Le recensioni di Carlo Oliva da Radio Popolare |
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Andrea Camilleri, La gita a Tindari, "La memoria" - Sellerio editore, p. 292, £ 15.000
Quando apparvero, tre o quattro anni fa, i primi romanzi di Andrea Camilleri con il commissario Montalbano, li accogliemmo tutti con entusiasmo. Erano originali, estranei alle mode correnti e molto, molto ben scritti. Noi giallofili impenitenti, in particolare, ci sentimmo lusingati dalle dichiarazioni che l'autore, sull'onda di un successo clamoroso e forse inatteso, aveva cominciato a rilasciare a destra e a manca. Aveva deciso di scrivere gialli, diceva, perché intendeva dare alle sue trame un certo rigore narrativo, disciplinando, per così dire, quella sua prosa fin troppo vivace e piacevole, quell'intarsio scoppiettante ed effervescente di basic italian e di idiotismi siciliani, impedendo che gli prendesse la mano e divenisse fine a se stessa. In definitiva era il riconoscimento, tanto più gradito quanto più autorevole, di un principio caro a noi tutti: quello per cui con i gialli non si fa letteratura nonostante il genere, ma proprio grazie al genere e alla sua inesorabile normativa. Camilleri si rivelava un autore importante delle patrie lettere perché scriveva in quel suo modo delizioso, perché aveva saputo creare dei personaggi così accattivanti, ma - soprattutto - perché scriveva dei gialli in piena regola, non dei pastiches qualsiasi vagamente screziati del nostro colore preferito. Ahimè, forse mi sbaglio, ma ho l'impressione che le cose non stiano più così. Da qualche tempo Camilleri tende a cedere alla tentazione del pastiche e della bella prosa fine a se stessa. La saga di Montalbano, in fondo, aveva trovato una logica conclusione con il terzo romanzo della serie, quel Ladro di merendine (1998) alla fine del quale il protagonista prendeva delle decisioni piuttosto definitive rispetto alla propria parabola esistenziale. Ma, naturalmente, è difficile uccidere la gallina dalle uova d'oro: l'anno dopo, con La voce del violino il nostro commissario era di nuovo in pista, magari un po' incerto, come chi abbia corso il rischio di fare un capitombolo nelle cascate di Reichenbach, ma pronto a ridipanare ex novo le fila della sua esistenza professionale e sentimentale. E nelle due fortunate raccolte di racconti che l'autore ha pubblicato da Mondadori, si era esibito in una serie di bozzetti piacevolissimi, ma piuttosto insignificanti. Questa Gita a Tindari, siano rese grazie agli dei, insignificante non è. È un romanzo serio, costruito con il debito impegno, che merita il successo che certamente gli arriderà. Montalbano è sempre Montalbano e quando deve affrontare simultaneamente il mistero della scomparsa di due anziani coniugi e quello della morte violenta di un giovanotto che, guarda un po', abitava nello stesso palazzo, non ci mette molto a fare due più due. E non dite subito che a fare due più due in un caso del genere sarebbero capaci tutti: come vedrete alla fine, il fatto che i protagonisti dei due misteri vivessero nello stesso edificio era poco più di una coincidenza. Come una coincidenza? Non è, il ricorso alle coincidenze, un espediente cui il vero giallista deve ricorrere solo in caso di emergenza assoluta? Be', forse Camilleri si è trovato proprio in un'emergenza, quella di portar avanti, appunto, una storia che si era praticamente conclusa due romanzi fa. Niente di grave, naturalmente, ma che la trama sia un po' sfilacciata, date queste premesse, è praticamente inevitabile. Voi fate finta di niente ed accogliete pure questa quarta avventura montalbanesca con tutto il giubilo del caso. La troverete, oltre che in libreria, nei principali supermarket. Però, che fatica fare l'autore di successo... 13 Marzo 2000 |
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