Diversamente da altre mie recensioni, vorrei iniziare l'analisi di questo romanzo noir francese
partendo dalla frase conclusiva del libro e non dall'incipit.
"La morte e' come certe donne e qualche uomo, non vuole quelli che la amano troppo."
E gia' questo la dice lunga sull'atmosfera cupa, dura e malinconica che si respirera' per tutto
il romanzo, dalla prima all'ultima pagina.
Una storia di duri, di vicoli ciechi (dead end) e di corruzione in una Parigi che stenta a far
emergere la propria bellezza il piu' delle volte contrapponendola all'animo umano piu' nero
e contorto. Una storia noir accompagnata in sottofondo dal blues piu' malinconico e senza speranza.
Una storia che il lettore piu' sensibile vivra' trattenendo il respiro, cercando di non farsi
coinvolgere, chiudendo piu' volte le pagine per potersi scrollare di dosso quella patina di
disperazione che sembra non dar scampo a nessun personaggio: dal poliziotto fallito, a quello
piu' scaltro, dai trafficanti di droga alle sfere piu' alte del potere.
Il romanzo di Pagan, interessante autore francese e, tra l'altro, ex poliziotto, e' un noir
che punta direttamente all'anima del lettore, che traccia a ritmo di blues la psicologia dei
suoi personaggi e non lascia mai trasparire un barlume di speranza, un minimo di ironia se non
la reciproca convivenza con la morte, sempre in agguato, ma sempre snobbata, quasi una comparsa,
la componente naturale della vita di ognuno.
Nelle pagine di "Dead End Blues" il lettore non trovera' intriganti scene d'azione o dialoghi
americaneggianti, scoprira' altresi' l'unico vero potere capace di agire nelle arterie di una
metropoli come Parigi parimenti ad un cancro che piano piano ne corrompe ogni sua parte sino a
far marcire e morire anche valori come onesta', coraggio, intraprendenza e a rendere vani sentimenti
quali amore e speranza.
Al contrario di quest'ultima, l'amore si intravede e piu' volte viene scandito da vecchi 33 giri
di blues eseguiti dal vivo, ascoltati per meta' perche' piu' dolorosi di una ferita d'arma da fuoco.
"L'unico potere, amico mio, l'unico vero potere e' quello di corrompere.
l'onesta' e' quello che si pretende dai poveri e dalla servitu'. Dai pezzi piccoli, non da quelli grossi."
Chi ha letto i romanzi di Derek Raymond del ciclo della factory, leggendo questo lavoro di Pagan
respirera' le stesse ambientazioni cupe, maggiormente malinconiche in quest'ultimo: nonostante
Londra e Parigi siano esteriormente cosi' diverse, il cuore, l'anima di queste due metropoli
del vecchio continente sembrano battere all'unisono, affaticati nel sostenere marciume,
ingiustizia e morte, alimentati soltanto da quel sottile (quasi inesistente) filo di speranza
fornito da quegli ultimi, pochi uomini duri e incorruttibili che sembrano riuscire a fermare
il tempo grazie al patto stretto tacitamente con la "vecchia signora in nero".
Come al solito non voglio addentrarmi nella trama o in un'analisi piu' tecnica, questo lo fanno
gia' i critici di professione, la mia recensione vuole solo essere un buon consiglio di lettura
e un'istigazione alla curiosita' del lettore appassionato.
meridianozero ci ha ormai abituato a delle chicche gustose ed imperdibili e personalmente spero
continuera' a farlo, grazie anche all'apporto dei lettori e al sostegno delle vendite.
Una nota a sfavore che mi sento questa volta di fare, sta nella quantita' pericolosamente alta di refusi
lungo le 255 pagine del libro per un'elegante prima edizione a cominciare dal nome dell'autore
(sara' Hugues o Hughes?).
Ovviamente si tratta perlopiu' di vocali scambiate o articoli doppi, ma durante una lettura
cosi' coinvolgente il refuso innervosisce il lettore costringendolo a volte a una rilettura
della frase e, nel caso del romanzo in questione, a farlo uscire di sintonia col blues di sottofondo.
La foto di copertina, invece, e' come al solito molto bella e rappresentativa.
Hughes Pagan, "Dead End Blues" (L'etage Des Morts), meridianozero, 2000
|