La maman et la putain 
di Jean Eustache
(1973)


PARLA L’AUTORE:
La maman et la putain è la narrazione di fatti di apparenza anodina. Potrebbe essere la narrazione di fatti totalmente diversi in luoghi totalmente diversi. Ciò che avviene, i luoghi nei quali si svolge l’azione non hanno alcuna importanza. Un riassunto della sceneggiatura non darebbe alcuna idea delle ambizioni e delle possibilità del film. E purtuttavia « La Maman et la Putain» non può che essere ciò che è. Non può situarsi che là dove si situa. Mi spiego: la sola ragione per la quale avviene ciò che avviene, là dove avviene, è che io l’ho immaginato così. Non farei un riassunto del film per un’altra ragione ancora: il riassunto fa sembrare le azioni definitive a scapito della azioni accessorie o senza fine preciso. Ora, il mio soggetto è il modo con cui le azioni importanti s’inseriscono attraverso una continuità di azioni anodine. E’ la descrizione del corso normale degli avvenimenti senza la riduzione schematica della drammatizzazione cinematografica. (Jean Eustache)

COME SE FOSSE UN RIASSUNTO:
A che pro raccontare un film? Forse per tirar fuori tutto ciò che non conta o conta poco. Tutto ciò che avrebbe potuto essere romanzo o un’altra cosa. Tutto ciò che non è ancora il film. Bene. Allora diciamo, prima di tutto, che lei ha un aspetto molto pallido, come se avesse trascorso le sue notti in un film di Bresson. Lei si chiama Gilberte e — come una certa Gilberte così cara a Proust — ha abbandonato gli eroi che l’amano ancora e la supplicano di restare. Invano. Lui, è Alexandre, impersonato da Jean-Pierre Léaud. Non ha lavoro e ne è piuttosto fiero. Soprattutto la mattina molto presto quando incrocia le persone che si trovano male nella loro pelle tra il sonno e il lavoro. E’ l’ora in cui Alexandre rientra a casa sua — o più esattamente a casa di Marie (Bernadette Lafont) — perchè egli dorme da Marie, con Marie. Ma per poco perché, durante il giorno, lei lavora. Gestisce una piccola boutique e vende vestiti. Alexandre ama molto Parigi, ma solo di notte. Di giorno, preferisce andare a zonzo per le terrazze dei caffè dove discute con il suo amico Charles. Un giorno, incontra una ragazza, Véronika (Francoise Lebrun). La rivede sempre più sovente. Alexandre è un ragazzo volubile. Vérorika lo sta ad ascoltare. E’ infermiera. Disadattata come Alexandre, dorme all’ospedale per non pagare l’affitto di una stanza. Conosce molti uomini, all’ospedale o nelle boites di notte. Tutti pomicioni. D’altra parte anche a lei non dispiace pomiciare. Un tipo come Alexandre che non ha intenzione di saltarle subito addosso, che è gentile e che ama i dischi del tempo passato, un tipo così non l’ha mai visto. Un giorno, Alexandre invita Véronika a casa di Marie. Solo per ascoltare un vecchio disco che gratta. Marlène Dietrich o una sua ‘imitatrice, non ricordo. Marie non trova simpatica Véronika. Poi, impossibile da raccontare il resto. Che significato ha dire che un giorno, mentre Marie è andata a Londra a comprare dei vestiti, Véronika va a letto con Alexandre? Come spiegare che Marie, al suo ritorno, non ne fa una tragedia? E che ben presto, si ritrovano tutti e tre nel suo letto? E che la cinepresa, giustamente, non ne fa nè una storia, nè un dramma? La tenerezza, il piacere, l’angoscia, la follia, la libertà sessuale, la sofferenza al limite del sopportabile. C’è tutto ciò in questo film. Una notte, Marie tenta di suicidarsi davanti ad Alexandre e a Véronika. Un’altra volta, Véronika e Marie diventano complici per fare il processo ad Alexandre. Ciò che è certo è che, dal fondo di quest’inferno, Véronika ama Alexandre di un amore terribile e puro. Questa piccola infermiera vuole un bambino e rimarrà incinta. Alexandre s’accorgerà che sta rivivendo la stessa situazione di un tempo con Gilberte. Perderà Véronika come ha perduto Gilberte?
(Jean Collet)
«Tutti pensano che La maman et la putain fosse improvvisato, mentre invece era la costrizione più totale. Eustache era feroce. Non si poteva nemmeno scherzare. C’era una sola ripresa per ogni inquadratura, diceva sempre che una sola bastava. Léaud attraversava degli stati di angoscia, si imbottiva di fosforo, perché doveva fare delle tirate lunghissime, aveva paura di non ricordare, era in uno stato... Ma non c’erano scontri perché Eustache era il padrone. Sul set c’era pochissima gente: c’era Lhomme, l’operatore, lrène, la script; c’era Luc Beraud. Tutti eravamo consapevoli che stavamo facendo qualcosa di eccezionale: già leggendolo, mentre lui mi passava le pagine, dicevo che bisognava pubblicarlo, è più bello di Bataille, ha un valore proprio. E lui aveva questa specie di febbre, di rigore, un po’ come Garrel; c’era una sensazione di urgenza, eravamo là, tutto sarebbe potuto crollare ma bisognava farlo, doveva avvenire in quel modo. Era il film indispensabile» (Bernadette Lafont)