Difficile calarsi nella psicologia, nelle emozioni, nei desideri dei bambini: Simona Vinci
ci prova - e in parte ci riesce - in questa storia acuta e scabrosa che segna il suo esordio
letterario. "Dei bambini non si sa niente" (1997, Einaudi – Stile libero, pagg. 167, lire 13.000)
ha suscitato molto interesse, ma anche qualche polemica.
Nel libro si narra di un gruppo di bambini dai 10 ai 15 anni che a un certo punto decide di
appartarsi, di chiudersi in un capannone abbandonato in piena campagna. E’ il periodo delle
vacanze estive, si gioca, si esplorano i dintorni in bicicletta o in motorino. I cinque (tre maschi
e due femmine) cominciano un’intensa esplorazione dei propri corpi spinti da Mirko, il più grande
della banda. All’inizio c’è qualche imbarazzo, ma le prime esperienze sessuali vengono digerite in
fretta e subito si passa ad altro, l’esplorazione si fa sempre più audace fino ad arrivare all’atto completo.
Talvolta ci sono le riviste pornografiche da sfogliare: per eccitarsi, per imparare nuove posizione,
per imitare sempre meglio gli adulti. Si parla poco e si agisce molto, stranamente, visto che i
bambini (da sempre) esprimono la propria curiosità soprattutto con le domande. Sono bambini strani?
Diversi dagli altri? Non sembrerebbe affatto, eppure dovrebbe essere così visto che alla fine,
non sapendo più cosa fare, nel gruppo esplode un’improvvisa violenza: inattesa, eccessiva, indigesta.
Una delle bambine, Greta, viene brutalmente sodomizzata con il manico di una racchetta da Mirko,
la guida "spirituale" del gruppo, fino a ucciderla senza pietà come farebbe uno spietato maniaco.
Perché?
Sì, c’è un veloce accenno a due "grandi" che ogni tanto avvicinano Mirko e lo minacciano, gli danno
della droga, si può persino pensare che da loro abbia subito violenza, ma qui il romanzo è carente,
vago. Mirko non parla: né prima né dopo lo scempio, non motiva agli altri del gruppo (né a se stesso)
la propria cieca e bestiale crudeltà. Forse ha la sensazione di aver esagerato, ma non appare pentito,
terrorizzato per ciò che ha fatto e per le conseguenze che ne deriveranno. Allora anche la violenza,
la morte, come lo sfrenato erotismo, sono soltanto un gioco? Greta non si lamenta nemmeno troppo mentre
subisce l’orrenda devastazione interna e gli altri tre assistono impassibili, ipnotizzati, ebeti, assenti:
sono drogati o cosa? Poi tutti assieme trasportano e sotterrano quel corpicino e se ne tornano
tranquillamente a casa.
Davvero dei bambini non si sa proprio niente?
Il romanzo parte in modo lento, poi c’è una brusca accelerata e si passa a pagine intense, forti,
in cui tutto è descritto nei minimi particolari ed è come se le scene si svolgessero in presa diretta,
davanti ai nostri occhi. Per il taglio duro e scabroso della storia viene in mente Il giardino di
cemento di Ian McEwan. Lo stile di Simona Vinci è plastico, lento e preciso, si ha la netta sensazione
della sua bravura a orchestrare frasi ben fatte. Non mancano momenti descrittivi, quasi lirici, che
però non si amalgamano con il resto della storia: sì, spezzano la tensione ma sembrano messi lì apposta
come "spot" letterari.
A parlare è Martina, la bambina che resta viva, ma ogni tanto alla sua voce si unisce quella di Matteo
(il bambino più piccolo) e in più ci sono le descrizioni liriche a cui accennavo poco fa, che certo
vengono fuori dall’occhio dell’autore: ma se è presente perché si sofferma ad ammirare il paesaggio,
il sole che tramonta, la campagna e poi si fa indefinito, gelido, assente, cronachistico quando punta
lo sguardo sulla tragica vicenda di quei bambini? Di Mirko, cioè di colui che fa "accadere" la storia
si viene a sapere ben poco. Del tutto assenti i genitori, fratelli o sorelle maggiori: nessuno controlla,
nessuno pone loro domande, c’è una totale incomunicabilità tra adulti e bambini. Ecco perché alla fine
si ha la sensazione che manchi qualcosa d’importante, di decisivo che avrebbe dato al romanzo maggiore
complessità narrativa.
Chiudo, allora, questo breve commento con un paradosso: "Dei bambini non si sa niente" è un romanzo molto
realistico, eppure eccessivamente astratto.
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