Anonimo - da "Sarà un risotto che vi seppellirà. Materiali di lotta dei Circoli proletari giovanili di Milano" - Squilibri edizioni 1977
‹‹Non cercate un filo logico nel mio intervento: non voglio essere razionalizzato,
ma vissuto per quello che esprimo. Voglio parlare del comunismo, dell’utopia
e della filosofia della vita. Chi siamo noi? Noi siamo l’appendice della macchina
di produzione capitalistica. Di mattina ci alziamo, che palle, vorremmo
stare a letto a oziare. L’ozio è una bella cosa: è il piacere del riposo, e
poi è il padre dei conclamati vizi. Chissà poi perché li chiamiamo vizi:
penso piaccia a tutti avere tempo libero per pensare a sè stessi e agli altri;
e per mangiare bene, viaggiare, fare meglio l’amore, bere del buon vino,
avere molte relazioni umane, pescare, pitturare e altri vizi simili. Sono sicuro
che gli artisti singoli non esistono: tutti gli uomini sono artisti perché
hanno tutti una parte da recitare in questa vita. È che non hanno il tempo e
il privilegio per poterlo essere. Vorrei stare a letto a pensare queste
cose ma ho appena finito la malattia di ieri. Mi metto molto in malattia perché
lavorare stanca. E poi, essere sfruttati da quel pirla di padrone che ho io!
Non parlo dei mezzi di trasporto per andare a lavorare, sennò mi angoscio subito.
Ah. l’ideologia del lavoro, te ne accorgi subito quando timbri il cartellino:
«Sempre in ritardo tu!». Dopo un po’ ti stanchi di raccontare balle per il
ritardo. Chissà cosa gliene frega agli altri operai del lavoro. Finché è il
padrone o il caporeparto che deve fare carriera è comprensibile, poveretto,
ma gli altri? Uno dice: «Se vai a lavorare per necessità, perché devi mangiare,
pagare l’affitto, i figli, luce-gas-telefono e magari qualche lusso va
bene, ma non facciamone una morale». La morale del lavoro: sembra di essere
in Russia. Di questi tempi poi, lavorare è sempre più difficile: ti aumentano
i ritmi e le mansioni; sono anni che lavoro sempre li e vorrei cambiare per
non morire troppo, ma c’è disoccupazione e non trovi posti di lavoro migliori;
poi i padroni sono sempre più attaccati alla produzione: produrre, produrre,
produrre. Non assumono più personale e non sostituiscono chi va via; sono
sempre alle calcagna: «Cosa stai facendo? Hai fatto questo? Puoi stare un’ora in
più?». Che palle! Non è che rifiuto il lavoro in sé, anche se meno si lavora
meglio è. Oltre che per i soldi, per questo immondo regno della necessità,
lavoro per cercare delle soddisfazioni umane con gli altri lavoratori. I rapporti
con loro potrebbero essere bellissimi, perché ognuno è un personaggio diverso,
con la sua storia e le sue caratteristiche, drammi, contraddizioni. Peccato
che vince sempre la paura e i miti borghesi. C’è molta solidarietà quando si
lotta, si sciopera, si parla, si agisce contro il padrone. Certo che se l’autonomia
degli operai non si sviluppa e se i sindacati continuano così non ci sarà
più nemmeno questo. Sarà tutto solo una lotta individuale, e vincerà il padrone.
Oltre alla lotta è difficile costruire dei rapporti più profondi con gli
altri lavoratori. E sì che lo vogliono tutti, è un bisogno di tutti. Anche per
questo si ubriacano spesso e male alla sera. C’è un muro di paura, paura
di sé verso gli altri, paura di se stessi, paura anche del padrone. Se non ci
fosse il padrone si risolverebbero tutti i problemi. È una scala nevrotica:
il padrone per interesse opprime te, tu devi opprimere qualcun altro altrimenti
rovesci la tua violenza su te stesso. E la sera c’è la moglie o i figli
su cui scaricarti, o c’è il sonnifero della televisione, della partita, del
fotoromanzo. O il sonnifero vero e proprio. Chi ha ancora un po’ di fede
prega Dio. Oppure ti curi dei tuoi hobby, coltivi l’alienazione o anneghi in
un bicchierone di alcolico. In genere la moglie è la droga che funziona
meglio di tutto, e la violenza del rapporto sessuale ne è l’espressione più
evidente. O come si guarda le riviste pornografìche. Certo che ora le donne
si ribellano, cosa si farà? È un casino. Una valvola di sfogo che si chiude.
O lotti o rischi di esplodere. Anche per questo aumentano le malattie in
questo periodo, e la gente è sempre più aggressiva e tesa. La condizione ideale,
tra l’altro, per creare capri espiatori. Ma la cosa peggiore non è la negazione
di questa valvola di sfogo, ma la negazione nel lavoro. Figurarsi adesso
che ci chiedono sacrifici. Esplode tutto! C’è della gente che fa gli straordinari
e non si mette in malattia perché altrimenti non saprebbe cosa fare, si
troverebbe di colpo sperduta nel vuoto. Che anestetico che è il lavoro! Come
la morfina. È una droga pesante, è la droga che provoca più vittime: incidenti
sul lavoro, malattie, nevrosi, crisi familiari ecc. Poi vai in pensione e ti
viene la trombosi perché il corpo si era abituato a un certo ritmo di sfruttamento.
Per fortuna che la classe operaia italiana è abbastanza vaccinata: i giornali
borghesi nel ‘69 chiamavano questo vaccino «disaffezione dal lavoro». È
pericoloso esserne affezionati. E gli scioperi di quel tempo li chiamavano «a
gatto selvaggio», perché quando uno non aveva voglia di lavorare trovava
sempre qualcun altro della stessa idea e facevano sciopero in gruppo, per qualsiasi
motivo. Spesso non lo diceva neanche che faceva sciopero: tornava a casa e basta.
Mi sono sempre stati simpatici i gatti, più sono felini, cioè selvaggi,
più sono simpatici. Perché sono autonomi. Il gatto è furbo perché usa l’uomo
e non si fa usare: ha l’autonomia individuale e contemporaneamente se vuole
si fa mantenere per garantirsi il diritto all’ozio. Chissà se un giorno piglieranno
anche il potere. Sarà così anche coi padroni: quando piglieremo il potere
e li divoreremo (politicamente) qualcuno dirà che dopo tutto il padrone alle
cose che faceva ci credeva veramente, che era costretto a fare i suoi interessi
altrimenti il profitto, altrimenti.., se tu avessi una fabbrica non faresti
così ecc. Il fatto è che anche noi vogliamo fare i nostri interessi, però
siamo gli unici a cui la storia, e altro, legittimano l’egoismo. Più un operaio
è egoista verso il padrone più è altruista verso gli altri operai e verso
il genere umano. Ribellarsi è giusto. Insomma, mi sono reso conto che la nevrosi
tra i lavoratori è l’insieme dei bisogni radicali non soddisfatti e negati
o deviati su valvole di sfogo, droghe pesanti. E poi c’è sempre più il regno
della necessità che incombe: le bollette da pagare, i conti che non tornano,
la casa che non trovi. Per questo, lavorare e vivere è sempre più pesante. Quando
inizio a lavorare cerco di svegliarmi due ore dopo: se dormo sento meno il lavoro,
ma un giorno o l’altro ci lascio la mano nel pressa-cartoni. Se non dormo
studio il modo per infastidire il padrone; gliene devo fare almeno una al giorno,
e fargli fare buon viso a cattiva sorte. Se invece ti fa la menata fai
l’indiano, o se hai voglia litiga e fai casino. Lavorando ti rendi conto che
hai davanti a te un’odiosa macchina così fredda. Fa tutto da sola, però
deve esserci li qualcuno a mettere continuamente le virgole altrimenti non va
avanti. I lavori che ci toccano di più sono così alienanti che ti distruggono
fisicamente e soprattutto mentalmente. Ti succhiano il cervello, e così per
non morire d’inedia mentale devi creare, fantasticare, giocare. Allora
giochi con la macchina, la prendi in giro, la fermi, la disegni. E quando aumentano
i ritmi, la saboti, la rallenti. Hai anche la scusa che a salario di merda
fai lavoro di merda. Il gioco preferito sul lavoro in una cartotecnica era quello
di gettare oggetti nei nastri per bloccare la produzione. Ma in ogni posto
di lavoro se ne inventa uno: è una questione di sopravvivenza. Giochi con la
macchina, giochi con gli altri lavoratori. Sono simpaticissimi gli operai adulti
quando giocano a farsi i dispetti, a nascondersi tra le macchine, o intralciano
il lavoro a chi si impegna troppo. Diventano di colpo bambini. E, vedendoli
felici, mi convinco sempre di più che i soggetti più rivoluzionari sono
i bambini, meglio le bambine, perché padroneggiano le dimensioni del gioco e
della fantasia. In una piccola azienda, la cosa che più ti chiedono gli
operai quando sanno che sei di "Lotta continua" o un freak è se gli fai conoscere
qualche ragazzina, e c’è anche chi ti chiede scherzosamente serio se gli
dai la marijuana. Bisognerebbe riflettere su questo. Ti dicono anche che bisogna
fare la rivoluzione, e che ci vuole il mitra, ma questo lo dicono sempre.
E prima o poi... Quando arriva il 27 hai già finito i soldi da dieci giorni:
sei costretto a inventare anche per sopravvivere fuori dal lavoro. Forse
anche per questo Napoli sta diventando il maggior centro culturale d’Italia.
E poi, questa società dei consumi. Rifiutiamo di lavorare di più per avere l’auto
nuova o la moto più grossa, ma oggi anche se lavori di più non puoi accedere
a questi lussi. Che poi, perché i proletari non hanno diritto al lusso e i padroni
sì? Rubare un chilo di carne in un supermercato è giusto quanto rubare
una bottiglia di whisky? O no? O il whisky è un privilegio concesso solo ai
padroni? E per tornare alle cosiddette valvole di sfogo: ti ci costringono
proprio i padroni. Così hanno piegato anche i nostri genitori. Rendono indecenti
i trasporti pubblici così devi comprare la macchina, non ti garantiscono
alcun servizio sociale decente e così devi fare famiglia, perché tornare a casa
dopo otto ore di lavoro non te la senti ogni giorno di farti da mangiare,
la biancheria, la pulizia in casa; e poi essere sempre solo in casa perché non
hai tempo di farti amicizie. Il tempo libero magari ce l’hai, alla fine
della giornata lavorativa, perché quando sei giovane cerchi sempre di superare
la fatica fisica per uscire la sera, fare qualcosa d’altro: speri sempre
in qualcosa di meglio. Ma che cazzo esci a fare la sera quando sei inchiodato
e recintato nell’hinterland milanese, col freddo, la nebbia, due chilometri
per l’unico bar aperto della zona, dove se ci arrivi ti guardano male perché
hai i capelli lunghi o perché non compri la busta di eroina. C’è una canzone
che invita tutta la gente a uscire dalle case e passare tutto il tempo nelle
strade a cantare, ballare, conoscersi, fare festa e penso che se abolissero
la televisione e il lavoro per un anno si riuscirebbero a fare moltissime cose.
Ma ci sono le droghe di Stato, necessarie per farti vivere a Milano. Provate
a immaginare la vita in città per un solo mese senza caffè, tabacco, sonniferi
e stimolanti, televisione, automobile, alcol, eroina. Scoppierebbe, perché non
riusciresti più a sopportare lo sfruttamento salariato. Che cosa infernale
sono le città, ti distruggono lentamente anche il rapporto con la natura, non
ti accorgi nemmeno che è cambiata la stagione, che ci sono le rondini,
che la terra ha un odore suo, diverso da quello del cemento umido di benzina.
Un giovane che finisce di lavorare vorrebbe fare qualche cosa di bello,
di più utile: discutere, conoscere, fare, magari studiare anche, imparare a
conoscere il proprio corpo, la propria mente, pitturare, ballare, fare
musica, teatro, artigianato, divertirsi. Ma figurarsi se è possibile fare tutto
questo a Quarto Oggiaro, per esempio. Durante il tempo libero ti accorgi che
sei solo libero di non contare nulla. Niente. E poi non sei libero di cambiare il
mondo. Qui non abbiamo né futuro né presente. E dopotutto la vita è più di tutti
nostra, perché dobbiamo viverla ancora tutta intera, non abbiamo ancora
perso! Quando uno è giovane, avendo tutta la vita davanti, pensa più spesso
come vuole investirla, e questa è l’unica differenza reale tra giovani
e adulti. Si pensa alla propria vita perché pensiamo ci appartenga; è il desiderio
di partecipare come soggetti alla costruzione di una storia collettiva
con la tua gente, il tuo popolo, la tua classe. Le radici dell’uomo stanno nella
sua storia, ed è inutile fuggire in India, anche se è vero che la nostra
storia vogliamo sia ed è internazionalista. Ma la cosa più assurda è che ti
trovi a pensare a queste cose sulle panchine della stazione di Limbiate, o sulle
panchine di Cinisello, che sono state tolte perché ci andavano a sedersi i giovani
della zona sbattuti fuori dai bar perché freakettoni e presumibilmente
drogati. Non che ci dispiaccia tanto, perché al bar si muore di noia, per questo
si era scesi nella piazza, nei giardini. È un periodo che i pochi giardini
di Milano brulicano di giovani. Peccato che tanti di questi finiiscano in galera
per furti o scippi per procurarsi eroina o soldi, perché le condizioni
di lavoro offerte dai padroni sono inesistenti o troppo pesanti. Certo che contro l’eroina
bisognerebbe fare subito qualcosa di più: qui stanno cercando di fregare i giovani
migliori, i più ribelli. Se sei operaio è l’unica cosa che ti fa star bene
per qualche ora nella merda più totale di una giornata lavorativa e di un quartiere
dormitorio. Se sei senza lavoro l’eroina ti dà un ruolo, quello di tossicomane.
Se hai vissuto internamente la crisi dei valori borghesi, l’eroina ti rappresenta
l’autodistruzione, il suicidio collettivo, l’esaltazione non dell’individualità
ma dell’individualismo. L’eroina è la droga perfetta della società borghese.
Ti dà tutto non dandoti niente, anzi, dandoti spesso la morte; è la realizzazione
individualistica opposta alla realizzazione collettiva, è il comunismo in polvere,
è quindi la negazione del comunismo, che invece è una strada di diecimila
anni luce. Se non riuscissero a convincere tanti giovani di essere inutili;
se cioè cominciassinio noi a essere protagonisti, soggetti e non oggetti,
l’eroina non avrebbe più spazio. C’è la solitudine che ci frega molto, ma se riusciremo
a fare della solitudine e dell’autonomia individuale un valore di vita dell’uomo,
tanto quanto il bisogno e il piacere della socialità e della solidarietà,
cominceremo a inceppare il meccanismo ideologico di conservazione della borghesia
e la scala nevrotica si rovescerebbe e si trasformerebbe in una scala di
piacere e di umanità. Bisogna imparare a stare bene da soli per stare bene con
gli altri, tra il proletariato. Certo che per fare tutto questo ci vuole
una vasta rivoluzione culturale, nel movimento, nei partiti più utilizzabili,
in noi stessi, insieme alle donne. Ci sarà bisogno di un esercito di utopisti,
abituati a vivere col terremoto, con le contraddizioni permanenti; bisognerebbe
formare un esercito di soldati del «regno della libertà e delle rose» disposti
a lottare per generazioni, centinaia di anni, senza illusioni di ore x per cui
negarsi, e disposti a scavare, come Yu Kung, con serenità, lungimiranza
e decisione, le montagne della paura e del capitalismo che schiacciano l’umanità
e ne impediscono la liberazione individuale e collettiva. C’è un libro
della Heller e le opere filosofiche giovanili di Marx (è proprio vero che da giovani
si rende di più) che ci possono dare gli strumenti per capire, da un punto di
vista razionale e scientifico, cos’è questo regno della libertà contrapposto
al regno della necessità, cos’è la preistoria e la storia dell’uomo, qual è
il pane e quali sono le rose del comunismo, cosa sono i bisogni radicali,
cos’è la società dell’uomo opposta alla società del profitto. Ma penso che tutto
ciò non sia necessario definirlo sui libri perché è dentro di noi, ed è nella
vita quotidiana di tutti i proletari. Ed è l’impegno a vivere il presente con
tutte le contraddizioni della realtà, superandole, affrontandone delle
nuove come «il fiume che scorre», misurandosi quotidianamente con la miseria
del lavoro salariato, con l’impegno militante a trasformarla fin nelle
piccole cose. Naturalmente è un processo che dura secoli e nessuno di noi vuole
vendere felicità a basso prezzo o negarsi in ideali futuribili maè un processo
inevitabile, fatto di tentativi, di sconfitte, di nuovi tentativi. Chi si ferma
viene travolto. Ci stiamo senz’altro avvicinando a un periodo di eventi
storici straordinari: ognuno di noi deve solo decidere se farsi travolgere dalla storia
e fuggire invano come topi da una nave che affonda o costruire invece, e vivere
nella realtà, una storia collettiva fatta di tanti piccoli e ignoti protagonisti,
fatta di necessità e di libertà, di durezza e di dolcezza, di realismo e di
poesia. Questo è l’unico ruolo possibile. Essere utopisti è un obbligo,
altrimenti che ci stiamo a fare in questo mondo?››