Appena tornato da Milano, dove tra le altre cose ho ascoltato il buon
Carlo Oliva strattonare (secondo me in maniera eccessiva assai)
"L'affare Kalkis" di Ellery Queen, noto con interesse come anche "Il
paese del maleficio" abbia suscitato reazioni contrastanti tra quelli
- e sono molti - che lo hanno adesso affrontato per la prima volta.
Ho già espresso altrove la mia assoluta ammirazione per questo
romanzo, che ancora considero uno dei due capolavori di Queen (l'altro
è "Il Gatto dalle molte code", per certi versi un "paese del
maleficio" trasportato di peso nella New York ultrametropolitana degli
anni '50), ma capisco benissimo la difficoltà di afferrarne, magari a
prima vista, i molteplici livelli di interpretazione che l'opera -
molto complessa, malgrado il suo apparente aspetto spoglio, quasi
disadorno - richiede. Ne suggerirei pertanto, a chi volesse provare a
penetrarne i segreti, una rilettura: alla luce, è ovvio, del mistero
già svelatosi nella prima lettura. "Calamity Town" (mi piace chiamarlo
con il titolo originale) è infatti il lavoro centrale dell'opera
queeniana, quello in cui Dannay e Lee abbandonano, congedandosene
momentaneamente, le strutture del romanzo-enigma da loro creato negli
anni '30, per entrare in un mondo totalmente nuovo nel quale
sentimenti e simbologia hanno eguale o maggior valore degli indizi e
delle false piste sulle quali i due cugini avevano costruito la loro
popolarità. Non che "Calamity Town" manchi di indizi o false piste; è
solo che essi assumono un valore e una funzionalità totalmente nuovi,
anche e soprattutto alla luce delle interpretazioni "umane e
sentimentali" date dal nuovo Ellery, che si stenta a riconoscere in
questo romanzo come lo stesso Ellery che imperversava nei rompicapo
queeniani degli anni '30.
Ma "Calamity Town" non ha avuto una vita facile, anzi. Racconta lo
stesso Dannay che "quando terminammo di scrivere quello che
indiscutibilmente ci pareva il nostro libro migliore, "Calamity Town",
lo sottoponemmo per la pubblicazione a puntate, come d'abitudine, ad
una rivista a diffusione nazionale. Fu rifiutato, e non riuscivamo a
capire perché. Durante una telefonata a più voci - io e Manny [Manfred
Lee] da una parte, il nostro agente dall'altra, il direttore della
rivista dalla terza - posi al direttore le domande che mi frullavano
per la testa. "Ma non ti è piaciuto il libro?" "Oh sì, moltissimo.
Anzi, penso sia il vostro miglior libro in assoluto" "E allora perché
non l'avete pubblicato? Siamo noi che vogliamo troppi soldi per il
vostro budget?" "No" "Allora avete troppo materiale in attesa di
pubblicazione e non volete aggiungerne altro?" "No". E così via.
"Allora, perché mai non lo volete?" E la sua risposta fu "Non lo so…".
Dopo una simile risposta mi ricordo di aver detto a Manny "Caro mio, è
meglio che ci troviamo qualcos'altro da fare, perché se il risultato
deve essere questo, se il tuo miglior libro viene rifiutato senza una
ragione apparente, allora c'è qualcosa che non funziona".
E' anche per questo, probabilmente, che i due cugini si buttarono a
corpo morto nella produzione di originali radiofonici, e che il loro
successivo romanzo, "Una volta c'era una vecchia" [There Was an Old
Woman, 1943] sarà ancora più sconcertante di "Calamity Town, ma
altrettanto significativo per la sua implicazione e promessa di futuri
sviluppi.
Va detto, intanto, che con "Calamity Town" Ellery Queen si inserisce
per la prima volta nella grande tradizione letteraria "seria"
americana. In questa opera i referenti più immediati e visibili, a
differenza dei suoi romanzi degli anni '30, che orgogliosamente si
vantavano di discendere da quelli di S.S. Van Dine, sono
esplicitamente non polizieschi: da Edgar Lee Masters a Thornton
Wilder. Si tratta di un'intuizione di Francis Nevins che Dannay ha
doverosamente confermato, ovvero che l'elemento base nella
progettazione di "Calamity Town" sia stato, per un verso, l'
"Antologia di Spoon River" (1916), la raccolta poetica di Masters, e
per l'altro "Piccola città" (1938), la commedia di Wilder. Né l'una né
l'altra è un romanzo, come si vede. Queen ha deciso, secondo me, di
cimentarsi in un'impresa assai impegnativa: trasferire in una
struttura narrativa - e , ancor più difficile, conservando lo schema
del giallo - l'impostazione elegiaca e, malgrado le apparenze,
pesantemente critica e satirica, dei lavori di Masters e Wilder.
Quindi il romanzo, già in partenza, richiede di essere affrontato con
spirito ben diverso da quello che avevano lasciato intendere i
precedenti lavori queeniani, quelli per intenderci ambientati ad
Hollywood, "the land of Oz" (come ci vien detto all'inizio di "The
Devil to Pay") e scritti per il mercato delle riviste patinate. In
realtà, anche lì la satira queeniana era sferzante, ma la
"umanizzazione in corso" della figura di Ellery stava attraversando
una fase talmente grottesca (vedi i goffi tentativi amorosi di Ellery
con Paula Paris in "The Four of Hearts") da rasentare il ridicolo: in
"The Four of Hearts", appunto, Ellery ha, nettamente ed
indiscutibilmente, il volto di Clark Kent.
In "Calamity Town", finalmente, Ellery viene privato dei suoi
superpoteri (e, ragazzi, dite quello che volete, ma questo particolare
- che sarà poi un tratto caratteristico della narrativa a fumetti
americana, da Batman all'Uomo Ragno - getta un'altra piccola luce
sull'importanza a posteriori del romanzo) e, come avviene in siffatte
circostanze, diventa estremamente vulnerabile sul piano emotivo ed
intellettuale. E' questa una delle caratteristiche del libro: tanto
significativa che, infatti, è stata immediatamente colta da tutti
quelli di voi che hanno scritto "ho risolto l'enigma prima di Ellery"...
Il ruolo di Ellery in "Calamity Town" è, a mio avviso, quello del
"suscitatore di eventi" del catalizzatore, di colui che mette in moto
gli avvenimenti. E', ancora una volta, il manifestarsi di uno dei più
vecchi miti letterari americani: quello dello straniero misterioso.
Dalla leggenda folk di Stagger Lee al racconto di Mark Twain ("The
Mysterious Stranger", appunto), passando per centinaia di romanzi e
racconti e film, dal "Cavaliere pallido" di Clint Eastwood al recente
"Ancora vivo" [Last Man Standing] di Walter Hill con Bruce Willis,
"Calamity Town" presenta l'ennesima variazione sul tema del
personaggio sconosciuto che arriva in città, fa precipitare gli eventi
sol con la sua presenza, ne è attonito testimone dapprima, poi invece
contribuisce a sistemare le cose (sia con la forza del ragionamento e
dell'intuizione, come Ellery; sia a revolverate, come Eastwood o
Willis) e, alla fine, riprende la sua strada.
Questo topos è da Queen innestato su di una struttura narrativa molto
articolata, che utilizza largamente una serie di elementi sociologici
e simbolici destinati a ricoprire un ruolo fondamentale anche nella
produzione queeniana successiva. La visione del "piccolo angolo di
mondo" apparentemente incontaminato ma, in realtà, percorso da fremiti
e vene di insospettata malvagità verrà ripresa, di lì a non molto, nel
"Villaggio di Vetro" [The Glass Village, 1954], una tragica allegoria
del maccartismo nella quale Ellery non appare, non può apparire. Lo
svolgersi dell'azione in nove mesi, il periodo della gestazione,
richiama da un lato l'ossessione per il numero nove e per la maternità
che caratterizza l'ultimo romanzo di Queen, "La prova del nove" [A
Fine and Private Place, 1971], e dall'altro la necessità di
suddivisione per dodici che pervade l'intero "Colpo di Grazia" [The
Finishing Stroke, 1958].
E il tema centrale del romanzo è, infine, il ciclo biologico: dalla
vita alla morte, alla vita ancora. Si tratta, per il momento, di una
visione che lascia ancora tracce di speranza; ma, col trascorrere del
tempo, i romanzi successivi di Queen verranno sempre più calati in un
clima di tetra disperazione e di angosciosa ricerca del perché
dell'esistenza, tali da rendere frequente il ricorso al tema della
manipolazione dell'individuo da parte di un'entità "superiore" (ovvero
l'identificazione dell'assassino con la divinità, vera o presunta:
vedi "Dieci incredibili giorni" e "Bentornato, Ellery!", quest'ultimo
non a caso scritto insieme a Theodore Sturgeon, che nelle sue opere
fantascientifiche ha spesso trattato l'argomento metafisico ).
Un'ultima annotazione, infine, vorrei riservarla alla maestria
stilistica che i Queen esibiscono in questo romanzo. Non è comune, e
non lo era nel 1942, incontrare un romanzo giallo scritto "così bene".
L'americano di Queen, sia nelle parti colloquiali che in quelle più
letterarie, è una lingua ricchissima di sfumature, estremamente sonora
nella sua riproduzione del parlato e particolarmente evocativa nelle
frequenti, ma non retoriche o cartolinesche, descrizioni della natura.
Il primo capitolo in particolare, "Mr Queen Discovers America", è una
delle cose più affascinanti mai scritte da Dannay e Lee, così perfetto
nella sua descrizione "minimale" di una città apparentemente
idilliaca, da poter essere paragonato ad analoghe pagine dei più
grandi scrittori statunitensi di racconti, come John Cheever, Eudora
Welty e Willa Cather. E proprio come l'ultima opera del grande e
misconosciuto (in Italia) Cheever, così Queen avrebbe potuto
intitolare il suo romanzo "Oh, What a Paradise It Seems"...
Ma si tratta sempre, in fondo, della perdita dell'innocenza: il vero
tema di quell'autentica chimera che è il Grande Romanzo Americano.
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