GINO PAOLI
IL MIO MESTIERE (1977)


Sipario / Don Chisciotte / Senza fissa dimora / Meri Clen / Madama Malinconia / 67 parole d'amore / Signora giorno / Io morirò / Al gran ballo delle idee / Il mio mestiere / Sistematicamente / Queste piccole cose / Quando ti amo / Gli amanti brutti / Dir di no, dir di sì / Democrazia / I fiori diversi / Oggetti
Arrangiamenti di Pino Piraccioli e Mauro Paoluzzi


Il 1977 è un anno di  tensioni e di conflitti. Prevalgono la rabbia, i toni cupi, infine i bagliori del piombo. La sfiducia nelle ideologie apre il varco al nichilismo, si profila l’ombra  del riflusso. L’ondata punk, nata oltremanica, arriva fino a noi. «Siamo la generazione vuota, la blank generation», è la parola d’ordine in arrivo da Londra: quasi una risposta alle speranze della beat generation, al sogno dei figli dei fiori. La melodia lascia il posto, nella musica giovanile, all’urlo selvaggio, ritmo e armonia si riducono a martellamenti ossessivi, l’invenzione è bandita quasi a dimostrare l’impotenza della fantasia, in un mondo giovanile che, pochi anni prima, reclamava la fantasia al potere. Nasce anche la new wave elettronica, nei brani  si parla di un futuro in cui le macchine avranno il sopravvento sull’uomo. In Italia la crisi del «movimento» spiana la via a tendenze che, in qualche modo, scaturiscono dalla violenza nichilista del punk. Nasce un rock duro e volutamente ostico, in bilico tra il nonsense demenziale e la provocazione rabbiosa. Skiantos, Gaz Nevada, Kaos Rock raccontano lo sbando di una generazione cui non è concesso di credere più a nulla, «Violentami nel metro», urla Jo Squillo prima di convertirsi alla musica dance. In questo contesto Paoli lancia la sua sfida. «Fare il mio mestiere significa realizzare la mia vita costruendo prodotti o attrezzi utili a me e agli uomini», scrive sulla copertina del suo nuovo album. Il disco s’intitola, appunto, «Il mio mestiere», esce in quel plumbeo 1977, segna il ritorno di Gino, dopo due anni, in sala di registrazione, ed è una testimonianza di fiducia nell’uomo, in un momento storico in cui paiono dominare disperazione e livore. Il nuovo disco, doppio, rivendica intanto la funzione sociale di ogni artista, la sua utilità. E chiede solidarietà e attenzione per gli emarginati, i non garantiti, coloro cui la società non riserva protagonismo. Un album tanto più «politico», insomma, quanto più rifugge dagli schemi e dai dogmi del «cantar politico», sprezza gli slogan e le bandiere e muove invece dalla constatazione che il bene di una collettività non può che partire dalla realizzazione del bene individuale. Non si parla di Vietnam, ma dei mille Vietnam di casa nostra, delle categorie più indifese, della discriminazione che crea cittadini di serie A e di serie C: i «fiori diversi», e cioè i gay, gli «amanti brutti», i giovani costretti a diventare «adulti e non uomini» da un mondo adulto troppo propenso a farsi «giudice e mai complice». «Il mio mestiere» è insomma la testimonianza, pacata nella forma e durissima nella sostanza, di un anarchico che non rinuncia a rivendicare per sé e per gli altri («Al gran ballo delle idee», «Senza fissa dimora»), il diritto all’autonomia intellettuale. Coerentemente, un brano come «Oggetti» radicalizza il rifiuto di dogmi e certezze ed è un inno alla libertà. «Signora Giorno» evoca Billie Holiday, simbolo di diversità, di solitudine e dunque di emarginazione. «Meri Clen» fa a brandelli i miti del consenso e del successo. «Il mio mestiere» diventa, con i testi e la regia di Arnaldo Bagnasco, un fortunato spettacolo teatrale. «Fortunato perché», dice Paoli, «i giovani si sono stancati delle canzoni che non suscitano dubbi, sanno che le incertezze, spesso, aiutano più delle grandi idee». Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile di Genova, registrò, su e giù per l’Italia, una raffica di «esauriti». Sul rifiuto d’ogni dogma, Paoli e Bagnasco avevano costruito una sorta di altalena in cui passato e presente finivano per smentirsi e insieme confermarsi a vicenda. Si partiva dai «classici» paoliani e si scivolava sui brani di «Il mio mestiere», si contrappuntavano i «Sassi» dell’omonima canzone con i sassi lanciati a piazza De Ferrari, nel ‘60, dagli antifascisti contro il congresso missino. C’erano ingredienti scenografici che alludevano agli «attrezzi» e al ruolo dell’artista, diapositive che illustravano le canzoni senza imprigionarle in gabbie didascaliche, e un senso costante e discreto della canzone come servizio offerto alla gente, strumento di riflessione e di verifica.