I Madness sono
(finalmente) tornati!
Di tutto il periodo Two Tone il
fenomeno più esplosivo furono i Madness.
Per varie ragioni.
Innanzitutto, perché furono la formazione di maggior
successo (e non fu certo un caso); ma non secondariamente
perché furono i più creativi e particolari con quel loro
distintivo “nutty sound” e, infine, perché riuscirono a
raggiungere il cuore di una fascia d’età che andava dalle
medie all’università raccontando brillantemente
un’Inghilterra ed uno stile di vita.
Nasceva o, meglio, rinasceva, coi Madness
e gli Specials quali principali cantori, lo ska come credo
musicale, come immagine, come stile di vita: quello del Rude
Boy.
No, non si trattava certo dei famigerati giovani rapinatori
e piccoli gangster del quartiere “Kingston 11” in
Giamaica, ma di una vera e propria moda che vide giovani e
meno giovani svestire gli stracci chiodati e le multicolori
acconciature punk per un elegante completo a tre bottoni,
con cravatta nera e rigorosa camicia bianca, con ai piedi i
(o le) Dr. Martens,
le scarpe con la “cushion sole” che era stata pure sulla
luna! Si aggiungevano, al colpo d’occhio, basette, una
pettinatura decisamente skinhead, parka e/o “bomber”, il
tipico pork pie hat e, quali mezzi di locomozione, vespe e
lambrette e, per l’estate, bretella e Fred Perry, cosicché
difficilmente ti saresti accorto se avevi di fronte un Mod,
uno Skinhead ’69 o, più semplicemente, uno “Ska”.
Tutto ciò non escludeva che scoppiassero furibonde risse
tra gli stessi 3 gruppi ora menzionati o tra loro e le altre
“sottoculture” giovanili che affollavano il finire dei
’70 e l’inizio degli ’80 in Europa come i Punk, i
Boneheads (oggi “naziskin”), Metallari, Rockers o i
Rockabilly e - perché no? – i Paninari.
I Madness, dopo un
esordio non certo brillante con una formazione parzialmente
diversa, gli Invaders, decidono di chiamarsi così dal
titolo della canzone di Prince Buster “Madness” del
1963.
I Madness, ovvero
– come si presentarono sul loro primo album (il mitico
“One Step Beyond…”) - Mike Barson (Monsieur Barso)
alla tastiera, Chris Foreman (Chrissy Boy) alla chitarra,
Suggs (Graham Mc Pherson) la voce, Mark Bedford (Bedders) al
basso, Lee “kix” Thompson ai sax baritono e tenore e
voce, Woody Woods Woodgate (Dan Woodgate) batteria e
percussioni e, infine, Chas Smash, cori, vari urli e
divertenti passi di danza, devono parte del successo ai loro
colleghi degli Specials.
Jerry Dammers, il tastierista sdentato e geniale di qust’ultimo
gruppo, era infatti riuscito a strappare un bel contrattino
con la Chrysalis per poter gestire direttamente la propria
etichetta “Two Tone”.
Dopo l’uscita del primo 45 giri per detta etichetta,
corredato di busta in bianco e nero sulla quale campeggia
l’inconfondibile omino realizzato dallo stesso Dammers
come stilizzazione della famosa foto di Peter Tosh (Touch)
degli anni ’60 e contraddistinto da lato “A” e lato
“AA” ai quali corrispondono “Gangsters” degli
Specials e “The Selecter” dei Selecter
appunto (ed anche se, all’epoca della registrazione, il
gruppo era “virtuale”), dopo l’uscita di questo
singolo, dicevo, agli attenti osservatori non sfuggì che
quella era musica – appunto - speciale, e che decisamente,
stava per succedere qualcosa di nuovo sul mercato musicale.
Il disco, insomma, caratterizzato da quel ritmo decisamente
inusuale ebbe subito un inaspettato successo ed i Madness,
anche loro di Londra, riconoscendosi in quel medesimo stile
musicale, realizzarono, così, per la neonata Two Tone il
loro primo 45 giri: “The Prince”, era il 10 agosto del
1979 e “The Prince” è un tributo a Prince Buster
ritmicamente ispirato alla sua “Earthquake”.
Quindi, sulla “miccia” appena accesa dello Ska, i Madness
si piazzarono, per puro caso, in una posizione temporalmente
felice e favorevole: non aveva neppure incominciato a
sopirsi l’interesse suscitato da “Gangsters” (tanto
per la cronaca anch’essa tratta da un originale di Prince
Buster intitolato “Al Capone”) che esce quell’inno
celebrativo proprio del Prince: “Bust - er he sold the
heat with a rock stea - dy beat __” che permetterà
letteralmente ai Madness
di cavalcare l’onda al momento giusto.
A seguito dell’immediato successo di “The Prince”,
infatti, i Madness
sottoscrivono subito un contratto con la Stiff Records per
la quale usciva, quello stesso ottobre, l’Ellepì “One
Step Beyond” con annesso il famoso singolo che entrerà in
tutte le classifiche europee e che, guarda caso, è la cover
di un altro strumentale di Prince Busters del 1963 (il lato
“B” del 45 “Al Capone”).
Di quell’album non sono solo quelle appena citate le sole
canzoni ad essere entrate nelle classifiche di molti Paesi:
in Francia, per esempio, il Natale ’79 se lo ricordano per
il singolo “My Girl”;
e, per molti di quelli che già
c’erano, l’estate del 1980 ha come colonna sonora (tra
le altre) “Night Boat To Cairo”, opportunamente
“pompata” dalle case discografiche con l’uscita
apposita del’E.P. “Work Rest And Play”, qui in Italia
pubblicato con la versione in italiano di “One Step Beyond…”
(“Un Passo Avanti…”).
E chi non ha presente la versione ska di “Swan Lake”
(pochi anni prima era stata la discomusic a riproporre, in
versione “disco”, famosi motivi di musica classica) o
l’emblematica “Bad & Breakfast Man”?
I suoni non sono certo quelli dello ska giamaicano,
raramente la batteria lo è, ma l’effetto è lo stesso:
musica danzabilissima e strana, allegra ed alle volte
inquietante, di sicuro un po’ folle e così particolare da
convincere tutto il Mondo che fosse una moderna elaborazione
del Reggae.
In particolare, la stranezza dei Madness
è dovuta ai riff saltellanti di Barson, parte alla voce di
Suggs, parte ad arrangiamenti e melodie dichiaratamente
ispirate al lavoro del leggendario e recentemente scomparso
Ian Dury del quale i Madness
sono stati ammiratori ed amici.
Musicalmente i Madness,
sin dal loro esordio, non denotano particolare simpatia per
chitarre distorte e ritmi pestati, creano brani piuttosto
differenti tra loro, inventano “grooves” su cui cantano
per lo più il quotidiano (londinese), usando sempre
immagini efficaci. Spesso sono drammatici con ironia e,
nell’inoltrarsi nella metà degli anni ’80, tratteranno
sempre più spesso temi sociali, mentre musicalmente
tenderanno ad accentuare una certa loro malinconia congenita
cantata quasi sempre con toni gentili ma abbandonando quasi
del tutto le ritmiche degli esordi.
Intelligentissimi nello sfruttare velocemente la notorietà
raggiunta, per aumentarla ancora di più, i Madness,
molto prolifici, agli inizi di settembre del 1980, sfornano
il loro secondo album: “Absolutely”.
“Absolutely” è il disco che promuove i Madness
nell’Olimpo delle super star: chi si era entusiasmato per
il primo, trovò “Absolutely” eccezionale, e chi,
invece, non si era ancora pronunciato dovette ammettere che
i Madness erano
veramente speciali. Dal vivo, poi, erano (e sono ancora)
grandiosi.
Non si sarebbe potuto pensare diversamente ascoltando “Embarassment”,
“Baggy Trausers” o “The Return Of The Los Palmas 7”,
accompagnate, tutte, da divertentissimi video in cui i Madness
esprimono sempre di più la loro totale follia (il video di
“Baggy Trausers” vanta Lee Thompson quale primo
sassofonista volante della storia dei videoclip!); ma
bastano anche solo alcune delle meno conosciute di quel
disco tipo “In The Rain” e le bellissime “You Said”
e “Disappear” per pensare ai Madness
come ad una delle migliori formazioni musicali di quegli
anni: pregno di ska, i Madness
avevano creato il loro particolarissimo Nutty Sound!
Sarà durante la primavera del 1981 che il fenomeno Madness
imperverserà globalmente: registrano il godibilissimo film
autobiografico “Take It Or Live It” e registrano, pure,
il loro ottavo singolo, un reggae particolarissimo
accompagnato da un video più inquietante che comico dal
titolo "Gray Day". Si trattava, in realtà, non di
un nuovo pezzo ma di una canzone che era nella scaletta dei Madness
sin dai loro primi esordi.
Fatto ciò, partono per un tour degli antipodi che li vedrà
acclamati da centinaia di migliaia di persone in Australia,
Nuova Zelanda e Giappone.
Puntuali come al solito i Madness
pubblicano, nell’autunno di quel 1981, il loro terzo album
(preannunciato dall’uscita del singolo “Shut Up”
sempre con video geniale al seguito) dal titolo “Seven”
che - zacchete! - schizza subito alla posizione n.° 9!
Chi li aveva seguiti fin lì non poteva restare che
soddisfatto fin dalla prima traccia di “Seven”, infatti,
“Cardiac Arrest”, al di là del testo drammatico con
ironia, è uno dei brani in assoluto più divertenti che i
Madness abbiano fatto; non è proprio “ska” pur essendo
naturalmente saltellante, ma ciò non stupisce non essendolo
affatto neppure l’appena citata “Shut Up”, che segue
sull’album.
Sono proprio le canzoni non ska che sottolineano la bravura
dei Madness nel creare nuovi e saltellanti ritmi: “Sign Of
The Times”, l’onirica “Missing You”, la caraibica
“Mrs Hutichinson”.
Altre, tra cui “Tomorrows Dream” - uno dei brani che mi
piacciono di più e che prendo ad esempio emblematico del
“white” reggae elaborato da Suggs & amici, da
contrapporsi a quello dei Police - indicano una decisa
sterzata reggae per i Madness
(forse a fronte del successo ancora più vasto che stavano
avendo nel frattempo gli UB40?).
Anche “Gray Day” è, come detto sopra, un reggae,
onirico e cattivo, sulla stessa scia di “The Opium Eaters”
che è invece l’immancabile e particolare strumentale.
In “Seven” anche “Day On The Town” è un reggae
piuttosto sognante con tastiera “classica”, piano e
notevole passaggio dub fino allo sfumare.
La più ska di tutto l’elleppì “Seven” anzi,
l’unica veramente “ska”, è “Promises Promises”
una vera iniezione d’energia.
A novembre i Madness
pubblicano un altro singolo, inedito, una cover di “It
Must Be Love” del cantante di colore Labi Siffre. Si
tratta del decimo singolo per i nostri Madness
ed è – ancora - un reggae madness style con
divertentissimo video d’accompagnamento!
Con la successiva primavera, tanto per non far stare a
digiuno i fan per la successiva estate, ecco uscire, a fine
aprile, la prima compilation dei Madness,
opportunamente intitolata “Complete Madness” e
contenente tutti i singoli già usciti e 2 altre nuove
tracce: “In The City” (fatta apposta dai Madness
per la pubblicità di un’auto giapponese, la Honda
“City”) ed il capolavoro ska assoluto dei Madness
a mio modestissimo parere e personalissimo gusto: “House
Of Fun”. Non è un caso che il relativo singolo entrerà
in classifica direttamente al numero 8 per raggiungere
(incredibilmente per la prima volta nella storia del
gruppo!) la vetta, solo una settimana dopo. Era la metà del
maggio 1982 ed in quello stesso periodo esce la
videocassetta “Complete Madness” contenente tutti i
videoclips fino ad allora interpretati dai beniamini di
ormai un vastissimo pubblico e che, manco a dirlo, entra
“in battuta” al primo posto delle vendite di
videocassette.
E’ quello che si dice un successo sfacciato, ma senza
dubbio meritato e, riguardando la videocassetta, si rimane
stupiti per la serie di idee geniali sviluppate dal gruppo.
I Madness, quindi,
si godevano contemporaneamente il 1° posto negli album, nei
singoli e nelle video!
Instancabili, agli inizi del novembre ’82, i Madness
arrivano sui banconi dei negozi di dischi con il loro 4° (o
5°, se si considera Complete) album “The Rise & Fall”.
Questo è l’album musicalmente più complesso di Barson
& C.
“Our House” e “Tomorrow’s Just Another Day” sono,
di quel disco, i brani di maggior successo commerciale, ma
ci sono anche “Calling Cards”, “That Face”, “Mr.
Speaker Gets The Word” e “Tip Toes” nelle quali è
sempre presente, benché “lontana” l’influenza ska;
l’ultima traccia del disco, poi, è “Madness (It’s All
In The Mind)” uno swing/R&B che ricorda i primi
shuffle giamaicani.
Credo sia il disco dei Madness
dal quale sono stati tratti meno singoli.
Sono tracce forse troppo elaborate come “Are You Coming (With
Me)” o poco ballabili come la stessa title track ad avere
fatto desistere dagli acquisti i fan “modaioli” che,
data per finita l’epoca ska, già indirizzavano i loro
interessi ai Duran Duran
od ai Frankie Goes To Hollywood! Resta il fatto che, quanto
a stranezza creativa, canzoni come “Primrose Hill” non
hanno eguali.
Il 1983 si conclude per i Madness
con l’uscita di un nuovo singolo dal titolo “Wings Of A
Dove”, fortunato in classifica inglese, accompagnato dal
solito fuorissimo video (senz’altro uno dei più
divertenti), seguito, a breve distanza, da “The Sun And
The Rain”, altro 45 e video, se possibile, ancora più
divertente del precedente ed entrambi preannuncianti
l’uscita del loro 5° album “Keep Moving”, era da poco
iniziato il 1984.
In Italia di tale album non si parlerà, ma verranno tratti
altri due singoli, anch’essi con relativo video al
seguito, “Michael Caine” e la bellissima “One Better
Day”. Altri brani di pregio sono “Brand New Beat” e
“Samantha” ma, eccetto l’allegrissima “Wings Of A
Dove” (non è quella giamaicana, alla quale qualche rude,
forse, sta pensando), “Keep Moving” è un disco
nostalgico e melanconico.
I Madness non sono
più quelli dei primi 3 dischi e dallo ska e, tramite la
parentesi di “Rise & Fall”, diventano esponenti del
miglior british pop di quell’epoca, alla pari con gente
come Elvis Costello, The Kinks o The Small Faces. Nel
frattempo – purtroppo - perdono anche un membro che si
sarebbe detto essenziale per l’esistenza stessa dei Madness:
Sir Barson esce dal gruppo.
L’anno successivo, esce il sesto album - il primo senza
Barson - ironicamente intitolato “Mad Not Mad”, del
quale memorabili restano la bellissima “Yesterday Man” e
la cover reggae di “Sweetest Girl”.
Non si ha immediata percezione dell’assenza di Mr. Barson
forse perché, nell’insieme, è perfettamente confermata
la linea musicale intrapresa con Barson in “Keep Moving”.
Anche i due geniali produttori di sempre, ovvero Clive
Langer ed Alan Winstanley ebbero il loro peso,
probabilmente, se i Madness
non sembrano aver accusato il colpo della fuoriuscita di
Barson.
Il reggae “Tears You Can’t Hide” e “Time”
dimostrano un brillante capacità creativa dei restanti 6!
Ma non posso non rilevare che “Mad Not Mad” è il primo
album in cui non c’è alcuno strumentale.
Tanto per la cronaca (rigorosamente “ska”), il singolo
“Yesterday Man” vanta come lato “B”, la penultima -
a mio sapere - apparizione discografica di Jerry Dammers, al
giusto posto con la sua tastiera skanchettosa nel brano
“All I Knew”.
Diventa infine tempo per la seconda compilation che,
intitolata “Utter Madness”, raccoglie tutte le hit degli
ultimi 4 album più la splendida e stranissima “Driving In
My Car” uscita solo in 45 nell’estate dell’82 (lato
“B” “Animal Farm”) e “Waiting For The Ghost Train”
una canzone degna dei Madness quando erano 7 con
immancabile, divertentissimo video (un altro dei più belli)
da raccogliere nella meritevole videocassetta dal titolo
“Utter Madness”.
Da qui in poi (è il 1986) – strana la vita, si dirà –
l’oblio coglie i Madness
(o i Madness colgono
l’oblio?).
Non lo so, improvviso: crisi creativa di tutti gli elementi
del gruppo? Disinteresse della casa discografica madre e
padrona? Totale disinteresse del pubblico? Troppo pochi
incassi a fronte di grossi investimenti pubblicitari? Scazzi
coi produttori?
Boh! E’ certo solo che “Utter Madness” è l’ultimo
disco dei Madness
prodotto dall’accoppiata che, fino ad allora, li aveva
seguiti, i prima citati Clive Langer e Alan Winstantley.
Dopo 2 anni di totale (per quel che mi è noto) assenza
dalla scena, i Madness
si ripresentano (in Italia senza alcuna promozione) con
“The Madness” un disco di cui odio parlare perché ho
dovuto riascoltarlo per scriverne.
Innanzitutto: erano ancora i Madness?
Domanda che trova la sua spiegazione (ma non la risposta,
che non so) nel fatto che il gruppo accreditato è The
Madness, con un articolo determinativo che il gruppo
originario non ha mai avuto!
Degli originali membri della band ci sono, o appaiono, solo
Carl Cathal J. P. “Chas Smash” Smyth, Chris Foreman, il
vecchio “Suggs” McPherson ed il sassofonista volante o
subacqueo Lee Thompson. All’appello, oltre Barson, mancano
Daniel Woodgate (batteria) e Mark Bedford (basso) ovvero il
cuore ritmico della band londinese.
Di dieci tracce del disco ne salvo solo 2: “Nightmare
Nightmare” e “Beat The Bride” unicamente perché,
benché non paragonabili a nulla che i Madness
avevano fatto in precedenza, segnano il “ritorno” di
questi The Madness all’uso di ritmiche del tutto
ska/reggae. Anzi, le salvo proprio solo perché hanno quelle
ritmiche, alle quali partecipa alle tastiere e piano -
guarda caso - Jerry Dammers (e questa è l’ultima sua
registrazione di cui ho conoscenza).
A salvare questo disco dalle critiche non serve neppure che
in due brani (“Nail Down The Days” e “What’s That”
del quale ultimo è stato fatto pure un singolo) ci sia la
sezione fiati dei Potato Five all’apice della loro
carriera.
Premetto, per rendervi partecipi della dimensione della
delusione che fu per me ascoltarlo la prima volta, che,
quando comprai “The Madness”, ero già a conoscenza di
tutta la discografia del gruppo del quale mi reputavo, a
buon diritto, un ottimo fan e conoscitore.
Non so cosa ne pensino i diretti interessati, ma The Madness
è veramente il più brutto insieme di canzoni che il gruppo
(o quanto all’epoca ne rimaneva) ha messo insieme in tutta
la propria carriera!
Drammatico fu per me, ancora due anni dopo e, quindi, nel
1990 apprendere da una piccola nota in quarta di copertina
del disco “Crunch!” dei Nutty Boys (Lee Thompson e Chris
Foreman con “guest star” Suggs) la seguente verità
“This work Is dedicated to the good ship madness (1979 –
1989 R.I.P.) and all who sailed in her”.
Tragico: The Madness era stato, quindi, fatale per i Madness!
“Crunch”, album per l’etichetta ska Dojo (della stessa
– scomparsa? – Link Records & Music che aveva le
note sussidiarie Skank Records e Staccato Records) che venne
seguito pure da un singolo che, se non vado errato, si
intitolava “Hello Mr. Policeman”, è un album “Ska”
piuttosto particolare che nell’insieme ricorda molto da
vicino i Madness
dell’ultimo criticatissimo album, ma al contempo se ne
distacca per le ritmiche decisamente più ska/rocksteady
riscontrabili in ogni traccia; se “Crunch” fosse uscito
col nome dei Madness
avrebbe probabilmente avuto molta più fortuna di quello che
ebbe, con praticamente la sola pubblicità dello “Skinhead
Times”, nel mercato indipendente dello Ska.
Fortunatamente, incoraggiati dall’ennesima compilation a
nome del gruppo (un doppio CD ed ellepì) dal titolo Divine
Madness che ebbe un inaspettato successo di vendite tra
tutti i nostalgici di una generazione, nel 1992 i Madness
si riuniscono festeggiando l’avvenimento con un
megaconcerto a Madstock, fuori Londra, che resterà famoso
negli annali per aver creato una vera e propria onda
sismica. Esce anche un ottimo live (con tutti i cavalli di
battaglia) tratto da quel fantastico concerto: i Madness
erano al massimo dell’energia, la gente è impazzita e
questo spettacolo si è ripetuto ovunque i Madness,
tutti e 7 ognuno al loro posto, abbiano suonato. Io ebbi il
piacere di vederli a Berna nella cornice di uno dei migliori
festival musicali della confederazione elvetica, con tre
carissimi amici e di cui vi posso mostrare anche delle foto!
Nuovi dischi, però, non se ne vedono, ma quel che è più
grave e che non se ne sentono!
Dovrò aspettare fino al 1999 per sapere che è uscito il
nuovo album dei Madness
ma io, un po’ per sfiducia ed un po’ per pigrizia, non
sentendone parlare, ho aspettato l’occasione di ascoltarlo
da qualche parte prima di prenderlo: brani che già conosco
o roba techno come quella che è arrivato a propinare
“Suggs” o tipo il famigerato “The Madness” non ne
volevo ascoltare più dai miei beniamini.
E’ stato nel settembre del 2000 che ho acquistato, in un
megastore, “Wonderful Madness”, a prezzo scontato, non
si sa mai…
La sorpresa è stata da subito gradevolissima: i Madness
sono tornati, tornati discograficamente, con un album tutto
di nuove, ottime, composizioni! Questo ho pensato al primo
entusiasmante ascolto di “Wonderful Madness”.
Mi scoccia che anche questo disco non abbia goduto della
pubblicità e diffusione che avrebbe meritato perché
decisamente più bello, più ska, più nutty di “Mad Not
Mad” o di “Keep Moving”.
Fin dalla prima traccia “Lovestruck” Wonderful Madness
si rivela essere un album in cui sembra raccolto tutto il
meglio delle influenze, delle sonorità e delle ritmiche che
i Madness sono stati
in grado di sfornare dal 1979 all’89. E ciò è valido,
sia che si tratti di brani non ska come la successiva
“Johnny the Horse” che Ska al 100% come “The
Communicator”.
Più indietro ho accennato al particolare reggae qua e là
proposto dai Madness,
e “4am”, giustamente quarto brano di un disco che ne
contiene altri 7, benissimo rientra nella categoria,
facendoti assaporare atmosfere e colori di The Rise and The
Fall. Se c’è il reggae madness e c’è anche il loro
particolarissimo R&B, apprezzabile in tutta la loro
opera fin dal primo album e qui riportato alla gloria con
una delle tracce più belle di Wonderful Madness, “The
Wizard”.
Ancora Ska di grande effetto, con la partecipazione
straordinaria e passata quasi in silenzio, di Ian Dury alla
voce, è la divertentissima “Drip Fed Fred”, che, con un
bel giro di basso e piano che rotolano ed accompagnamento
ritmico dei fiati in levare è un bello Ska da pub.
Per me è stata un’emozione estremamente piacevole
ascoltare nuove composizioni Ska dai Madness,
emozione accentuata dalla successiva “Going To The Top”,
un brano che fa da link tra “Bad & Breakfast Man” e
“Our House”.
Ma certi spunti “non ska” facilmente rintracciabili
negli album Rise and Fall e Keep Moving non sono certo stati
abbandonati dai Madness
come dimostrano le belle “Saturday Night sunday Morning”,
“Elysium” e “No Money” tutte rigorosamente lontane
da ritmiche propriamente ska.
La più particolare, che segna anche nuove influenze
ritmiche del gruppo londinese definitivamente riunito, è
comunque la taccia #10, “If I Didn’t Care”, una
canzone dalle atmosfere notturne e dagli accenni funky.
Augurando quindi ai miei carissimi Madness
A) di continuare su questa splendida strada; B) di essere
supportati dalla Virgin adeguatamente e capillarmente; C) di
ritornare ad avere il successo dei primi ’80, attendo, con
impazienza, un loro live milanese ed un degno seguito al
loro bellissimo “Wonderful Madness”…lo Ska ha bisogno
di follia!
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