"Il Terzo Uomo" di Carol Reed
di Corrado Farina
gialloWeb
Le recensioni


[Clickare per ingrandire] C'è qualcosa di miracoloso, oltre che di insperato, in questa rinascita del cinema a fine millennio. All'inizio degli anni ottanta sembrava spacciato, sia come icona di consumo di divertimento che come icona di consumo di cultura: erano in caduta libera lo stato delle sale (sempre più obsolete e inospitali), l'attenzione dei media (scomparsi del tutto perfino i flani pubblicitari sui quotidiani),l'affezione del pubblico (abbarbicato al televisore o sprofondato nelle discoteche, a seconda dell'eta'). Quanto al cinema del passato, scomparsi i cineclub universitari, e ridotti gli altri a covi semi-clandestini di sparuti gruppi di irriducibili, l'unico modo per conoscerlo era la televisione, che peraltro, con poche eccezioni, lo riproponeva in modo disordinato e selvaggio, relegando le opere più significative nelle fasce orarie degli insonni e dei vampiri.

Non è questa la sede per riprendere un discorso già fatto altre volte sulla differenza abissale che c'è fra un film visto al cinema e lo stesso film visto in televisione (chi volesse approfondire l'argomento, lo può fare andando a cercare su Internet un mio pamphlet di un po' di anni fa, intitolato "Lo stupro" , all'indirizzo www.geocities.com/Hollywood/Location/2017/stupro.html, oppure www.geocities.com/rojking): quello che ci importa, oggi, è notare come le sale siano tornate a nuova vita (anche se spesso in forma non poco mutata), il pubblico (soprattutto dei giovani) abbia riscoperto il piacere socializzante dell'andare al cinema in gruppo, e la conoscenza della storia del cinema abbia tratto nuova linfa dall'home-video, dal consolidarsi di una rete di locali d'essai, e dal progressivo diffondersi di una cultura del restauro e del recupero di vecchi film.

Ecco, fermiamoci su quest'ultimo punto: anche se spesso si tratta di una mano di vernice culturale data a operazioni di immagine aziendale e di promozione, e quindi squisitamente commerciali, resta il fatto che da qualche tempo è possibile rivedere sul grande schermo, restituiti alla loro forma originaria, dei film che fino a pochi anni fa erano condannati a giacere nell'oblìo, o nel migliore dei casi a essere conosciuti solo in copie macilente e rigate, umiliate e offese dalle dimensioni dello schermo televisivo e dalla violenza degli spot pubblicitari. E questa, soprattutto per i giovani che non li hanno mai conosciuti nella loro collocazione più vera, è una conquista straordinaria di cui non ci si rallegrerà mai abbastanza.

Tutto questo preambolo serviva a condurci al fatto che è tornato nelle sale in copia restaurata "Il terzo uomo", un film del 1948 che rappresenta uno dei risultati migliori del tentativo di coniugare il cinema cosiddetto d'autore con il cinema cosiddetto di spettacolo: obiettivo che fu mirato assai spesso ma di rado centrato.

[Clickare per ingrandire] Che "Il terzo uomo" sia cinema "anche" d'autore non sembra il caso di metterlo in dubbio. Di autori, anzi, ce ne furono almeno tre: il soggetto e la sceneggiatura portano la firma di Graham Greene, già allora romanziere notissimo e di grande talento, non di rado alla ricerca di una difficile linea di confine fra Bene e Male, fra morale laica e morale religiosa; la regia è di Carol Reed, uno degli artigiani più colti e raffinati di un cinema colto e raffinato per eccellenza come quello britannico (uso la parola "artigiano" nella sua accezione più alta, quella stessa dei John Ford, degli Howard Hawks, dei Billy Wilder); e poi c'è un "terzo autore" che coincide con esoterica precisione con il "terzo uomo" del titolo, e che si chiama Orson Welles.
Il quale Welles si limita a interpretare uno dei personaggi, che non è neppure quello principale, arrivando "in scena" solo quando il film si trova quasi a metà del proprio cammino: ma si tratta di un personaggio così importante e di una presenza così carismatica che si può dire che tutto poggi sulle sue spalle, ponendo in ombra il resto del cast, che pure allinea, fra uno stuolo di eccellenti caratteristi, un corretto anche se un po' stantio Joseph Cotten, una Alida Valli al suo massimo e un bravissimo Trevor Howard.

Che "Il terzo uomo" sia cinema "anche" di spettacolo, sembra da mettere in dubbio ancor meno. Greene ha concepito un "plot" narrativo di grande efficacia, ed è inutile baloccarci con le discussioni e le etichette per decidere se si tratta di un "giallo", di un "nero", di un "mistery" o di un "thriller": è una storia che queste etichette le straccia tutte e di tutte utilizza i brandelli, creando una progressiva sensazione di spiazzamento e disagio (non immemore di certe atmosfere kafkiane), e un crescere della tensione che sfocia nella bella sequenza della "caccia all'uomo" nelle fogne di Vienna, in cui l'uomo inseguito diventa non più solo sul piano metaforico molto simile a un ratto per l'appunto di fogna.

Fin qui la materia su carta da cui il film trae principio; che presenta anche la singolarità di non nascere nè come soggetto cinematografico nè come romanzo, ma come premessa letteraria di una sceneggiatura cinematografica (si vedano al proposito alcune frasi illuminanti scritte a mo' di introduzione dallo stesso Greene: "... Per me è assolutamente impossibile scrivere una sceneggiatura senza scrivere prima un racconto. Anche un film, più che non sul semplice intreccio, si fonda su un certo tentativo di ricerca psicologica, su un determinato umore o tono fondamentale, su una determinata atmosfera. E tutte queste cose mi sembra che siano impossibili a cogliersi fin dal principio in quella stupida e incolore stenografia che è un copione..."). Fin qui, dicevo, la materia su carta; ma viene poi la materia su pellicola, che corrisponde alla scrittura filmica e che è di primissimo ordine. Giova anzitutto a "Il terzo uomo" il fatto di essere stato girato "a caldo", nella Vienna dell'immediato dopoguerra, ancora devastata dalle bombe, divisa in settori e occupata dalle potenze alleate. C'è, nei luoghi in cui si coagulano momenti storici irripetibili, una carica di verità che investe non solo gli sfondi (che sono reali) ma l'intera atmosfera e le stesse faccie degli attori che vivono avvenimenti inventati ma del tutto possibili, e possibili solo lì e in quel momento: una carica di verità drammatica e drammaturgica che nessun regista e nessuna ricostruzione riusciranno mai più a ricreare (altro e ancora più nobile esempio di questa "irripetibilità della storia", il mirabile "Roma città aperta" di Rossellini, che poi tenterà inutilmente di replicare il miracolo ricostruendo "a posteriori" il clima della Roma occupata).

Ma non è tutto: i pregi del film salgono dal cuore e investono sensi e cervello. Gli occhi si nutrono di una splendida fotografia in bianco-nero, densa di luci ed ombre espressionistiche, restituita dal restauro al suo nitore originario; le orecchie accolgono come una proustiana madeleine le note musicali di quell'arpeggio ("The Harry Lime Theme") che aveva impazzato per anni sulle radio di tutto il mondo occidentale; e quanto alla regia vera e propria, essa accentua la carica drammatica della storia riproponendo le invenzioni stilistiche e formali delle due più eccelse scuole di scrittura cinematografica dei primi cinquant'anni di cinema: l'espressionismo tedesco (della fotografia si è già detto; ma anche le inquadrature sghembe, i vani delle scale visti dall'alto o dal basso, certi personaggi allucinati nella loro fissità come il bambino che gioca a palla, la folla pronta a trasformarsi in belva assetata di sangue e di vendetta) e il realismo sovietico (la cui lezione è presente soprattutto nell'uso insistito in funzione drammaturgica di primi piani di astanti, che non partecipano agli eventi narrati ma li osservano in un silenzio e in una immobilità carichi di tensione).

E poi, ciliegina sulla torta, c'è un Orson Welles che come si è detto domina tutto il film dall'inizio alla fine, non solo come attore (che una volta tanto non svende il suo istrionismo per una "marchetta" in un polpettone da quattro soldi ma lo mette al servizio di un cinema che non è poi molto al di sotto dell'eccelso livello di certo cinema suo), ma in molti altri modi. Prestandogli Cotten, che è il suo attore-feticcio dell'epoca; suggerendo al regista, ci metterei la mano sul fuoco, alcune soluzioni formali che sembrano venire direttamente da "Citizen Kane"; e suggerendo allo sceneggiatore (e qui la mano sul fuoco ce la mette anche Greene) battute icastiche e celeberrime come quella sulla Svizzera e sugli orologi a cucù.

Il risultato di tutto questo è un film che a distanza di cinquant'anni si vede ancor oggi con "suspense" e diletto, senza bisogno di arrampicarsi sugli specchi degli effetti speciali e dei funambolismi della macchina da presa. E scusate se è poco.

Corrado Farina


Scheda del film
Titolo originale: The Third Man
del: 1949
Diretto da: Carol Reed
Soggetto di: Graham Greene
Interpreti: Joseph Cotten (Holly Martins)
  Alida Valli (Anna Schmidt)
  Orson Welles (Harry Lime)
  Trevor Howard (Major Calloway)


[ Home ] [ Recensioni ] [ Top ]