Epicuro e Lucrezio, di una concezione
provvidenziale del mondo e della vita che ai suoi occhi appaiono dominati dal
dolore. Mali d’ogni sorta, difficoltà, sventure incombono sugli infelici
mortali; nulla si ottiene dalla terra senza sudore e senza fatica; le forze
misteriose della natura minacciano di ora in ora la vita e le opere, piombano
sull'uomo e tutto ciò che gli è caro, animali, seminati, piante, raccolti, e
sconvolgono tutto costringendolo a riprendere ogni volta daccapo l'opera
devastata. Ma della insopprimibile realtà del duro lavoro e della sofferenza il
poeta si avvia a scoprire (e avrà scoperto alla fine delle Georgiche) le
scopo e il senso provvidenziale: il lavoro e il dolore appariranno allora come
mezzo di redenzione morale, come condizione indispensabile per creare qualcosa
dì grande, come strumento per fornire valore e dignità alla vita stessa. Il
lavoro vincendo le avversità costruisce innanzi tutto la grande opera
dell'agricoltura, e poi quell'altra opera più complessa, più alta e spirituale
in cui convergono tutte le idee, i progressi civili, le umili fatiche: la
gloria di Roma. Questa, in fondo, è la lezione, il messaggio che scaturisce
dalle Georgiche. Da queste premesse prenderà l’avvio il poema eroico: 1’Eneide.
Fin dal tempo delle Georgiche (libro III, vv. 9-48) Virgilio aveva ideato
di comporre un poema in cui celebrasse il futuro Augusto attraverso la
descrizione di un tempio, eretto da lui stesso sulle rive del Mincio, in cui
erano raffigurate le imprese di Augusto e anche le sue origini troiane.
Fu così che al posto di
Augusto sottentrò la figura mitica di Enea, di colui cioè che era considerato
il capostipite della famiglia Giulia e il fondatore e rappresentante dello
stato romano. E la prospettiva storico- mitica faceva in modo che il vero
protagonista del poema non fosse tanto il personaggio poetico di Enea, che pure
diveniva l’incarnazione della virtus romana, fatta di pazienza, di
fermezza, virile rinuncia e devozione agli dei, quanto piuttosto l'idea di
Roma, drammaticamente onnipresente, e della sua grandezza, alla realizzazione
della quale erano impegnate tutte le forze, a partire da Enea, sino ad
arrivare, attraverso i secoli, all'ultimo discendente, Augusto. Così mentre la
storia dì Roma col suo fastoso culmine augusteo veniva proiettata dall'alto
delle lontane origini ritornavano pure alcuni grandi temi di ispirazione
augustea nei quali Virgilio si era già cimentato nelle Georgiche,
attraverso ampie digressioni, sotto forma, il più delle volte, di rivelazioni
profetiche fatte al protagonista Enea sul futuro della città di cui sarebbe
stato il fondatore.
Lo spirito del brano
delle lodi dell'Italia, nel II delle Georgiche, riappare nell'episodio
di Evandro (Eneide, libro VIII): “su quella che un giorno sarà Roma
fiorisce la beata semplicità e innocenza dell’agricola, pago del frutto
del suo sudore, saggiamente conscio, nella sua greca perspicacia,
dell’insuperabile valore morale della sua opera. Questa gente che incarna con
un anticipo di molti secoli l'ideale ellenistico e romano del sapiens
consacra come in un rito il terreno dove sorgerà l'Urbe dominatrice e gli dà il
segno distintivo di un potere egemonico che sarà eterno, perché materiato di
santità, di fedeltà essenziale alla “ratio recte, bene beateque vivendi”.
Perciò subito dopo l'episodio di Evandro, Virgilio, nella descrizione dello
scudo di Enea, può impennarsi alla visione profetica della vittoria di Azio,
intesa come restaurazione dei valori tradizionali latini e italici contro le
seduzioni e i pericoli delle terre d'Oriente, le terre dei mostri e dei veleni
che già nel lib. II delle Georgiche egli aveva orgogliosamente umiliato
mediante il confronto con la magna parens frugum, con quella che
l'episodio di Evandro aveva veramente rivelata Saturnia tellus fin dalle
origini” (E. Paratore).
Certamente, Enea, il
capostipite della gens Iulia e il fondatore di Roma, è un troiano, ma
per il poeta, al di là di questa lontana discendenza non c’è nulla in comune
tra Roma e l’Oriente. Virgilio, in consonanza con Orazio (ode III del libro
III), ci tiene ad affermare che Troia è morta per sempre e che centro
dell'impero sono adesso Roma, il Lazio, l’Italia: “Sit Latium, sint Albani
per saecula reges,/ sit Romana potens Itala virtute propago;/ occidit,
occideritque sinas cum nomine Troia” (libro XII, vv.826-28).
Nel libro VI, nella
rassegna delle future generazioni romane, troviamo l'esaltazione della figura
di Augusto. Non dell’individuo in quanto tale, ma di Augusto perché è il
restauratore della pace, colui che ha posto termine alle guerre civili ed ha
assicurato i confini dell’impero. Come sotèr del mondo intero, Augusto è
al di sopra di Ercole e Dioniso, i benefattori e civilizzatori della favola,
che ebbero perciò il premio in cielo. Pietate insignis et armis, al pari
del suo progenitore Enea, egli appare tra Romolo, figlio di Marte e conditor
urbis, e Numa, che porta l'olivo e i sacri arredi. Egli dunque è il nuovo
fondatore della città, fatto questo che è sottolineato dall'accostamento a
Romolo, e il ripristinatore delle antiche tradizioni religiose, di cui Numa era
stato il fondatore. Tuttavia, nonostante questi accostamenti, la figura di
Augusto non viene inserita in una tradizione monarchica, ma ci è presentata
come la figura più grande di una tradizione repubblicana, di cui proprio
Augusto ha fatto rifiorire tutti i valori, restaurandone la libertà. Non a caso
accanto ai re compare Bruto, uno dei fondatori della respublica e a tal
punto amante della libertà della patria che non esitò a sacrificarle l'amore
paterno, e Pompeo è messo sullo stesso piano di Cesare: “il conquistatore della
Gallia non è presentato come colui del quale Augusto è l'erede e continua
l’opera, ma come il protagonista di una sciagurata guerra civile”: sia lui per
prima a gettar via le armi e a metter fine alla guerra fratricida, implora
Anchise.
Ancora, nel libro VIII,
immediatamente prima della descrizione della battaglia di Azio, è raffigurato
nell'inferno Catilina, colui che aveva osato attentare alle istituzioni
repubblicane, “minaci/ pendentem
scopulo Furiarumque ora trementem (vv. 668-69; sospeso ad una rupe che
minaccia di precipitare e mirante con terrore il volto delle Furie), mentre
Catone, «[cui] moriendum potius quam tiranni vultus aspiciendus fuit
(colui che sentì il dovere di morire, piuttosto che vedere il volto del
tiranno» (Cicerone, De officiis,1, 31), è presentato negli Elisi, la dimora
delle anime dei giusti mentre governa proprio le anime pie. Certamente la
rivalutazione di Catone era in accordo con la facciata repubblicana del regime
augusteo che, adottando come uno dei suoi santi protettori quest’anima stoica,
degna dei Romani del tempo antico, faceva un’abile mossa politica, poiché si
annetteva una delle forze più temibili di cui avrebbe potuto approfittare
l'idea repubblicana. Così mentre da un lato Virgilio ci appare ancora una volta
un interprete fedele del pensiero ufficiale, Augusto veniva ad essere l’erede
sotto ogni aspetto, politico, morale, religioso, della grande tradizione della respublica
Romana, e perciò l’Eneide può dirsi poema augusteo e insieme poema
nazionale romano.
L’aspetto augusteo e
romano dell’Eneide non esauriscono però la ricchezza di contenuti, di
significati, di valori ideali e morali, di poesia che il poema racchiude.
Nell’Eneide vibra
l’anima di un’epoca di maturazione e trasformazione del mondo antico. Così
Virgilio rivolge la sua attenzione ai moventi psicologici, ai travagli spirituali,
alle leggi eterne che regolano il divenire della storia. I suoi eroi epici
presuppongono tutta l’esperienza morale e poetica del mondo greco, dai poeti
tragici ai recenti poeti ellenistici, e insieme l’acquisizione di tutti gli
elementi propri della sensibilità etica romana maturata in una cultura ormai
secolare. Nell’Eneide troviamo Virgilio nei suoi aspetti più personali e
suggestivi: ansioso di pace e di liberazione, oppresso dalla continua
irresistibile presenza del dolore. Il dolore che è tanta parte della vita e che
accompagna indivisibile ogni umana affermazione e conquista, questa violenza
che si esercita così spesso sul corpo e sull’anima nostra, non è senza senso,
non è una realtà sterile. Anche l’uomo esercita una simile violenza sulla terra
e sulle piante, ma la giustifica un fine che apparirà nel tempo. Il dolore
potrà sembrare un non senso a chi non sappia spaziare con lo sguardo sui vasti
orizzonti su cui opera la provvidenza, che Posidonio, non ignoto a Virgilio,
vedeva agire dinamicamente nella storia per risolvere nel bene di tutti il
travaglio dei singoli. Un solco di dolore e di pianto segna le vie battute
dall’uomo perché è nelle leggi stesse che ne regolano la vita che in esso
consegua le mete che gli assegnano i fati. Ma proprio perché ha capito il
significato del dolore e le leggi che lo regolano, Virgilio davanti alle
imprese di guerra e di conquista non gioisce, non si esalta, quanto si duole
per i patimenti e gli strazi che quelle provocano. Il suo animo è in sintonia
con quello dei vinti più che con quello dei vincitori, degli umili e degli
oppressi più che con quello degli oppressori. Versi come Non ignara mali
miseris succurrere disco (lib. I, v. 630: “Non ignoro il dolore,/ per
questo ho imparato ad aiutare chi soffre” trad. di C. Vivaldi) e Sunt
lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt (lib. I v. 462: “Ci sono lagrime
per le sventure,/ le lagrime che intridono tutte le cose del mondo,/ e i
travagli degli uomini toccano i cuori) rivelano la nuova spiritualità, la
varietà di sentimenti nuovi di cui è pregna l’Eneide: dolore per il
destino degli umili, dei deboli, dei vinti; compianto umano, carità fraterna,
ansia di una vita più serena ed umana.
Così il poeta della
romanità e italicità tradizionali, colui che concludeva poeticamente il ciclo
dell’ascesa della civiltà latina nel mondo, diveniva anche il precursore della
umanità nuova, l’unico poeta pagano in cui traluceva in anticipo il primo
raggio della grande palingenesi operata dal Cristianesimo.
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N O T
A:
Il presente
lavoro è stato compiuto sfruttando i seguenti saggi e libri:
A.La Penna, Virgilio e la crisi del mondo
antico, in: "Virgilio, Tutte le opere" Firenze 1967.
E. Howald, La cultura dell'età
antica, Zurigo 1948, trad. italiana, Milano, 1967.
E. Paratore, La letteratura latina
dell'età repubblicana e augustea, Firenze, 1969.
La introduzione e le note di F. Arnaldi
alle Bucoliche, ristampa della III ediz., Milano 1969.